Storia

La Battaglia di Pavia cinquecento anni dopo

La battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525 segnò un linea di demarcazione nella storia moderna.

22 Febbraio 2025

C’è nella butte di Montmartre di  fronte al “Lapin agile”, vicino alla stele  in cui si ricordano i morti della Prima  Guerra Mondiale, scolpita su una lastra  non ricordo se in marmo o bronzo,  una  frase di Roland Dorgelès  da “Les Crois du bois”: «Odio la guerra ma amo  quelli che l’hanno fatta».  «Je hais la guerre mais j’aime ceux qui l’ont faite…».

È questo il sentimento che mi accompagna nel rievocare il 500mo anniversario della battaglia di Pavia il 24 febbraio 1525. Un evento storico cerniera (ma forse tutti gli eventi lo sono), certamente, ma più per la Francia che per noi italiani. Noi siamo il terreno di battaglia. Gli “italiani” presenti sono un nugolo di soldati che non superano i 7000, ma sono schierati sia tra i francesi (4000 perlopiù milanesi) che gli imperiali (3000 perlopiù del regno di Napoli). Ma c’è  anche qualche altra ragione .

La nidificazione dei “se” .

Il dato più significativo delle battaglie è  che a seguito di esse  si decide un destino e muta una realtà geopolitica. Con i trattati che ne seguono un territorio passa da uno Stato all’altro  ed è così che dopo la Prima guerra mondiale il Sudtirolo tedesco passa all’Italia avendo pochissimo di italianità e dopo la Seconda mondiale l’Istria e la Dalmazia — dove nacquero Marco Polo e Ugo Foscolo e i codificatori della lingua italiana Bembo (veneziano ma la cui famiglia ha castello a Valle in Istria) e Tommaseo —,  passano alla Croazia, con tutti i campanili a punta e i “Gatti” veneziani  incorporati, per sempre. Guai a perdere le battaglie  perciò,  perché fanno della forza diritto, anche contro la logica e il buonsenso della storia e gli statuti del reale.

Commentando la battaglia  di Fornovo Taro  (6 luglio 1495) Luigi Barzini jr si interrogava, in quel libro stupendo che è “Gli italiani” (1965), che cosa sarebbe successo se, se, se. Secondo alcuni testimoni  oculari quella battaglia (dagli italiani ritenuta vinta — vedi la pala d’altare del Mantegna del 1496 “Madonna della Vittoria“, dipinta per l’occasione, oggi al Louvre perché depredata da Napoleone) —  venne decisa in un quarto d’ora: il quarto d’ora che cambiò i destini d’Italia.

«Se gli italiani fossero riusciti a riportare la vittoria scrive Barzini — probabilmente avrebbero scoperto l’orgoglio di essere un popolo unito, la fiducia in se stessi che scaturisce dalla difesa della libertà e dell’indipendenza comuni. L’Italia si sarebbe affacciata alla scena della storia come una nazione ragionevolmente temibile, capace di decidere il proprio avvenire, un paese che avrebbe indotto gli stranieri avventurosi a riflettere due volte prima di attaccarlo. Nessuno si sarebbe azzardato alla leggera a varcare le Alpi, nella tema di essere annientato. Le potenze europee sarebbero state dissuase dalle loro incessanti contese sulla pelle dell’Italia e dal tagliare a fette il territorio indifeso, con i suoi abitanti laboriosi e inermi, per placare dinastie rivali e appagare l’avidità di tutti. La storia d’Italia, d’Europa e del mondo — continua Barzini con un’enfasi da giornalista scaltro che sa uncinare il suo lettore — avrebbero preso, con ogni probabilità, una direzione diversa. Il carattere nazionale avrebbe seguito una diversa evoluzione. Le voci dei patrioti non sarebbero state schernite, come voci di illusi pericolosi, ma rispettosamente ascoltate, ecc.»

E invece dopo Fornovo tutti i popoli e gli eserciti d’Europa scesero in Italia — la nazione che dall’anno Mille aveva tenuto  in mano la fiaccola della civiltà occidentale — e ne fecero strazio. «Ogni straniero vinse o perse a turno. Gli italiani persero sempre».

