Storia
Quasi privata. La memoria dei militari nei lager
(Ognuno ha il suo rapporto con la Giornata della Memoria e sto per raccontare il mio. Lo faccio perchè mi pare che la questione specifica riguardi anche altre persone e vincendo un forte imbarazzo a scrivere in prima persona. Tutto sommato, del resto, potrei aver raggiunto un’età che giustifica la memorialistica; e su questa frase il direttore Tondelli farà di certo della motivata ironia).
La storia in breve è questa.
Mio nonno Maurizio aveva tre fratelli. Il maggiore fu il primo a partire, poi lui, poi il terzo, Ferenz, a cui il padre aveva dato tale nome ungherese in ricordo di un soldato che nella guerra precedente lo aveva tratto in salvo da una trincea bombardata. Per evitare di avere tutti i figli maggiorenni in guerra, il giovane fu inizialmente nascosto, protetto dalla comunità, ma per una soffiata alla fine fu arruolato.
Mio nonno e Ferenz si incontrarono un giorno ad Atene, sembra per caso. I rispettivi reparti si mobilitavano dal fronte greco e albanese, loro non si vedevano da anni, si trovarono lì. Passarono un pomeriggio assieme, salirono sul Licabetto, si scattarono una foto, e si salutarono.
Appena dopo, nel settembre del ’43, Maurizio fu fatto prigioniero e rinchiuso nel lager ad Amburgo; anche il giovane fu fatto prigioniero e nel febbraio successivo di fronte all’isola di Patroklos affondò con il piroscafo Oria bombardato dagli inglesi. Non si videro più, e nemmeno con l’altro fratello, disperso in Russia. Mio nonno fu liberato nel luglio del 1945 dopo due anni di prigionia e arrivò in Italia una sera di agosto, si dice malconcio. E così via.
A parte che ci vedevo la trama di un film di Spielberg, avevo sempre considerato queste vicende una storia famigliare, di cui raramente si parlava. E per quanto abbia pure scritto qualche libro di storia, non ho mai pensato ad esse se non nella dimensione privata. Fino a quando ho letto un’intervista di Vasco Rossi.
Un paio di anni fa, per combinazione e per turismo ero ad Atene e lessi questa intervista in cui Vasco parlava di suo padre, della prigionia in Germania, dei lunghi silenzi al riguardo per tanti anni, del fatto che con sua mamma aveva richiesto una medaglia d’onore, e che questa stava per essere concessa. E del suo orgoglio e del sentimento di avere fatto una cosa giusta in memoria del padre: una intervista semplice e toccante.
Per la prima volta cominciai a ragionare sul fatto che la vicenda di mio nonno non era un fatto individuale, o solo famigliare, ma un fatto collettivo, perfino pure di Vasco Rossi; e, però, per quanto il privato e il pubblico in quel momento si saldassero, mi parve pure che questa memoria, nonostante i libri e le ricerche recenti, non fosse di tutti e nemmeno di molti, fosse in sordina, una storia minore.
Salito al Licabetto, incominciai a incrociare semplici informazioni nelle banche dati disponibili in internet. Verificai che nelle liste vi erano pure i nomi dei miei congiunti, compilammo i moduli e un dossierino con tutte le date e le informazioni, li inviammo alla Presidenza del Consiglio: l’anno scorso fu insignito della Medaglia d’Onore mio Nonno, e quest’anno suo fratello.
Gli Internati Militari Italiani furono certamente seicentomila, ma gli ultimi computi arrivano a ottocentomila. Venivano portati in Germania, rinchiusi nei lager, costretti a lavorare fino allo sfinimento e, infatti, molti morivano.
L’unico racconto che ricordo, e quindi per quanto mi colpivano queste cose l’unico che mi fu fatto, è che mangiavano solo bucce delle patate, avevano le pulci e li picchiavano. Un lager insomma. Nel corso di due anni di prigionia il nonno spedì alcune lettere che sono state molto utili a ricostruire il suo dossier, erano scritte dietro a cartoline prestampate di propaganda fascista e nazista, in modo che arrivassero ai congiunti.
