Storia
La “lezione minima” della Resistenza
La Resistenza è stata a lungo una risposta. Una risposta che legittimava le istituzioni post-1945 in tutta Europa con la retorica della “liberazione nazionale” e con quella della “guerra antifascista” (intesa soprattutto come antinazista e antitedesca). Una risposta che nondimeno alimentò, dagli anni Sessanta, le aspirazioni e le velleità “rivoluzionarie” di giovani generazioni ansiose di riprendere in varie forme il radicalismo antifascista. Una risposta che infine, in Italia più che altrove, la sinistra ha cercato di recuperare nel tentativo di rinnovamento post-1989, in chiave di opposizione alle forze che si proponevano di chiudere l’esperienza della “Prima Repubblica”. Tutto questo, in larga misura, appare ormai archiviato. Soprattutto perché completamente mutato è il contesto europeo e globale.
Una domanda per il futuro
Nel settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale e del 25 aprile, la Resistenza deve diventare – deve tornare ad essere – una domanda.
Una domanda che riguarda il passato, ma che è aperta al presente e al futuro. Una domanda impaziente, ma riluttante a risposte facili e scontate. Una domanda piena di incognite e priva di retorica. In fondo, era già stato così per coloro che, tra il 1943 e il 1944, dovevano decidere se battersi (e scegliere per quale parte battersi), oppure nascondersi, o semplicemente aspettare la fine delle ostilità. L’ha spiegato memorabilmente Italo Calvino, autore di uno dei libri più belli sulla e della Resistenza, Il sentiero dei nidi di ragno: «Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile». Una linea molto sottile separava dunque «la parte del riscatto […] dall’altra», «la parte dei gesti perduti, degli inutili furori».
Nessuno allora conosceva il significato del “25 aprile”, eppure ciascuno ne immaginava uno diverso. Che ci fosse un dopo tutti lo sapevano, quando ormai il destino dell’Ordine europeo nazista e dei suoi collaboratori (a partire dai fascisti italiani) era ormai segnato. Quali forme, e in quali tempi, potesse assumere il dopo non era ancora chiaro. Come in ogni guerra civile.
Storia europea, memorie nazionali
Perché dunque ricordare oggi il 25 aprile? In quale prospettiva osservare gli eventi che segnarono la storia d’Italia e d’Europa, a distanza di settant’anni dal 1945? Cosa significano oggi gli ideali dell’antifascismo, che animarono alcuni di coloro che parteciparono alla lotta contro il nazismo e il fascismo? Come raccontare la “Liberazione” ad un giovane italiano del 2015? Cosa può comunicare ai cittadini europei di oggi e di domani, che magari hanno o avranno radici in storie e terre ben diverse da quelle del vecchio continente?
Paradossalmente, il significato del 25 aprile, o meglio del 1945, oggi appare meno univoco e più sfumato di quanto fosse un quarto di secolo fa. Fino alla caduta del Muro di Berlino (e in parte oltre), esso era definito senz’altro attraverso l’antifascismo, che identificava la fine della Seconda guerra mondiale, la sconfitta del fascismo e del nazismo, il “ritorno” o la “vittoria” della “democrazia”. Per molti versi, non può che essere così se si guarda alla fine della guerra dalla consueta prospettiva di Londra, Parigi, Roma, oppure (per quanto riguarda la primavera del 1945) di Milano, Genova e Torino. Non può però essere così, se si guarda agli stessi eventi dalla diversa e più eccentrica prospettiva di Vilnius, Varsavia, Praga, Budapest o Bucarest. Solo in parte così, infine, può essere dalla prospettiva di Vienna e di Berlino.
La fine della guerra segnò la catastrofica disfatta della più radicale esperienza di dominio totalitario, quella nazista, conducendo l’Europa centro-occidentale sull’impervia strada di nuove democrazie costituzionali, ben diverse dai precedenti sistemi liberali. Al tempo stesso, consegnò l’Europa centro-orientale – dove la guerra era stata quanto di più distruttivo si possa immaginare – all’Armata rossa, aprendo la fase, prima rivoluzionaria, poi autoritaria, delle democrazie popolari ispirate al modello sovietico.
Una vicenda di vittime
Dopo che la Guerra Fredda è finita, ed ora che i progressi dell’integrazione europea hanno incluso i paesi ex-comunisti in una comune architettura economica e politica precaria ma persistente, tutto questo passato appare in una luce diversa.
Le sorti della Seconda guerra mondiale furono molto diverse a seconda delle regioni d’Europa – e comunque segnate dalle tragiche eredità della guerra: comunità intere scomparse, decimate o spostate, città rase al suolo, istituzioni crollate o destabilizzate, economie piegate, fame e morte ovunque.
