Storia
La lezione di Giorgio Galli
Un intellettuale libero come Giorgio Galli oggi in Italia probabilmente avrebbe vita grama oppure molto più probabilmente non entrerebbe tra coloro e cui opinioni meritano di essere «prese sul serio». Eppure di quella dimensione curiosa, o almeno della voglia di scavare oltre ciò che appare noi abbiamo particolarmente bisogno.
Anche per questo Per Giorgio Galli. Saggi e ricordi (Biblion), a cura di Maria Grazia Meriggi uscito in queste settimane è un libro opportuno. Il libro è una raccolta di saggi di amici, di allievi.
Francesca Pasini, compone una raccolta di citazioni [pp.171-186] per proporre un viaggio sul tavolo di lavoro di Giorgio Galli.
Mi sembra un buon modo per provare a dare un riepilogo di Giorgio Galli, uomo pubblico, ma anche lettore curioso. Uomo dotato di una «lunga tastiera».
Ne scelgo una fra quelle che propone che mi sembra suggestiva perché ricca di implicazioni. È ripresa dal volume Stalin e la sinistra e dice così:
“L’influenza dello stalinismo è stata forte soprattutto in Italia e solo affrontando le questioni che i sintetizzano nel suo nome, si può agire agli antipodi di quello che Stalin rappresentò. Se egli era autoritario, la sinistra dovrà essere più libertaria ampliando i diritti civili. Se egli era antidemocratico, la sinistra dovrà essere più democratica estendendo il potere di rappresentanza nell’ambito dell’economia. Si potrebbe osservare che la sinistra fa già il contrario di quanto fece Stalin; ma questi diritti non sono garantiti in misura eguale a rutti i cittadini neanche nelle democrazie più avanzate. Fare il contrario di Stalin, non significa richiamarsi al liberalismo dell’Ottocento, ma inventare quello del XXI secolo. Per togliere l’arma di Stalin a chi si batte per la conservazione di tutte le ingiustizie, occorre parlare di lui conoscendo bene la realtà della quale fu espressione” [pp. 172-173].
Per conoscere quella realtà dunque si tratta di entrare non solo nel laboratorio inquieto di un intellettuale per molti aspetti irregolare, ma anche cogliere le suggestioni che quel laboratorio è ancora capace di darci.
Suggestioni che in questo libro non mancano.
Ivano Granata (pp. 97-112) che con lui lavorò a lungo a Scienze politiche a Milano restituisce non solo il senso di un’amicizia, ma anche soprattutto un’atmosfera, un’istantanea di cosa sia stato in un momento della storia pubblica il mondo della ricerca universitaria quando sentiva se stesso come parte del “Paese”.
Lo stesso vale per le di ricercatori nell’ambito dele scienze politiche, una disciplina allora ancora legata al tema delle a storia delle dottrine cui però lentamente si stava accompagnando un processo di trasformazione sia disciplinare che di profilo. Un profilo che è sicuramente costituito da molto lati e che sia Piero Ignazi (pp. 59-67) che Francesco Bochicchio (pp. 69-86) nei loro due contributi dedicati a Giorgio Galli sociologo della politica e al suo contributo culturale, ma anche mentale. Basti pensare a come la sua locuzione inventata – “bipartitismo imperfetto” – entra dalla metà degli anni ’60 nel gergo pubblico per non abbandonarci mai più. Locuzione che molto più efficacemente di altre mette a nudo il falso processo di modernizzazione del Paese
Lo stesso vale per le suggestioni che Lorenzo Pezzica (pp. 137-148) su ideologie politiche contemporanee (soprattutto nazismo) e l’esoterismo, una dimensione culturale che se a lungo è stata guardata come eccentrica, come un aspetto deviato della modernità, è tornata prepotentemente ad affermarsi nel discorso pubblico, nel tempo della pandemia, nel temo della mobilitazione politica dei sovranismi, dove la convinzione che il complottismo ha un peso non marginale, e dove contemporaneamente riprendono forza i linguaggi persecutori contro le minoranze, contro le donne , contro tutti quegli attori trasformati in simboli della «minaccia all’ordine».
Un aspetto che torna nelle pagine dense che Andrea Panaccione (pp.163-167) propone a proposito della dimensione politica, culturale della Russia di Putin quando mette a tema la fisionomia politica, ma anche culturale e antropologica della lunga vicenda russa dalla crisi del socialismo reale, al crollo del comunismo e poi nelle esperienze culturali che accompagnano prima la rinascita della cultura di opposizione nel tempo di Gorbacev – una dimensione, è bene non dimenticarlo – dove il nazionalismo antisemita di Pam’jat non rappresentava una minoranza esigua, ma era un aspetto non marginale e culturalmente consistente della formulazione di una nuovo codice di identità con cui la Russia postcomunista si presentava al mondo e che le vicende fino ai nostri giorni non hanno fatto che confermare.
Ma anche la riflessione sulla natura, la struttura e la funzione dei partititi politici. Un tema a cui specificamente dedica pagine dense Maria Grazia Meriggi (pp. 87-96) in un tempo in cui la dimensione pubblica del partito politico sembra decisamente in caduta libera.
Meriggi, riprendendo le osservazioni di Galli sulla nascita del partito politico moderno riflette sulla doppia forma del partito e la sua struttura.
Ovvero.
Da una parte i partiti espressione di valori e di interessi delle classi dirigenti che trovano nelle forme istituzionalizzate della rappresentanza (in primis il parlamento) la forma e il luogo di verifica della propria forza.
Dall’altra il partito che si struttura dando luogo e forma a strutture della rappresentanza nella società civile cui corrispondono tutte le forme di partecipazione pubblica che partono dal basso, che guardano se stesse come non rappresentate nei sistemi politici e che dunque costruiscono forme per dare autorevolezza non solo al proprio progetto ma anche alle forme in cui sostanziare la propria visibilità pubblica.
Il che allude a due aspetti dei due saggi che aprono il volume:
1) la ricostruzione del percorso di scrittura e di partecipazione di Galli a “Critica sociale” la rivista culturale del Psi tra anni 1954 e 1969 che Giovanni Scirocco (pp. 41-57) ricostruisce con attenzione;
2) il saggio che il giovane Galli compone nel 1953 con Fulvo Bellini dedicato alla storia del Pci, e poi più volte ristampato e aggiornato – forse il libro più longevo di Giorgio Galli – intorno a cui Jacopo Perazzoli lavora con molta pazienza e con molta competenza (pp. 21-39).
Come a dire che la radiografia di una intellettualità inquieta dell’Italia del secondo dopoguerra -quale Giorgio Galli è stato senza dubbio – non può prescindere da molte cose: dalla curiosità, dalle molte piste di lavoro, dal ritornare periodicamente sulle proprie conclusioni, dal sapere che la propria ricerca è anche parte del processo di crescita culturale della parte politica verso la quale si sta parlando.
In breve che essere intellettuali non è mai un ruolo asettico impersonale o «tecnico», ma è la presa in carica di una funzione, di una preoccupazione. In altre parole un’«inquietudine».
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