I prigionieri, infatti, potevano essere liberati e tornare subito in Italia, a patto che accettassero di arruolarsi nella Repubblica di Salò. La stessa proposta era fatta sistematicamente ai famigliari in Italia. Ma come facevano a non firmare, le mogli coi figli, sapendo che da loro dipendeva la libertà dei mariti? Non accettava quasi nessuno, anzi, nessuno; e la storia famigliare tramanda che il messaggio inviato dal prigioniero era fin troppo chiaro; non fraintendibile, diciamo.
Tra le considerazioni al riguardo la prima è questa; a me è sempre parso che questa sia stata una forma di resistenza più convinta e testarda ancora della resistenza sulle montagne. Per ragazzi che avevano fatto tre anni di guerra in grigioverde al fronte, in fondo morire con un fucile in braccio poteva pure essere “normale”; dire di no alla libertà, decidere di accettare la prigionia tutti i giorni per settecento giorni, mi pare una delle forme più precise del concetto di “resistenza”.
La seconda considerazione è che gli Imi non erano pochi, erano tanti. Se consideriamo loro, i loro genitori, mettiamo un fratello o una sorella per ognuno, le mogli e i figli, e poi i nipoti di quelli tornati, e ora siamo ai nipoti dei nipoti, queste vicende, tutte simili, che ormai formano una crescente memorialistica, hanno riguardato e riguardano direttamente e indirettamente milioni di italiani. Quanti, cinque? Dieci milioni?
Loro tornarono, entrarono nelle liste Ina-Casa, un posto di lavoro, e poi ricominciarono a fare la vita di sacrifici nell’Italia in costruzione di quegli anni. Erano molti, era un’esperienza condivisa da tanti uomini; ne parlavano fra di loro oppure stavano zitti come facevano in famiglia? Tutti seppellirono in se stessi i fratelli, i fronti albanesi, i lager e le colline del Licabetto? Incredibile.
E perchè questa cosa ancora oggi fatica a divenire memoria, se è stata ed è un’esperienza che, seppure indirettamente ha riguardato così tanti italiani? Fu una storia meno avventurosa della Resistenza in montagna, meno sconvolgente dei genocidi; è per questo che è meno ricordata?
L’anno scorso a Milano, alla consegna della Medaglia a mio nonno e ad altri ex prigionieri, il Prefetto disse: “La dignità nazionale all’Italia è stata restituita dai Partigiani e dagli internati militari italiani nel lager tedeschi”.
Sono parole importanti, alte, erano dette a parenti, figli nipoti, ma alcuni dei medagliati c’erano, molto in età ma per fortuna vivi. Reagivano e ringraziavano con una specie di stupore, con modestia e una certa ritrosia.
Il pubblico si commuoveva, anche gli studenti, ti commuovevi per forza e dovevi alzarti e camminare, guardare anche da altre parti per limitarti a piangere con moderazione. Ma capivi il loro disagio se pensavi a tuo nonno, a persone che tornate da là avevano lavorato e vissuto modestamente, mai avuto incarichi pubblici, mai parlato pubblicamente di quelle esperienze, mai chiesto niente e mai ricevuto un grazie nè una spiegazione. Era semplicemente una cosa che gli era successa, brutta finchè vuoi, ma passata. E ora, là, con il Prefetto, i sindaci, i giornalisti che li fotografavano, e gli applausi, erano giustamente orgogliosi e commossi, ma era strano.
Due generazioni, due guerre mondiali, due fratelli morti nell’acqua e nel ghiaccio e uno in campo di concentramento. La memoria di questa giornata è che è meglio le guerre non esistano, è meglio la pace. E, pure, che la vita degli esseri umani fino a poco tempo fa era un’avventura dolorosa, in cui potevi incrociare per sbaglio un fratello ad Atene, e poi saperlo affondato in mare per sempre. La Giornata della Memoria ci coinvolge tutti, molto profondamente.
immagine di copertina tratta da sprayedout.com
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