Storia

La “colonna infame” di Enzo Tortora

18 Maggio 2019

Il 18 maggio del 1988 morì Enzo Tortora, all’età di sessant’anni. Volle essere cremato ed espresse il desiderio che, assieme alle sue ceneri, fosse chiusa nell’urna una copia della “Storia della colonna Infame” di Alessandro Manzoni.

Leonardo Sciascia, in un articolo coraggioso pubblicato sul Corriere della sera, nella temperie dello scontro fra innocentisti e colpevolisti, circa la tenuta morale del noto conduttore televisivo, uomo di raffinata cultura e capace di utilizzare il congiuntivo come non molti suoi colleghi, proclivi a sciatterie grammaticali, ebbe ad affermare: Non mi chiedo se Enzo Tortora sia innocente, sono certo che lo è. Il fatto di conoscerlo personalmente e di stimarlo, uomo intelligente e sensibile (non l’ho visto mai in televisione), può anche essere considerato elemento secondario ed anche fuorviante; ma dal giorno del suo arresto io ho voluto fare astrazione dal rapporto di conoscenza e di stima ed ho soltanto tenuto conto degli elementi di colpevolezza che i giornali venivano rivelando.

Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza. Sono tutti elementi “esterni” che non trovano riscontro alcuno, non dico in quel che conosciamo della personalità e del modo di vivere di Enzo Tortora, ma che non trovano convalida alcuna in un solo indizio che possa dirsi oggettivo o probante….Stiamo parlando del caso capitato ad un uomo che gode di tanta popolarità e simpatia.

E qui insorge la domanda: i guai gli sono venuti appunto per la popolarità e simpatia di cui godeva-e nel senso che alla spettacolarità dell’operazione, la sua inclusione conferiva ulteriore spettacolarità-o un caso simile può capitare a qualsiasi cittadino italiano? Purtroppo credo non ci sia alternativa: la risposta è affermativa per l’una e l’altra ipotesi.

Le accuse dei camorristi pentiti a Enzo Tortora non sono state, prima dell’arresto, accuratamente e scrupolosamente vagliate…. Il metodo dei camorristi consiste nel confondere, nell’intorbidare, nel seminare sospetti ed accuse, nel coinvolgere quante più persone è possibile. Un costruire insomma uno di quei castelli di carta che basta poi toglierne una alla base, perché tutta la costruzione crolli.

Ed ho l’impressione che la carta Enzo Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l’intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità. E resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino, che soltanto legge ed ascolta le notizie.

Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità. Che faccia un lavoro dipendente o che ne eserciti uno in proprio e liberamente, sa che per ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo, a misura della gravità e del danno che alle istituzioni, da cui dipende ed alle persone cui ha prestato opera, ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice e credo che sia, questo, un ordinamento solo italiano…Un rimedio paradossale quanto si vuole sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove di esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti e preferibilmente in carceri famigerate, come l’Ucciardone e Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello, ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza….(Corriere della sera 7 agosto 1983).

Se Enzo Tortora ha voluto portare nell’urna delle sue ceneri la “Storia della Colonna infame”, una ragione c’è ed è altamente significativa. Manzoni scrisse questa storia per dimostrare come la furia di ottenere un capro espiatorio da dare in pasto alla moltitudine che esige, immediatamente il colpevole, è comportamento riprovevole da barbari e non da civiltà del diritto.

Quando a Milano nel 1600 si diffuse la peste, si scatenò la frenesia impetuosa e violenta della caccia all’untore e fu intentato un processo basato su un arido sospetto: “la mattina del 21 giugno 1630 verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia alla finestra di un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra dè Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese, vide venire un uomo con una cappa nera ed il cappello sugli occhi ed una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareva che scrivesse….Allora (soggiunse la donnicciola n.d.a)mi venne un pensiero: se a caso fosse uno di quelli che , nei giorni passati, andavano ungendo le muraglie.

Presa da un tale sospetto passò in un’altra stanza, che guardava lungo la strada, per tenere d’occhio lo sconosciuto, che si avanzava in quella e vide, dice, che teneva toccato la detta muraglia con le mani.

C’era alla finestra d’una casa della strada medesima un’altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono, la quale non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto…Vidi, dice, che costui aveva una carta in mano, sopra la quale mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere eppoi vidi che, levata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia….Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d’inchiostro, giacchè pare che scrivesse davvero…

Ed in quanto all’andar rasente il muro, se per una cosa simile ci fosse bisogno di un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima….Ieri mentre costui faceva questi atti di ungere, pioveva… e per non imbrattarsi li panni si andava (rasentando il muro n.d.a) al coperto(Storia della colonne infame capitolo I Alessandro Manzoni).

