Storia
La Brigata ebraica. Memoria, commemorazione, storia
Dai primi anni 2000 la manifestazione del 25 aprile (prima a Milano, poi anche a Roma) ha assunto un volto divisivo: non sono le bandiere del passato a dividere, ma la rilettura presente/passato/presente a fare problema. Su questo sono interessanti le pagine che Gianluca Fantoni dedica a questa questione nel suo Storia della Brigata ebraica (Einaudi).
L’origine non è solo il 25 aprile 1994, quando la piazza dà un nuovo volto a quella giornata a fronte del ritorno al governo della destra (compresi gli eredi del fascismo), ma anche la presenza delle bandiere da una parte che richiamano l’Olp (peraltro già iniziate a comparire alla fine degli anni’70), dall’altra la bandiera della brigata ebraica che inizia a comparire una prima volta nel 2004.
Una doppia presenza che ha assunto le forme plastiche della divisività, ma anche indica un percorso di uso politico del passato. Un aspetto che riguarda tutti i processi di rilettura storica come ci ha spiegato molti fa lo storico François Hartog nel suo Usages politiques du passé (più recentemente in Chronos).
Il tema in questo, come in molti altri casi, non è il conflitto tra vero e falso, ma contemporaneamente la legittimazione di sé dell’uso che del passato si fa per rileggere la propria identità (ma anche: quando? E senza dimenticare di indagare: perché?). È anche ovvio che in quell’uso politico del passato sta anche un modo di rileggere i fatti «come andarono per davvero». Il problema non è cosa accadde per davvero e che cosa no, ma quale interpretazione di scopo si dà a quegli atti che si intendono proporre all’attenzione pubblica dopo un periodo di loro silenzio, se non di oblio.
Dunque la Brigata ebraica.
La Brigata Ebraica, costituita da volontari ebrei provenienti dalla Palestina, allora sotto Mandato britannico, fu istituita da Winston Churchill, d’accordo col Presidente americano Roosevelt, nel settembre del 1944.
Impegnata sul fronte italiano con una presenza di circa 5000 uomini, la brigata ebbe un ruolo rilevante tra inizio marzo 1945 e fine aprile nel processo di liberazione del Nord Italia dalla Romagna fino alla liberazione di Bologna.
Aderendo con una certa riluttanza alle molteplici richieste dell’Agenzia Ebraica che, fino dal settembre del 1939, aveva offerto l’appoggio della Comunità ebraica di Erez Israel allo sforzo bellico degli alleati.
Il 29 agosto del 1939, due giorni prima dell’invasione tedesca della Polonia, atto d’inizio della Seconda guerra mondiale, Chaim Weizmann, leader del Movimento Sionista, comunicava al Governo britannico, che, nell’imminenza di un conflitto con la Germania, gli Ebrei di Palestina avrebbero collaborato attivamente con la Gran Bretagna.
Quella proposta trova non accalora gran parte della leadership dell’insediamento ebraico in Palestina. Per esempio David Ben Gurion non è un convinto ed entusiasta sostenitore di quella proposta. Lo dimostra il confronto, al limite dello scotto che ha con Enzo Sereni che decide di aiutare la propaganda in italiano quando tra il 1941 decide di collaborare con il nucleo di Giustizia e libertà in Egitto impegnato a creare un’unità di contropropaganda da utilizzare per sollecitare una reazione delle truppe italiane in guerra con l’alleato tedesco o anche quando nell’inverno 1943 sempre Sereni si muove e comunica la sua decisione di andare in Italia per essere parte della lotta al fascismo europeo e muovere un’azione per favorire il processo di emigrazione verso la Palestina (una ricostruzione la si può leggere nella biografia di Enzo Sereni scritta da Ruth Bondy).
Non era solo un tema di diffidenza, da parte di Ben Gurion e della maggioranza della direzione politica dell’insediamento ebraico in Palestina la convinzione era che non si dovessero distrarre forze dalla presenza sul territorio in vista di un dopoguerra che comunque si presentava come un possibile scenario di definizione di una propria autonomia politica.
Questo non toglie che si produca una partecipazione allo sforzo bellico a fianco della potenza mandataria.
