Storia

La memoria come ingombro. Stalin, per esempio, nel 70esimo della morte

5 Marzo 2023

Oggi 5 marzo è l’anniversario della morte di Stalin (accadeva 70 anni fa, per la precisione).

Eccetto lo storico Marcello Flores, mi pare che nessuno in questo giorno abbia invitato a riflettere sulla figura di Stalin.

Perché?

La domanda può apparire fuori luogo, eppure a me pare che quella data e quella memoria siano ancora parte essenziale del nostro tempo presente. Tanto forti da risultare inibente farvi i conti per davvero: a sinistra, a cui Stalin appartiene come famiglia politica, e a destra, che invece ne ha profondamente assimilato la tavola dei valori (e qui sta forse la novità più interessante per cui oggi nessuno ne parla).

Ma andiamo con ordine.

Siamo pieni di memoria per darci una coerenza, per riscoprire che nel passato non avevamo colto le novità.

E tuttavia avere memoria, o scegliere anniversari da ricordare non corrisponde solo a quel principio. Riguarda anche il fatto se si abbia voglia di fare i conti con i propri irrisolti. In quel caso avere memoria non è ricordare tecnicamente, ma è porre in relazione e far saltare il tavolo, tra ciò che si dice di essere e ciò che si è; tra un passato che ci appartiene nel presente e la determinazione per davvero a fare i conti con quel passato.

Allora a sinistra la sensazione è che oggi non essendoci più un erede diretto che rivendichi Stalin tra i propri «maggiori», quella storia sia stata definitivamente espulsa dal proprio bagaglio culturale.

In questo senso l’89 risulterebbe un vero spartiacque generazionale, concettuale, culturale. Ciò che si dimentica è che un’identità non è mai né solo, né prevalentemente, il risultato di un programma politico scritto sulla carta. Un’identità sono le immagini che si hanno, la storia della propria formazione culturale, l’idea che ci facciamo del futuro,ma anche i resirdui di passato da cui non si prende congedo per decreto o per cambiamento della veste.

Nella storia delle sinistre, anche quelle che avevano avuto minor frequentazione con Mosca, l’idea è che comunque quell’esperimento per quanto autoritario, fosse una degenerazione (qui sta tutta l’ambiguità della critica di Trockij)  rispetto a un modello che rimaneva da perseguire. O da cui comunque prendere esempio (le parole del neofita di André Gide nell’estate 1936 restano esemplari).

Rimanevano lontane allora – e ancora continuano ad essere lontane se non estranee  – sia le intuizioni immediate di Rosa Luxemburg (già diffidente nel1918 sugli spazi di libertà nel sistema nascente nella Russia rivoluzionaria) sia la forte criticità che prima gli anarchici, poi le molte voci del socialismo europeo avevano provato a richiamare l’attenzione sua metamorfosi totalitaria prevalente a sinistra.

Qui sarebbero sufficienti anche le sole parole che Gaetano Salvemini pronuncia al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti nel giugno 1935, quando dice (inascoltato e a malapena sopportato):

«Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania vi sono campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica vi è la Siberia. Vi sono dei fuorilegge tedeschi e italiani, e vi sono dei fuorilegge russi. Siamo tutti d’accordo che la libertà è il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto è creazione, sconvolge la tradizione ufficiale.

Ma vorrei aggiungere che la cultura, la creazione di oggi, sarà la tradizione ufficiale di domani. Il marxismo, che è una creazione antiufficiale nelle società borghesi, è diventato una tradizione ufficiale nella società sovietica. La libertà creativa è compressa nelle società borghesi di tipo non fascista ma è interamente soppressa nelle società borghesi di tipo fascista. Essa è ugualmente soppressa nella Russia sovietica. È in Russia che Victor Serge è prigioniero. Il fascismo è il nemico non solo in quanto capitalista, ma in quanto totalitario. Dopo secoli di zarismo, si può capire la necessità dell’attuale stato totalitario russo a condizione che ci si auguri la sua evoluzione verso forme più libere, ma bisogna dirlo e non si può celebrarlo come l’ideale della libertà umana».

E ancora in altro tempo quella riflessione come pensiero scomodo rimarrà nel senso comune a sinistra che con molti distinguo prenderà le distanze da quell’esperienza, ne condannerà gli eccessi, ma appunto qualificandoli come eccessi, non come parte del profilo coerente di quella storia.

Un processo che con disagio si avvia nel 1956, ancora non trova le parole ferme negli anni ’70 (per esempio nell’intervento che Enrico Berlinquer tiene a Mosca in occasione del LX anniversario della Rivoluzione d’ottobre), per poi apparentemente risolversi con la dissoluzione del sistema nel 1989.

Ma appunto proprio perché l’immagine è quella di un affondamento per vittoria dell’avversario, alla fine quel fascino o quella nostalgia non si risolvono nemmeno allora, e ancora oggi, di fronte alla dinamica della Russia post-sovietica, che ora, giocando sul sentimento di «anti-occidente» (un tema sensibile all’immaginario di una porzione consistente della sinistra  e delle sue metamorfosi, M5S inclusi) recupera consensi anche nell’immaginario culturale profondo delle destre (nuove e tradizionali).