Così inizia la Storia della Colonna infame: da un pazzo sospetto: quell’uomo con la cappa nera che avanzava con una carta in mano per una stradina di porta ticinese a Milano, poteva essere un untore, anzi per le donnicciole lo era di sicuro, poiché camminando, rasentava i muri e ogni tanto li toccava. In realtà voleva solo ripararsi dall’acqua e fregava le mani sulle pareti, perché aveva le dita sporche di inchiostro. Quell’uomo era Gugliemo Piazza, un innocente commissario di sanità intento a svolgere il suo lavoro, ma, per il pazzo sospetto di quelle due donnicciole, fu denunciato , braccato e trascinato davanti ad un capitano di giustizia.

Si diffuse la ferrea convinzione che la peste in Milano (aveva sterminato un terzo della popolazione) avesse un’origine dolosa: si scatenò la psicosi collettiva e la caccia ai presunti responsabili innescò una spirale di incredibile abiezione.

Catturato e torturato il Piazza, sperando nell’impunità, denuncia a sua volta il barbiere Gian Giacomo Mora, che vende, fra le altre cose, balsami che servono teoricamente per curare alcune malattie.

Il Mora viene subito arrestato e portato in galera. Perquisita la casa, davanti agli occhi sbigottiti della moglie e dei quattro figli, gli inquirenti trovano e sequestrano strani liquami. Durante il processo il Mora si difenderà, dicendo che non sono preparati pestilenziali, bensì che si tratta di ranno (un miscuglio di cenere e acqua bollente usato per lavare i panni). Ma i giudici e gli esperti nominati dal tribunale, dopo molte incertezze e molti dubbi, dichiarano l’unguento una pozione pestilenziale, atta a prolungare e diffondere la peste.

A questo punto non c’è più scampo, né per il Mora né per il Piazza. Entrambi, perseguitati dagli inquirenti e sfiniti da continue torture morali e fisiche, cedono alle promesse dei torturatori che assicurano la libertà, qualora denuncino altri complici.

Ma le promesse di libertà e perdono, fatte ai due imputati dagli inquirenti, non vengono avvallate dai giudici che sentenziano, il 27 luglio dello stesso anno, la condanna a morte dei due principali imputati.

Entrambi, dopo indicibili torture, vengono giustiziati il 2 agosto del 1630. Con loro vengono uccisi gli altri cinque imputati.

Dopo l’esecuzione della sentenza e sempre per ordine del tribunale viene rasa al suolo la casa del Mora, ritenuto il più colpevole degli imputati e viene eretta, a futura memoria, una colonna con un’iscrizione latina, che dovrà ricordare, a tutti coloro che la guardano, l’infamia dei propagatori di peste. La colonna è stata rimossa nel 1778.

Scrisse icasticamente il Manzoni:
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto:

finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavano di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili, se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia.

Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva , furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava, con quelle grida, i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace.

Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si possono riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si possono riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.

(Ibidem Introduzione alla storia della Colonna Infame).

Per Pietro Verri il processo è nullo, perché frutto dell’abuso della tortura, in forza della quale sono state rese confessioni non vere.

A giusta ragione l’avvocato Mino Martinazzoli osserva che Manzoni comincia dove Verri finisce. Vi è un “ulteriorità” nell’analisi del Manzoni:

la maieutica della tortura non assolve i giudici che avrebbero potuto vedere e non hanno visto che il Piazza ed il Mora erano innocenti. Non c’è dubbio, insomma, che senza il dosaggio sagace di tormenti e di promesse di impunità nessuno di quegli imputati avrebbe mai confessato una colpa inesistente, sua e dei presunti correi.

Allo stesso modo è certo (o quasi certo) che senza confessioni e solo con le dichiarazioni di testimoni del calibro di Caterina Rosa (quella che accusò il Piazza di spargere l’unguento pestifero la mattina del 21 giugno 1630, mentre egli si stava solo riparando dalla pioggia) o con le conclusioni di collegi peritali, democraticamente composti da professori e lavandaie, sarebbe stato impossibile pronunciare un verdetto di condanne.

Più impervio l’itinerario manzoniano, al quale tocca dimostrare che, malgrado la tortura, fosse consentita ed ammesso il premio per la delazione, quei giudici potevano ugualmente riconoscere l’innocenza degli incolpati.

Come dire che le leggi ingiuste non precludono sentenze giuste.

La disparità della prova non deve peraltro trarre in inganno, poiché è proprio la naturale ambiguità della vita che incrina la purezza delle teorie.

(“Per una requisitoria manzoniana”, pagina 43).