La nidificazione dei “se” è trattata da Hegel certamente come una discussione oziosa alla “naso di Cleopatra” se leggete una pagina qualsiasi delle Lezioni sulla filosofia della storia — quelle in cui egli razionalizza il reale e dice mestamente che la storia è come il banco del macellaio  e a Pavia ci fu grande macelleria in verità —, ma nel chiuso della nostra anima pur restando  un calcolo che non torna proprio per quello è il momento in cui la nostra coscienza diventa davvero infelice, perché da un esito o dall’altro  dipende un assetto del reale  e di fronte al fatto  compiuto che non si può più modificare (factum infectum fieri nequit) sorge invece la nostalgia del possibile, di ciò che poteva essere altrimenti e non è stato, perché quando le cose accadono — e  ciò riguarda anche le nostre modeste battaglie  del vivere quotidiano — sorge il dubbio sotto forma di un rimpianto o di  una disperazione non sanata che le cose non sempre dovevano accadere come sono accadute, perché non sempre il reale è razionale, e se lo è,  lo è contro di noi, contro le nostre aspirazioni, contro le nostre  volizioni, contro le nostre speranze, contro la nostra vita.

La battaglia di Pavia. 24 febbraio 1525

Ben tre re francesi scesero nella nostra Penisola nel corso delle guerre d’Italia (1494-1559): Carlo VIII, Luigi XII  e il  Francesco I. Le motivazioni di queste regali discese secondo Jean Giono (“Le désastre de Pavie”, trad. it. Franco Pierno, Settecolori) sono prosastiche — le solite rivendicazioni dinastiche spesso pretestuose: Francesco invocava il diritto su Milano per via di un’antenata, Valentina Visconti — o liriche nel senso di questa ultima ipotesi poetica che l’Italia del Rinascimento sarebbe diventata la patria dell’uomo; essere «homme en Italie » è il sogno di ogni intelligenza europea, dice Giono. Più brutalmente Francesco I, visto  da Alfred de Vigny, era come l’incarnazione dell’ossessione della nobiltà per la guerra e perciò evocava esplicitamente «la noncuranza, l’ignoranza e la leggerezza di una razza di Franchi che non apprezzava altro che la guerra.» Ma più realisticamente infine è la vecchia ed eterna ragione geopolitica. Ricordate il 1939: io Germania sono diventata grande e potente? E allora ho tanta voglia di invadere la Polonia. Le chiamano anche “sfere di influenza“ ma più realisticamente si tratta di meri appetiti, di spinte spinomidollari, di volontà di potenza, ovvero di pre-potenza camuffata da spazio vitale, che in questa prospettiva diventa il mondo intero: non c’è limite all’idea dell’espansione di una Potenza politica infatti. Ed è stato sempre così in quel  risiķo della geopolitica, che è proprio quella roba lì: volontà di potenza più irraggiamento territoriale.  Il governo del mondo è la posta in gioco. Ieri come oggi.

Nel nostro caso l’episodio di Pavia cade nella disputa  delle due entità territoriali — la Francia e la Spagna — che si contendono il ruolo di potenza egemonica territoriale continentale  europea e anche extra europea viste le colonie. Fuori dal continente c’è  la potenza in ascesa dell’Inghilterra che come sempre non sta a guardare, sorveglia. E tutto inizia coi due contendenti Carlo V d’Asburgo e Francesco I Valois  nel 1519 alla morte di Massimiliano I quando entrambi cercano di assicurarsi il titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero comprando il voto dei Grandi Elettori (la carica è elettiva) ma la spunta Carlo V d’Asburgo.  Da quel momento già si intravvede Pavia dice Giono, che vede in questo fatto una causa remota. La contesa tra i due trova nell’Italia un terreno di scontro: ci sono in ballo sia il Ducato di Milano  che il Regno di Napoli già dai tempi di Carlo VIII motivo di frizione e contesa. Fatto sta, che sulla scia dei precedenti re francesi, nell’ottobre del 1524 Francesco I arma un grande esercito e scende in Italia. Egli ritenne che la strada per l’Italia fosse aperta per una nuova Marignano (15 settembre 1515 dove Francesco aveva vinto contro il Ducato di Milano, il Marchesato di Mantova e gli svizzeri decisero la neutralità assoluta e dedicarsi alla cioccolata e agli orologi a cucù tanto detestati da Orson Welles)  e, alla fine di ottobre, attraversò le Alpi per la seconda volta. Il 26 ottobre 1524 occupò Milano mentre la guarnigione imperiale di Pavia, seconda città del Ducato, comandata dal generale spagnolo Antonio de Leyva, si preparava all’assedio.

