Storia
La lezione di storia e le domande di Saul Friedländer
All’uscita di Holocaust sugli schermi televisivi in Europa (in Germania nel gennaio 1979, in Francia e in Italia nella primavera dello stesso anno) la reazione fu molto contrastata. Claude Lanzmann, per esempio, giudicò che in quella fiction ci fossero molte ambiguità: il fatto che essa collocasse un evento in un passato che non aveva relazione col presente; il fatto che lo relativizzasse; il fatto, infine, che non ci fosse percezione della violenza, del degrado fisico dei protagonisti, i cui corpi non compaiono segnati dalla “discesa” verso la morte. Insomma un prodotto hollywoodiano che falsificava la storia
Un tema che non riguarda solo un prodotto specifico, ma che costringe a mettere l’occhio su una fase della costruzione di scene del passato su cui si concentra la produzione filmica nel corso degli anni ’70.
Il riferimento è ovviamente a Portiere di notte di Liliana Cavani o a Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller, e al tema del Kitsch su cui nel 1976 insiste Bruno Bettelheim.
Saul Friedländer nel quarto dei saggi che compongono questa antologia (cinque testi veramente essenziali) ci obbliga a prendere la misura di questo percorso.
Giustamente ricorda le pagine di Susan Sontag sul cinema di Leni Riefensthal (un testo da tempo scomparso e che opportunamente andrebbe riproposto) senza tralasciare il laboratorio di ricerca di Siegfried Kracauer a dimostrazione della lunga tastiera culturale che segna la sua indagine storica e storiografica.
Ma partiamo dall’inizio.
Saul Friedländer nel primo dei cinque testi che apre questa densa antologia curata con competenza da Simon Levis Sullam, ci descrive un percorso culturale, emozionale, e mentale in cui contano molti fattori soprattutto tra gli storici: un dato generazionale segnato da tre generazioni diverse questo tema è trattato puntualmente nel terzo saggio dell’antologia, dal titolo Trauma e transfert nella storiografia sulla Shoah [pp. 73-102]. Ovvero: coloro che sono adulti durante il nazismo; quelli che sono adolescenti e dunque si formano in quegli anni; quelli che sono bambini alla sua caduta).
Il secondo aspetto è riferito alle immagini che la Germania sceglie o con cui si confronta ogniqualvolta nel lungo dopoguerra (ma soprattutto partire dalla fine degli anni ’50, perché come ricorda giustamente Saul Friedländer, per circa un ventennio a dominare fu il silenzio, comunque la reticenza); infine il terzo tema è la globalizzazione della memoria.
Quel percorso è segnato da almeno altre tre questioni fondamentali relativamente alla capacità degli storici di interrogare il passato, ma anche di contribuire, proprio in conseguenza del rendere pubblica la problematicità del loro contributo alla definizione de alla ricostruzione della scena della storia, a «prendere la misura» della storia.
Significa per esempio, come chiarisce nel secondo saggio che compone questa antologia tra scavare nella psicologia dei «perpetratori» ovvero di chi compie lo sterminio, o collabora alla sua messa in atto; poi di collocare la «Soluzione finale» in una interpretazione storica globale. È inerente al primo punto la questione se l’oggetto di persecuzione nella visione degli sterminatori abbia ancora una dimensione umana o meno; è inerente al secondo se ancora, anche a distanza di tempo, sia possibile rintracciare un significato in quell’evento o, invece, proprio in conseguenza della sua eccezionalità storica, lo sterminio sia destinato, scrive a «rimanere inaccessibile a tutti i tentativi di una rappresentazione e di una interpretazione significative» [p. 71].
Accanto il tema è come e in che forme ritorna la memoria, o si impone il recupero del passato nei bambini sopravvissuti (un tema su cui Saul Friedländer richiama il laboratorio narrativo di Aharon Appelfeld) o obbliga a riprendere in mano il laboratorio di indagine «complicato» che Franz Neumann apre con molto tormento alla fine degli anni’40 scrivendo su ansia e politica un saggio comparso in versione italiana 50 anni fa sulla rivista «il Mulino» e che forse oggi meriterebbe una ristampa e una rilettura meditata.
O per finire, nel quinto e ultimo saggio che chiude la raccolta, il tema degli omicidi di massa a cui partecipa con impegno la Wehrmacht tra 1941 e 1944 di cui tanto in prima linea, quanto nell’opinione pubblica tedesca durante la guerra si hanno informazioni se non dettagliate e precise, certo consistenti.
Si chiede Saul Friedländer: “L’essere a conoscenza di enormi massacri è diverso dall’essere a conoscenza dell’annientamento totale, ma la differenza tra le due è così drastica come suggeriscono molti storici? La conoscenza di «Auschwitz» è così decisiva?” [pp.150-151]
E aggiunge:
“Si aggiunga a tutto ciò un aspetto peculiare: mobili, tappeti, vestiti, oggetti domestici e persino le case che appartenevano agli ebrei deportati divennero disponibili per i meritevoli Volksgenossen (coloro che erano considerati, nel gergo nazista, membri della comunità razziale tedesca). Inoltre gli effetti personali potevano esser comprati a prezzi stracciati presso gli Judenmärkte (letteralmente «mercanti di ebrei») delle principali città, o venivano distribuiti dal Winterhilfe (il soccorso invernale), speso dopo aver rimosso le etichette originali. I benefici materiali rafforzavano i vantaggi del silenzio a fronte dello sterminio di massa [p.153].
Il tema, precisa nell’ultima pagina, non è scandalizzare o proporre un giudizio morale, ma obbligare la ricerca storica a andare dritta al punto, che riassume così:
“L’elisione di una precisa rappresentazione dell’orrore può condurre a una distorsione del quadro generale e anche un’alterazione della storia di una società che fu contaminata dalla dimensione criminale del nazionalsocialismo più di quanto si è presunto per lungo tempo” [p. 157].
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