Quel linguaggio riprende implicitamente una logica diffusa a sinistra negli anni del secondo dopoguerra quando il mito di Stalin andava fortissimo.

Nella retorica utilizzata allora dalla sinistra ufficiale stava infatti una concezione binaria della fedeltà politica: noi siamo ciò che loro non sono. Loro (fascisti, nazisti, franchisti, nazionalisti) sono la destra, noi la sinistra; loro reazionari, noi progressisti; loro le forze del male, noi quelle del bene., loro vogliono la guerra, noi la pace.

I sentimenti e l’immaginario politico tuttavia non sono così separati e distinti.

Qui quello che un tempo sarebbe stato una disamina dei non detti a sinistra si sposa con la nuova ideologia dominante a destra e con il linguaggio diffuso a destra. Una parte politica, la destra, che ha un suo profilo culturale. In questo ritenere, come afferma Aldo Schiavone  che la destra abbia meno bisogno della sinistra di nuovo pensiero, mi sembra, un modo di analizzare l’identità della destra poco accorto a ciò che la destra ha attraversato in questi anni.

Ideologia che dello stalinismo accoglie la retorica della visione complottista della realtà, la dimensione sovranista della ideologia politica e che è propria dei sistemi culturali totalitari del Novecento, ovvero di ciò che lo storico Hans Mommsen indica come «pratica della radicalizzazione cumulativa» una condizione che fa forza sul concetto di emergenza per definire politiche di controllo, discriminative, persecutorie di persone singole, gruppi identificati come nemici, o come minaccia alla propria stabilità . Meglio al proprio diritto alla felicità.

Tutti aspetti che sono propri  già dello Stalin della fine degli anni ’20 e che si esasperano soprattutto dell’ultimo Stalin (quello successivo alla fine della Seconda guerra mondiale e costruttore del sistema si controllo sovietico in Europa orientale), ma che sono anche ampiamente presenti nella stagione dello stalinismo in ascesa tra fine degli anni ’20 e anni ’30.

Negli ultimi anni del totalitarismo staliniano sono centrali e paradigmatci i processi a tutta quella parte di mondo ebraico comunista che lentamente è assimilato all’immagine di «nemico del popolo»; alla creazione di capri espiatori su cui scaricare tensioni, emozioni e produrre mobilitazione identificativa con il potere.

Il tema è la visione complottista della politica, la costruzione di una politica fondata sul principio della ricerca del «nemico interno».

Un profilo culturale, politico, mentale che ha molto in comune con la costruzione della realtà della Russia staliniana soprattutto negli anni del secondo dopoguerra sulla scia del codice culturale e propagandistico della «grande guerra patriottica».

Se qualcuno ha dei dubbi è sufficiente la lettura del cap. VI (dal titolo «Dentro il vortice)» della prima parte del volume di Tony Judt, Dopoguerra, quaranta pagine molto chiare intorno alla assunzione del vocabolario di Stalin e dello stalinismo nel linguaggio delle nuove destre in Europa nell’ultimo decennio.

Ma soprattutto l’idea centrale per l’affermazione del modello culturale e di potere dello stalinismo di «nemico del popolo» di nazionalismo etnicista, che ritorna nei lessici delle destre e nei cui confronti al di là delle parole di circostanza non si intravede a destra nessuno che per davvero abbia la voglia e l’intenzione di contrastare e di combattere. A dimostrazione che la vecchia tradizione culturale liberale oggi a destra oggi è patrimonio di minoranze molto strette o semplicemente è fuori gioco.

 

Il risultato dunque è il silenzio su Stalin.

Silenzio né imbarazzato, né perplesso, ma convinto perché i fondamenti ideologici di quella cultura dell’oppressione e della non libertà sono parte del vocabolario che circola dentro la destra e che la destra al governo si guarda bene dal contrastare o che comunque riduce a «camerati che sbagliano».

Per questo se il profilo politico-culturale di Fratelli d’Italia sembra alludere al conservatorismo nazionalista o, come altri hanno indicato nell’abbandono delle nostalgie per il ventennio fascista, è anche vero che quell’approdo non è definitivamente acquisito e le sirene della nostalgia ancora esercitano un forte richiamo.

Come non ha mancato di sottolineare la storica Simona Colarizi il partito di Giorgia Meloni non ha ancora fatto (né sembra particolarmente interessato a fare) i conti con il suo passato.

Discutere di Stalin e delle sue eredità nel tempo aperto dalla guerra russo-ucraina non è parlare di passato.

Quando si parla di Stalin, si parla di noi, oggi, a sinistra e a destra.

Dunque non è più solo un percorso da affrontare a sinistra, o un problema della sinistra, ma anche, e profondamente delle destre. Non riguarda tanto gli eventi, ma le mentalità. Il che rende questo silenzio significativo del processo di democratizzazione e di libertà che sta ancora davanti a noi. Nessuno può pensare di essere salvo o indenne o escluso.

Se lo pensa, fa finta.

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