 Che inizia il  28 ottobre 1524. Il 1° novembre i francesi cominciarono a bombardare la città. Particolare curioso, la città poteva resistere più di due anni secondo Giono, perché provvista anche di ricche scorte di parmesan. L’inverno è duro e non fruttuoso. Dopo tre mesi di assedio, un esercito di soccorso comandato dal fiammingo  Charles de Lannoy,  viceré di Napoli, venne in aiuto degli Imperiali e si accampò a est della riserva di caccia di Marmirolo il 2 febbraio 1525. Da assedianti, i francesi divennero assediati. Il 3 febbraio 1525, i francesi iniziarono a fortificare Torre del Gallo e il loro campo delle Cinque Abbazie  per contrastare la minaccia imperiale. Dopo alcune settimane di osservazione, Lannoy attaccò nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 1525. Il suo esercito si mosse silenziosamente lungo il lato orientale del parco, prima che gli ingegneri facessero breccia nel muro. All’alba, accompagnando l’assalto di Lannoy a nord, la guarnigione di Pavia fece una sortita e si impadronì del fianco meridionale del parco. Gli assedianti diventano assediati. E qui scatta il grande errore del re di Francia: di fronte a una momentanea ritirata degli Imperiali, sono le cinque del mattino, Francesco I ordina alla sua cavalleria pesante la carica, inframettendola  però nel raggio di tiro della propria artiglieria rendendola inutile, e qui Ferrante D’Avalos Marchese di Pescara, accortosi dell’errore del re francese, ebbe l’intuizione di schierare sul fianco dei cavalieri nemici catafratti nelle loro pesanti maglie di acciaio un plotone di 1500 archibugieri che li macellò letteralmente con un facile tiro al piccione. Intervenne quindi il Lannoy e fu la devastazione nel campo francese.

Giova riprendere il passo di Giono: « I cavalli crollarono, trascinando con sé i cavalieri; gli uomini d’arme erano così pesantemente ricoperti d’acciaio che non riuscivano più a stare in piedi da soli; gli spagnoli li giustiziarono a loro agio infilando coltelli nelle giunture delle corazze, oppure, sollevando le maglie di ferro che proteggevano i fianchi, spinsero la canna dell’archibugio sotto la cotta di maglia e fecero scoppiare l’aragosta nel suo guscio.» La battaglia iniziata alle cinque del mattino  alle otto era finita con Francesco fatto prigioniero: 500 morti circa tra gli Imperiali ben 12 000 fra i francesi. Tra di essi il fior fiore dell’aristocrazia  francese quali il 55enne de La Palice (quella storia del “lapalissiano” che lo riguarda in proverbio è frutto di un malizioso e facile fraintendimento, non era così scemo) e il sessantenne La Trémoille che l’indomani, quando si dovette seppellire i morti, troveranno il cadavere di questo vecchio guerriero, pietà  per lui,  «così impastato nella latta del suo barattolo che dovranno tirarlo fuori a brandelli con l’uncino dell’elsa di una spada.» (Giono).

Certo fu un errore non solo la carica improvvida della cavalleria ossia rispetto ai tempi ma anche rispetto al luogo: non si trattava del suo terreno ideale, una pianura, ma di un paesaggio accidentato e boscoso con molti corsi d’acqua (canali, rogge), che non si presta a una carica di cavalleria.

Inoltre, secondo Giono, la battaglia fu una bagarre «au petit bonheur la chance» a «colpiti e mancati» o «alla viva il parroco» avrebbe detto Gianni Brera. Cioè senza alcuna strategia preordinata, ma secondo l’impulso del re, che fu poi la vera causa del disastro oltre alla causa tecnica decisiva: l’archibugio a forca, ossia l’arma, che pesava anche otto chili, appoggiata a terra con una forcina (fourche) che la trasformava in una mitraglia.  La temibile arma portatile utilizzata anche da due schiere di tiratori alternati — la prima fila a sparare la seconda dietro a caricare l’archibugio, indi pronta a sparare con la prima fila accovacciata e intenta a ricaricare nuovamente l’arma  — che aveva già fatto la differenza tre anni prima nella battaglia della Bicocca (1522) con tremila svizzeri ammazzati.

Un altro fattore su cui Francesco I deve essere giudicato è che diffidava dell’archibugio per un pregiudizio di classe, nella certezza che solo la  nobiltà fosse uno dei fondamenti imprescindibili dell’ordine sociale e nella convinzione dell’incapacità militare della gente comune: la guerra resta affare dei cavalieri. E invece, sorpresa!, l’uomo comune dotato della protesi dell’ archibugio gli è militarmente superiore, specie se inquadrato nei temibili Tercios, la combinazione di armi da taglio e da fuoco, addestrati con una disciplina molto rigida. Era il tramonto di un’epoca, la fine dell’ideale cavalleresco e l’ascesa anche sotto questa forma dell’uomo-massa.

«Fu una battaglia straordinaria perché, in quell’occasione, il destino della Francia si giocò come se si giocasse oggi in una partita di calcio, senza che nessuno lo sapesse: né gli spettatori né i giocatori.»

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