Istituito in molti paesi d’Europa e del mondo all’inizio del XXI secolo, il Giorno della Memoria racconta il senso della più terribile di queste esperienze, lo sterminio degli ebrei d’Europa. Per altro verso, esso ha alimentato una versione della memoria del Novecento simile ad una sorta di necrologio.
Ciascun gruppo nazionale tende a presentarsi e accreditarsi come vittima della violenza del secolo passato. In un tempo in cui tutti sono state vittime, non trovano spazio gli assassini e i loro complici. Una nuova forma di innocenza, figlia dell’identificazione con le vittime, cancella ogni senso di responsabilità.
Fascismo e antifascismo, ieri e oggi
Pochi giorni dopo i festeggiamenti del settantesimo della Liberazione italiana, a Mosca, il 9 maggio, si celebrerà, con la tradizionale parata della vittoria, l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Più che mai quest’anno, però, quella manifestazione rivelerà le ambiguità e le contraddizioni dell'”antifascismo” – fino alle sue paradossali ibridazioni con il “fascismo”.
Infatti, tra il 2013 e il 2014, attraverso la crisi e il conflitto russo-ucraino, la contesa intorno al “fascismo” e all'”antifascismo” ha conosciuto una nuova e inattesa attualizzazione – in una doppia direzione. Da un lato, la formazione e l’affermazione di dinamiche e movimenti che in tutto e per tutto possono dirsi fascisti; dall’altro, il ricorso intensivo ad una propaganda che rimanda sistematicamente alla Seconda guerra mondiale quale chiave per interpretare e legittimare i conflitti del presente. Il ruolo dei gruppi nazionalisti radicali in Ucraina e in Russia, il progetto eurasiatico di Putin e la natura del suo sistema di potere, la riabilitazione russa del Patto tra Hitler e Stalin, la crescita di partiti estremisti filo-russi in tutta Europa pongono un problema urgente, che segna una svolta decisiva rispetto all’ordine geopolitico post-Guerra Fredda. La crisi ucraina, diventata sempre più anche una crisi russa, rischia, attraverso molteplici canali (la Grecia, ma non solo), di propagarsi all’intera Europa.
Sarà bene ricordarsene il 25 aprile. In questo quadro, infatti, il settantesimo anniversario della fine della guerra mondiale e di quella civile italiana offre l’occasione per recuperare una “lezione minima” della Resistenza.
La responsabilità e la storia
Il Novecento non è soltanto popolato di vittime, ma anche di carnefici, di spettatori più o meno attivi, di (molti) renitenti e di (pochi) resistenti.
Gli italiani, ad esempio, assunsero una responsabilità fondamentale, con l’invenzione e l’affermazione del fascismo, nell’innescare la sequenza di crisi che condussero alla Seconda guerra mondiale. Questa verità storica è tuttora trascurata, ridimensionata, ignorata, negata.
Il ruolo preminente della Germania nazista – insieme ad una retorica strumentale della “liberazione antifascista” – ha infatti costituito uno schermo funzionale all’auto-assoluzione delle altre nazioni europee, in primis l’Italia fascista.
La politica, la società e la cultura italiane sono ancora ben lontane dall’aver fatto pienamente i conti con il passato fascista e con la sua lunga eredità. In questo senso, il “riscatto” di cui parlava Calvino e che implicava un’assunzione di responsabilità non è mai diventato un patrimonio comune.
Una lezione per il futuro
Una nuova politica europea oggi non può che passare attraverso il riconoscimento del peso del passato sul presente, ma anche attraverso la consapevolezza del carattere aperto e indeterminato del futuro.
Per ironia della storia, oggi le democrazie europee sono a rischio perché ormai ritenute stabili e durature, la pace sul vecchio continente è minacciata perché data per acquisita, la violenza politica (che sia di natura ideologica o religiosa) appare radicalmente estranea perché delegittimata o rimossa dalla storia occidentale, la memoria del Novecento è labile perché preferita alla conoscenza e alla comprensione, l’Unione Europa vacilla (al di là delle sue disfunzioni strutturali) perché immaginata come una potenza civile e inoffensiva – dunque senza nemici.
In questa chiave l’eredità politica e intellettuale della Resistenza trova un nuovo e profondo senso. Si tratta di un’eredità più da comprendere che da celebrare a settant’anni da quel 25 aprile. Solo così, infatti, ci potrà insegnare la fragilità del tessuto democratico europeo, la molteplicità dei suoi nemici e la sempre incombente minaccia della sua disintegrazione più o meno violenta.
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