Storia

La memoria che non c’è. Palmira 18 agosto 2015 e Sarajevo 25 agosto 1992

17 Agosto 2018

Il 18 agosto non è entrato nel calendario civile dell’umanità né Khaled al-Asaad, l’archeologo, custode di Palmira, torturato, ucciso, decapitato e “mostrato al mondo” nella violazione del suo corpo, il 18 agosto 2015, fa parte dela memoria collettiva. Lo stesso per il 25 agosto 1992, il giorno in cui i miliziani serbi sparano sulla bibilioteca di Sarajevo con lo scopo dichiarato di distruggerla.

E’ un fatto che tra quei luoghi che nel corso dell’età contemporanea sono associati alla pratica dello sterminio e della distruzione totale della civiltà, né Palmira, né Sarajevo sia diventatate  tappe del pellegrinaggio civile.

Credo che sia importante e, soprattutto, non sia improprio associare Sarajevo a Palmira, perché mi sembra, che la memoria pubblica incerta su quei due luoghi (ma forse anche altri, scavando, se ne potrebbero individuare) dimostri che la pratica, solo parziale, e comunque non impegnativa,  della difesa della libertà anche da parte di coloro che ogni giorno la invocano. Ma è importante, sottolineare come la mancata difesa dell’idea di libertà a proposito di Sarajevo o di Palmira non riguardi tanto il principio dela libertà, quanto l’idea di meticciato culturale che quei due diversi luoghi evocano.

Forse così quel silenzio diventa meno sorprendente. Non meno scandaloso. Ma andiamo con ordine.

Sarajevo25 agosto 1992, dunque, cominciamo da lì.

Se è vero che esiste un sottile filo simbolico del libro come legame tra persona e storia la vicenda di Sarajevo non parla solo ai bibliofili ma anche a coloro che nel tempo hanno intravisto nei patrimoni librari, nelle collezioni depositate nelle biblioteche un modo di riconoscersi nella storia e forse anche di ritrovare il senso di una storia collettiva.

Prendo spunto dalle pagine che András Riedlmayer dedica a quell’episodio dell’agosto 1992 (anche in quel caso un luogo della memoria mancato) nel libro di Jonathan Rose The Holocaust and the book.

I libri sono tornati a bruciare a Sarajevo nel 1992.

Riandando al 25 agosto 1992,  ai giorni dell’incendio che distrusse la Gradska vijećnica Sarajevo [ lett.: Sala di lettura municipale], ovvero la biblioteca, scrive Riedlmayer:

«I miliziani serbi, appostati sulle colline che circondavano Sarajevo, battevano l’area intorno alla biblioteca con il fuoco delle mitragliatrici, cercando di impedire ai vigili del fuoco di spegnere l’incendio lungo le rive della Miljaka, nella città vecchia. Le raffiche delle mitragliatrici facevano volare le schegge dal palazzo merlato costringendo i pompieri a ripararsi. […] Quando abbiamo chiesto a Kenan Slinic, comandante dei vigili del fuoco, perché mai rischiasse la vita, egli, sudato, coperto di fuliggine, a due metri dalla fiamme, ha risposto: `Perché sono nato qui e loro stanno bruciando una parte di me».

Può apparire una risposta ovvia, eppure ha un significato molto profondo che ci riguarda oggi e che la distruzione di Palmira ha riproposto.

Ma continuiamo con le parole di Riedlmayer.

«In tutta la Bosnia – prosegue Riedlmayer – biblioteche, archivi, musei e altre istituzioni culturali pubbliche e private furono destinate alla distruzione nell’intento di cancellare le testimonianze materiali – libri, documenti, opere d’arte che potessero rammentare alle generazioni future che vi fu un tempo in cui persone di diverse tradizioni etniche e religiose condividevano in Bosnia la vita e un patrimonio comune». E conclude: «Il fatto stesso di distruggere le istituzioni e la documentazione di una comunità fa parte in prima istanza di una strategia di intimidazione, il cui scopo è espellere i membri dei gruppi presi di mira: tuttavia tale distruzione svolge un preciso ruolo anche a lungo termine. Quei documenti erano la prova che in quel luogo vivevano anche altri, altri che lì avevano le proprie radici».

Questo dunque voleva dire Kenan Slinic quando affermava che stavano bruciando una parte di sé.

