Storia
La memoria europea e la paura del cosacco
Le operazioni storiografiche fatte dalla politica sono sempre dubbie, non tanto per una questione di accuratezza quanto di prospettiva. Tuttavia esse sono in parte necessarie, perché è in primo luogo attraverso la definizione del proprio passato, di cosa se ne accetta o se ne rifiuta, di cosa si mitizza e di cosa si condanna, che un paese definisce sé stesso. Di solito si fa rientrare questo tipo di operazioni nello spettro, o appena al margine, della “Public History”, locuzione di origine americana con cui di solito si definisce tutta una serie attività che hanno a che fare con la storia e che non sono svolte da, né pensate per, un pubblico accademico. Si tratta chiaramente di operazioni potenzialmente assai delicate, perché tendono a dare interpretazioni sintetiche di fenomeni complessi per un tipo di utenza che non sempre ha gli strumenti critici per mettere in discussione quanto vede. Si fa Public History con i musei, con i siti storici, con le registrazioni di racconti orali.
A margine della Public History rientrano la monumentalità storica, la odonomastica (il dare nomi alle vie) e, e qui arriva il nostro punto, le attività istituzionali di un paese sul proprio passato: la scelta delle festività del calendario civile, le cerimonie che in queste circostanze si sviluppano, eventuali prese di distanza delle istituzioni dal proprio passato, etc. Naturalmente, questo tipo di lavoro non si svolge, o si svolge solo molto parzialmente, sul binario della ricerca storica. Esso tende anzi a un certo manicheismo e a tenere insieme, a volte, situazioni molto difficilmente riconciliabili tra di loro. Nella mia città, Bologna, c’è da questo punto di vista un esempio di Public History quanto mai ardito: il sacrario dei partigiani, cioè le foto che in maniera spontanea le famiglie dei caduti nella resistenza andarono ad appendere in pazza del Nettuno fin dai primissimi giorni della liberazione, dialogano con il comunicato del generale Diaz del 4 novembre 1918. Insomma, quello che le istituzioni scelgono di ricordare è bene, quello che scelgono di cancellare è male. In Italia, questo tipo di attività è stato fatto in maniera abbastanza pasticciata, tant’è che sopravvivono residui di un passato che non cessano di causare, giustamente, domande: l’obelisco del foro italico, o il monumento alla vittora di Bolzano (quest’ultimo un caso interessantissimo, e con pochi paralleli, di Public History rivisitata). In altri Paesi, dove le ferite sono molto fresche, questo è un tema centralissimo, come ad esempio in Sudafrica, dove Pretoria diventa Tshwane e mille altre situazioni del genere.
Questi discorsi, che riguardano situazioni e Paesi spesso molto diversi tra loro, hanno praticamente sempre un filo rosso che le accompagna dalla seconda metà del ‘900, e cioè che definiscono la propria memoria pubblica per via endogena. Dalla fine della seconda guerra mondiale si considera infatti la definizione di sé in base alla negazione, all’accusa o alla sconfitta dell’altro una pratica foriera di conflitti di cui non si sente rimpianto. Da questo punto di vista, non vi è dubbio che il percorso di cooperazione che ha portato all’Unione Europea abbia aiutato a sradicarsi, quanto meno ai livelli istituzionali, di pregiudizi o rancori vecchi di secoli. Il Portogallo non si definisce più in base alla Spagna, né l’Italia ha senso in sfregio all’Austria: eppure nel nostro inno – ultima strofa – l’Asburgo è descritto come un’aquila spennata che, insieme al cosacco russo, ha bevuto il sangue d’Italia e di Polonia.
E proprio intorno alla paura del cosacco russo verte la “Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. Senza addentrarci nelle imprecisioni e soprattutto nelle omissioni storiche del testo (una per tutte: Stalin si menziona spesso, ma mai nella parola “Stalingrado”), quello che colpisce è il voler porre l’Europa degli anni 30 e 40 in una posizione di vittima di un mostro a due teste, sollevandosi nei fatti da ogni responsabilità. Anche perché è implicito – e anzi, lo si esplicita pure – che il paese che discende dalla testa del mostro che parlava in tedesco abbia preso le distanze dal proprio passato, mentre la Russia guarda alla testa del mostro con una qualche nostalgia. Pertanto, è Europa oggi ciò che non è Russia, con il vecchio giochino della nuora e della suocera.
A margine, questo volersi porre in posizione di vittima, o almeno di spettatore innocente, nei confronti della storia del ‘900 trapela nella risoluzione dall’uso del fastidioso e quasi escatologico termine “Olocausto”, al posto di “Shoah” o meglio “tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa”, come si dovrebbe dire.
Da Lilliput e Blefuscu in poi, anzi da molto prima, le identità si fondano spesso sulla definizione di un nemico e sulla sua demonizzazione. Uno dei problemi è che l’Europa era nata esattamente per abbandonare questo meccanismo per sempre.
Foto: mappa di Stalingrado Sud, Library of Congress Geography and Map Division Washington, da Wikipedia, pubblico dominio.
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