Nel 1941, pressato dagli eventi bellici, il comando militare britannico del Medio Oriente, diffuse un appello per un reclutamento individuale. Si presentarono volontari arabi ed ebrei che furono inseriti nelle varie unità dell’esercito inglese, più tardi entrate nel Palestine Regiment. Furono anche costituite piccole unità ausiliarie composte da personale specializzato per essere impiegate in caso di necessità.
Tali compagnie, composte di circa 250 elementi ciascuna, comprendevano originariamente arabi ed ebrei, ma, per le difficoltà di coesistenza tra i due gruppi e per l’alto numero di diserzioni arabe, finirono per essere costituite solo da personale ebraico. I membri di queste compagnie avevano una certa libertà di movimento ed erano connotati dalla dicitura “PALESTINE” sulle spalline della divisa. Elementi appartenenti a queste unità giunsero in Italia nel corso degli sbarchi alleati.
Questa iniziativa non va confusa con l’attività della Brigata ebraica in Italia soprattutto nel fronte della Romagna poi impegnata nel tardo inverno e poi in primavera nelle giornate finali dell’insurrezione e della Liberazione. Attività che non si chiude con la guerra.
Al termine del conflitto, infatti, una parte di quelle forze, almeno quelle che rimangono in Italia perché molti rientrano verso la Palestina tra 1945 e 1946, si prodigarono nella riorganizzazione delle Comunità ebraiche curando soprattutto il settore giovanile e in primo luogo la riapertura delle scuole e l’istituzione di centri culturali e sociali. Si distinsero anche nelle attività assistenziali rivolte ai numerosi profughi non italiani.
Dopo la liberazione, infatti, furono costituiti in varie città dell’Italia settentrionale, «Centri profughi”» finalizzati al recupero dei giovani scampati alla Shoà e alla preparazione professionale per quanti fossero interessati a emigrare in Terra d’Israele. Un tema anni fa aperto con competenza e precisione dallo storico Mario Toscano con il suo La «Porta di Sion» (il Mulino).
Dentro all’immagine dell’azione della Brigata ebraica in Italia sta dunque questo primo elemento in cui l’azione al tempo presente si connette con una ipotesi di investimento di futuro che ha una doppia valenza: (1) scelta della parte con cui combattere; (2) preparazione per accreditarsi su un possibile diritto al futuro.
Prima questione.
La scelta di schierarsi con gli alleati, è stata spesso accreditata come un’opzione antifascista e antinazista rispetto all’indifferenza o alle simpatie, espresse da Mohanmed Amin al-Husseini (il «Gran Muftì» di Gerusalemme) rispetto alle potenze dell’Asse.
Gianluca Fantoni contiene il dato ideologico espresso dallo schieramento ebraico-palestinese mentre ridimensiona la forza edel Muftì. Mi sembra che proponga considerazioni e prove sostenibili su entrambi questi due temi. Ceto si può discutere della sua proposta interpretativa, ma resta il fatto che dai alcuni dati verificabili e verificati occorre prendere le mosse. Diversamente si rimane sul terreno della ricostruzione ideologica.
Seconda questione.
In nessuna andata alle armi per la libertà degli altri si combatte solo per gli altri. Si va a combattere anche per sé, Quella scelta non è solo altruistica, è anche egoistica. È importante sottolinearlo. Forse è banale, ma è importante.
Il primo dato riguarda l’elemento della militanza. Si sceglie di combattere in relazione a un’idea di riscatto che si ha e si vuol comunicare. Aspetto che rinvia al tema della scelta.
La scelta di voler andare in guerra ha una radice comune con un’esperienza propria del combattentismo civile che si profila, ha una sua prima manifestazione nella scelta del combattente per la libertà d’inizio Ottocento. Un combattente che ha profondo il senso d’identità e di appartenenza al proprio gruppo, ma anche considera la battaglia che si combatte per la libertà, parte della propria battaglia.