Il libro, la sua storia, la possibilità che questo coabiti, coesista e sia parte di una collezione che vive della sua disomogeneità, tutto questo disturba i poteri totalitari cui corrispondono saperi autoriferiti.

Tutte le retoriche, le politiche e le pratiche dei neonazionalismi e dei neo-etnicismi di fine secolo e di inizio millennio devono fare i conti con questo sapere composito; con la storia materiale di un sapere stratificato nel tempo che testimonia della grande multiformità delle proprie fonti e che dunque per sua natura ha una storia ibrida, più precisamente meticcia. A Sarajevo fare i conti con quella questione voleva dire per chi quella dimensione rifiutava distruggere la biblioteca.

Palmira è come la biblioteca di Sarajevo. Palmira, infatti, non è solo un bene culturale dell’umanità che il fanatismo ha tentato di violare ed è quasi riuscito completamente a distruggere.  Palmira per la sua storia e per la sua costruzione, per la lingua che circolava nelle sue vie in antichità, l’aramaico, una lingua che non è di nessuna nazione, ma che vive dell’intreccio e della capacità di tenere insieme più lingue e più saperi, e per questa via, fondare un sapere  che funziona da crocevia. L’aramaico non era la testimonianza del compromesso, e dunque della rinuncia, al ciontrario,  – era la testimonianza del “meticciato” come luogo di produziuone di sapere aumentato.

Per questo Daesch voleva distruggerla. In questo senso la distruzione non totale di Palmira e l’uccisione di Khaled al-Asaad, non sono la ripetizione di ciò che, per esempio, è avvenuto nel marzo 2001 a Bamiyan, quando i talebani afghani fanno esplodere le statue del Buddha. L’uccisione di Khaled al-Asaad ha un significato  più radicale.

Palmira non era solo un luogo degno di rispetto e Khaled al-Asaad un intellettuale operoso. Palmira è soprattutto un simbolo, di “saggezza meticcia”, termine di molte implicazioni.

“Saggezza meticcia” vuol dire cultura che si costruisce per incroci, sovrapposizioni, ibridazioni. Una cultura che non è “figlia di un dio minore”, ma che è “di più”.

E’ importante ricordare che non esistono nella storia culture pure e che non hanno mai tradito il loro codice originario. Le culture, quelle che sopravvivono nel tempo, sono sempre il risultato e l’effetto di prestiti: danno ad altri ma soprattutto si mantengono nel tempo perché da altri ricevono.

Cultura viva significa prendere atto che ogni cultura non è mai uguale a se stessa, ma è significativamente se stessa se continuamente ripensa, modifica, assume risorse, concetti, fondamenti  che arrivano da altre parti. Una cultura è viva come conseguenza di questo processo di costante mescolamento e di ibridazione, perfino con quelle culture con cui pure è in aspro conflitto e da cui afferma non solo distanziarsi, ma anche contrapporsi contro l’assimilazione, interpretata ideologicamente come la morte di sé, come il venir meno a se stessi.

Palmira era esattamente la testimonianza e la memoria di questo processo: un luogo che nel tempo produce meticciato culturale; il segno dell’intercultura, più che della multicultura. Per questo Daesh l’ha voluta  distruggere.

Proprio per questa sua natura interculturale, nel profilo nazionalista che domina il nostro linguaggio anche di qua, ad Ovest di Palmira, Khaled al-Asaad non è entrato nel nostro sapere condiviso. Così come Kenan Slinic che nessuno ricorda e che solo per la scrittura di András Riedlmayer riesce a parlare a noi e forse ad avere un luogo nella nostra memoria (sempre ovviamente che siamo disposti a superare quell’idea di identità che è ben radicata in ciascuno di noi).

Quel loro  – di Kenan Slinic come di  Khaled al-Asaad intendo – attaccamento per le tracce composite di una storia, per le radici che non sono radici, testimoniano che cosa debba intendersi con cultura: non il distillato puro di una sola matrice, ma il reticolo contorto di molte storie che si intrecciano, come scrive  l’antropologo Adriano Favole nel suo Vie di fuga.

Questa è una verità che nel linguaggio dominante di questo nostro tempo fa fatica a farsi strada. Non solo nei luoghi dell’eccidio culturale, ma anche qua, dalle nostre parti, dove il nuovo pensiero sovranista gode di vasto consenso.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.