Verri non andò oltre, Manzoni invece cercò di “mettere in luce e di far vedere che que’ giudici condannarono degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere ad espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.

Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale.

Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?”.

In una lettera del 2 ottobre 1983 così scrive Enzo Tortora all’amata Francesca:
Mia cara Francesca, ora è passato il colpo di pugnale, atroce, impensabile(e premeditato) mi ha sconvolto per un giorno intero…

L’enormità delle accuse ( che comunque infrangono) è accompagnata da una mostruosità procedurale, addirittura inconcepibile…

Ciò che a loro preme, a loro urge, a loro è indispensabile, è costruirmi delinquente. In ogni modo: frugando nella pattumiera delle lettere anonime, in preda ad una diabolica frenesia… Ormai è guerra e la conducono da vili…

Comincia a far freddo in cella; chiusi si sente ancora di più. Sono come svuotato, credimi ed ormai indifferente a quello che di nuovo, di infame, hanno detto…Hanno un potere tremendo, inumano, impensabile, in democrazia.

La tortura che i nazisti infliggevano era più rozza, ma migliore. Un colpa alla nuca e via. Ma questi ti rosolano poco a poco, fra i tormenti…

Solo tre categorie di persone non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi ed i magistrati. Io sono la ragione stessa della loro immensa e credo stolida retata nazista. Prima le manette e poi le prove. Principio barbaro medioevale…

Non c’è scuola più dura e più lucida della galera…Si vede che il mio destino era questo: soffrire oltre l’indicibile.. Ma vedi oltre l’inferno( quando l’hai davvero attraversato), neppure le fiamme nuove ti bruciano più…

(Enzo Tortora Lettere a Francesca)

Questo paese ha sempre piegato la schiena, baciando la mano di chi lo pugnalava. E non ci sarebbero tiranni, se non ci fossero schiavi.

Il vero patrono d’Italia (e non capisco perché non lo facciano) dovrebbe essere don Abbondio. San Francesco poteva nascere benissimo in qualunque parte del mondo. Solo Don Abbondio è irresistibilmente, disgustosamente, italiano.

(Bergamo domenica 9 ottobre 1983)

Ho dentro la forza dell’acciaio…Sai non mi sorprende che anche Dostoevskij definisca la galera come l’ho trovata io:

una vita monotona, come il gocciolare in una fosca giornata autunnale…Incredibile come la gente assorba tutto: è questo che mi atterrisce, di questo paese, destinato per natura, carattere, volubilità, ignoranza, a farsi violentare in perpetuum. Da leggi, politici, stampa, tribunali. E’ un gregge, non un popolo. Capito, Cicciotta. Non possiamo che tirare avanti, dandoci la mano, cosi purtroppo da lontano…

(Bergamo 26 ottobre 1983)

Sono un po’ giù. L’altro giorno l’ospite della cella accanto alla mia….ha tentato di impiccarsi ed è stato straziante. Ma qui sono scene abbastanza abituali.

Le risse, le urla, le bestemmie: è un mondo infame e doloroso, che nessuno conosce dal di dentro. Non i giudici, i medici, non quelle irresponsabili macchiette che sono i cosiddetti giornalisti. Il freddo aumenta ed io lo reggo sempre meno, a causa dell’immobilità e della solitudine da pozzo di Allan Poe…

Tante volte ho pensato almeno fossi colpevole: starei meglio. E’ un atroce paradosso. Perché niente, niente, Cicciotta, è paragonabile all’angoscia di chi vive, innocente, questa condizione. Ho conosciuto fascisti, nazisti, la guerra. Eppure ti giuro erano cose comprensibili, avevano un fondo razionale e atroce. Qui c’è solo l’atroce…

(Bergamo, domenica 4 dicembre 1983)

Questo è un paese ancora refrattario all’indignazione… Si è sempre prostrati al Bacio della Sacra Pantofola: questa è una terra di schiavi, con una religione di schiavi. Vedi Hitler, aveva dei campi dove facevano paralumi con la pelle degli ebrei. Qui, con la pelle della gente, ci fanno lo stesso paralumi e poi ci illuminano le loro tavole rotonde piene di blablabla.

(Bergamo 18 dicembre domenica-lunedì)

Mi sento misteriosamente intatto. E’ il tempo amore che si allunga a dismisura. E ormai non è più vivere, convincetene: ma per me solo morire a rate.

Voglio essere in piedi per l’ultimo atto. Anche se lo vado dicendo da tempo tenteranno ogni mezzo. Anche di farmi fuori… E’ una lotta all’ultimo sangue.. tra quattro farabutti, che non possono perdere, ed un innocente che deve vincere. Ma il potere è loro. Siamo al nazismo puro, alla barbarie assoluta…

(Carcere di Bergamo 1.1.1984)

Ha scritto Giuliano Ferrara:
Enzo Tortora è morto al culmine della tragedia, segnando della tragedia l’aspetto sinistro dell’inevitabilità.