È una figura che inizia a prendere corpo nell’Europa della Restaurazione con l’idealizzazione dell’eroe civile che si trasforma in eroe nazionale, dell’uomo non destinato alle armi o alla gloria, ma che sente che la sua battaglia per la libertà non si limita a quella che può combattere a casa propria. Nella condizione dell’impossibilità di combatterla in alcuni momenti storici, allora la sua scelta è di non perdere l’opportunità laddove essa si presenti perché convinto che per quella via anche la sua battaglia, moment amenamente bloccata o non praticabile riacquista uno spazio.
È un’esperienza che attraversa molti processi e battaglia per l’indipendenza nel corso dell’Ottocento. Riguarda le esperienze del Risorgimento italiano (per tutti certamente la Repubblica Romana).
Talvolta si va in guerra in un altro paese per ritrovare il senso di una guerra che si è precedentemente perduta (è ciò che accade ai garibaldini italiani che vanno in Francia a combattere nel 1870 contro la Prussia o che nel 1897 vanno a Creta a combattere per l’indipendenza dell’isola contro i turchi).
È l’esperienza che nel corso del Novecento, prima degli anni di cui stiamo parlando avviene per esempio con la guerra civile spagnola.
Il tema include l’idea di riscatto. Si va a combattere in casa d’altri, insieme a quelli che là, a casa loro, stanno combattendo per la loro libertà, perché quel loro diritto alla rivolta è anche la testimonianza del nostro diritto alla rivolta. Si va là perché la possibilità del futuro include la scelta, e la scelta vuol dire che quel futuro, la possibilità di averne uno, non è un regalo. In ogni caso la scelta di esserci in quella lotta, racconta e testimonia che il tuo diritto, quello che percepisci e rivendichi come un diritto, non è un regalo.
Come sappiamo dalla partecipazione alla guerra civile per molti l’uscita è verso una delusione e un rifiuto della politica (sarà così per Simone Weil, per George Orwell, per esempio). In ogni caso segna la crisi di un modello, non la fine di un’esperienza.
L’esperienza di poco successiva delle resistenze europee se da una parte dimostra che la voglia di impegnarsi non è spenta tuttavia non produce internazionalizzazione della figura combattente. Le Resistenze nonostante abbiamo l’esigenza di dover ripensare un continente, di sapere che il domani include una riflessione intorno al tema dell’Europa, in gran parte avvengono come scelta nazionale, come cura del proprio gruppo, come presa in carico dei propri.
Ci sono dei margini e degli spazi che lasciano aperti dei percorsi inquieti. Il primo riguarda la fisionomia dell’Europa dopo la prova della guerra e dei totalitarismi. È la questione del superamento dello Stato nazione, della fondazione di un’Europa federata.
Il secondo riguarda i soggetti che insieme alla liberazione dai totalitarismi, rivendicano il diritto alla loro libertà.
L’esperienza della brigata ebraica si colloca qui. E indica alcune questioni rilevanti con cui si trattava di prendere le misure. Non sempre ciò è avvenuto. Le emozioni e le passioni contano nella storia. E in questa scena forse non giocano un ruolo secondario.
Come del resto lo giocano anche a decenni di distanza in chi in piazza si scontra portando bandiere o rivendicando identità e continuità.
Nelle pagine di apertura del suo L’etica della memoria il filosofo Avishai Margalit ha sottolineato come sia importante distinguere tra rivivere il passato e vivere nel passato. Soffermandosi in particolare sul primo termine ha sottolineato come la nozione di rivivere il passato, implichi «diverse idee sul ricordare le emozioni e in particolare sul ricordare le emozioni in riferimento agli eventi e alle persone ricordate» e poi ha precisato: «Non è solo il senso del passato che si cerca di recuperare alla memoria, ma anche la sua sensazione. Com’era essere in quella situazione o con quelle persone in quel particolare momento e luogo?»
È importante tenere a mente questa distinzione perché nella storia della Brigata ebraica, ovvero nella storia degli ebrei della Palestina che tra 1944 e 1945 combatterono in Italia e poi nello sguardo, di simpatia o di astio, che il ricordo di quella vicenda evoca nel nostro tempo presente e che ora Gianluca Fantoni ricostruisce in Storia della Brigata ebraica (Einaudi), questo doppio registro gioca un ruolo non indifferente.
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