Eppure era tutto evitabile, il carcere afflittivo, inutile affermazione di un potere senza significato sul piano del diritto. La procedura penale avrebbe consentito un processo senza gogna e della procedura morbosa fecero parte invece le parole assertive, cattive, disumane che furono pronunciate in toga contro l’inerme, contro il cinico trafficante di morte….

Il processo fu processo politico, avanscena della carica contro la Repubblica appena al di là da venire, esperimento selvaggio di una casta codina intenzionata a regnare sullo spirito degli italiani, con brindisi di cronisti appiccicato, anticipo di una rivoluzione sostitutiva della divisione dei poteri, dell’equilibrato controllo reciproco.
(Introduzione a Lettere a Francesca).

Scrisse Enzo Biagi:
Signori giudici, questo Enzo Tortora, dalla faccia lucida di sudore e scavata dalle troppe emozioni, ha paura; l’ onorevole Enzo Tortora, secondo me, ha una gran voglia di piangere, su se stesso, sui casi della vita, perchè, come tutti, ha i suoi peccati, ma voi gli addossate dei delitti. Sono arrivato a una conclusione crudele: mi auguro che il Tribunale di Napoli dimostri in modo schiacciante, senza ombre, distruggendo ogni sospetto, che Enzo Enzo Tortora spacciava cocaina, se la intendeva coi mafiosi, era amico di Pazienza, di Calvi, di Sindona, e perchè no?, anche di Gelli. Tutto ciò che è accaduto, e quello che avviene sotto i nostri occhi, avrebbe infine una spiegazione.

Non ci deve essere un’ aria di sfida, uno spirito di rivincita: da questa storia chi ne esce sconfitto irreparabilmente, se la dimostrazione di colpevolezza non è schiacciante, è quel tanto di fiducia che la gente ha ancora, nonostante le oscure vicende che ogni giorno animano la cronaca, in chi indossa la toga. Meglio, a mio parere, in ogni caso, una toga sporca che una toga sospetta o equivoca.

La sporca può essere individuata e punita. Non vorrei che, per spirito di corpo, per solidarietà di corporazione, si avallassero anche errori: le inevitabili insufficienze umane diventerebbero atroce persecuzione.

Adesso ci si accorge che pentito non vuol sempre dire ravveduto: adesso che i verbali dei camorristi e dei mafiosi coinvolgono anche i Palazzi dove si amministra la legge. Sono stato testimone della disperazione e della rabbia di vecchi giudici, caduti sotto le insinuazioni di detenuti alla caccia di attenuanti. Ho provato la stessa pena che sento per Enzo Tortora, perchè anche il dolore degli altri mi ferisce.

Specialmente quando diventa spettacolo, esibizione sguaiata, o anche fredda cerimonia, dal rituale scontato. A Napoli pare si combatta una partita che ha, come posta, alcune esistenze, e qualche orgoglio. Sui piatti della bilancia, a seguire i resoconti, non soffia solo il vento che caccia le nuvole e fa splendere la verità, ma un turbine di correnti alimentate dall’ orgoglio, e talvolta dalla cattiveria.

(Enzo Biagi la Repubblica 15.03.1985)

In un editoriale famoso il grande Indro Montanelli affermò:
Nel vedere e sentire la grandine di accuse che sulla testa di Enzo Tortora rovesciano dei personaggi che portano scritto in faccia il loro mendacio e che come premio di questo mendacio hanno avuto una riduzione di pena a termini irrisori, non tremavamo solo per lui; tremavamo anche per noi tutti, che un giorno, se gli interessi di famiglia lo richiedono, potremmo trovarci nelle condizioni di Enzo Tortora.

Che la nostra sorte sia scritta nelle stelle, lo sappiamo, e ci va anche bene. Ma che la chiave per decifrarla sia nelle mani di qualche Pandico o Melluso, ci disturba alquanto.

(Editoriale de Il Giornale- titolo- Scritta nelle stelle- di Indro Montanelli 18 settembre 1985).

Amava la sua Francesca Enzo Tortora, perché le scriveva:

Se vedrò i tuoi occhi, confonderò il tramonto con il mattino. Amo le nostre domeniche non riesco più a dirti quanto. Ora dammi la mano e metti il tuo capo sulla mia spalla. Stiamocene un po’ così tu ed io che non abbiamo bisogno d’altro, così fino a domani…Fammi un regalo: cammina in mezzo al verde. Raccogli un filo d’erba e mettilo tra le labbra: sono io.

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