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John F. Kennedy, un presidente sportivo
“Al principio era il freddo”, scrive Arthur M. Schlesinger jr. nell’incipit di “I mille giorni di John F. Kennedy”, la voluminosa biografia dedicata alla breve vita del primo presidente cattolico degli Stati Uniti d’America. Il giorno dell’insediamento, il 20 gennaio 1961, Washington era spazzata da un vento gelido e i cumuli di neve fiancheggiavano Pennsylvania Avenue. Nella Capitol Plaza, dove si sarebbe svolta la cerimonia d’inaugurazione, i mucchi di ghiaccio erano così granitici che i soldati dovettero ricorrere ai lanciafiamme per liberare il palco delle autorità. Alla luce del debole sole invernale, e con sette gradi sotto zero, JFK pronunciò il discorso d’insediamento in giacca e cravatta.
Non fu, né sarebbe stata, la sola prodezza fisica compiuta dal giovane presidente. Anche omettendo pudicamente le innumerevoli scorribande sessuali che misero a repentaglio sia il matrimonio con Jacqueline Lee Bouvier che il mandato presidenziale, Kennedy fornì svariate prove di prestanza atletica. Amava lo sport fin da bambino e continuava a praticarlo da adulto. Come d’abitudine per gli appartenenti alle classi sociali più ricche, si era dedicato con entusiasmo a tutte le discipline che recavano al contempo vigore e prestigio. Tennis, vela, sci, corsa erano passatempi usuali per i rampolli della potente famiglia del capostipite Joseph, ma John era soprattutto un buon quarterback. Proprio un brutto incidente di gioco con la squadra di football dell’università di Harvard gli aveva procurato una grave lesione spinale, che peggiorò durante la Seconda guerra mondiale, quando la sua motosilurante fu affondata nel Pacifico da un cacciatorpediniere giapponese e da comandante della nave nuotò per ore per salvare quanti più compagni possibile. L’eroica impresa gli valse un paio di medaglie al valore, una lunga convalescenza e lancinanti dolori, spesso pesantemente invalidanti. Già affetto dal morbo di Addison, nel 1954, stufo dei disagi e delle pene provocatigli dalla schiena, optò per una pericolosa e infruttuosa operazione, dopo la quale gli fu addirittura impartita l’estrema unzione. Sopravvisse miracolosamente ma restò prigioniero di incessanti tormenti, fino a che la specialista Janet Travell non scoprì che aveva la gamba sinistra più corta di oltre un centimetro e gli prescrisse un nuovo regime terapeutico: una scarpa rialzata, energiche fisioterapie e robuste iniezioni di novocaina. Per quanto ricadute dolorose lo costringessero periodicamente all’immobilità, si rimise in sesto, anche grazie all’uso costante di una sedia a dondolo e di un busto ortopedico, che secondo alcuni non fu estraneo al fatale esito dell’attentato di Dallas, poiché lo mantenne in posizione eretta dopo esser stato colpito al collo e quindi esposto al proiettile che gli scoperchiò il cranio.
Kennedy non fu il tipo di presidente che si limitava a lanciare la prima palla della stagione di baseball, a sedere in tribuna per le partite di maggior richiamo o a leggere le pagine sportive dei quotidiani, seppur con un’assiduità sconosciuta ai suoi predecessori. Un reporter che aveva ricevuto il compito di seguirlo per un weekend, telefonò esasperato in redazione per chiedere di essere sostituito da un atleta professionista: in pochi giorni, Kennedy era andato a vela, aveva pescato in alto mare, aveva fatto immersioni subacquee, aveva giocato a golf, crocket e a softball. La familiarità con il gioco e l’attività fisica l’avevano anche abituato alle battute e agli scherzi da spogliatoio e pertanto aveva accolto con una franca risata il vademecum che un amico aveva redatto e distribuito fra gli usuali frequentatori della residenza di Hyannis Port: se volete scampare la solita partita di football – vi si leggeva -, abbiate cura di presentarvi almeno con un arto ingessato o un malanno ben visibile; se invece non potrete sfuggire all’immancabile contesa, astenetevi dall’insultare gli avversari o dal criticare i compagni, che con ogni probabilità saranno altri membri della nutritissima famiglia.
La passione autentica e l’interesse attivo nel sistema sportivo americano affioravano in Kennedy sia nella vita quotidiana che nell’azione di governo: nel bel mezzo di una riunione poteva all’improvviso rovesciare la stampella che lo sorreggeva per mimare un colpo di golf o un rovescio incrociato; poteva mandare il generale MacArthur a risolvere la diatriba fra la federazione di atletica e l’associazione sportiva universitaria, che rischiava di pregiudicare il programma olimpico statunitense; poteva chiamare alla Casa Bianca la sensazionale Wilma Rudolph elogiandola come un esempio da seguire per le donne di tutta la nazione. Il desiderio di servirsi dello sport per promuovere il proprio programma fu palese ancora prima che JFK assumesse l’incarico, allorché il presidente-eletto vergò per Sports Illustrated un lungo articolo che, con il titolo The soft american, fu pubblicato giusto 60 anni orsono, il 26 dicembre 1960. Qualche mese prima, lo scrittore John Steinbeck aveva inviato una lettera all’amico Adlai Stevenson, il leader progressista che Kennedy aveva battuto alle primarie democratiche. Steinbeck vi denunciava l’avvenuta bancarotta morale degli americani, inclini alla violenza, alla crudeltà e all’ipocrisia tipiche di una società opulenta. Nell’articolo di Kennedy echeggiava la stessa preoccupazione e la specifica impressione che la gioventù fosse incapace “di destarsi, di stare all’erta, di mostrar vigore”, ormai adagiata in un’inerte mollezza alimentata dalle comodità e dalla distrazioni della vita moderna. L’allarme era suonato durante la leva per la Guerra di Corea, quando una recluta su due era stata riformata per ragioni fisiche, psichiche o morali. Kennedy proclamava che l’inadeguatezza atletica delle nuove generazioni avrebbe minato la sicurezza e la prosperità del paese, che l’insufficiente attenzione alla forma fisica avrebbe compromesso la riuscita della “Nuova Frontiera” e che la fiacchezza dei corpi avrebbe presto o tardi determinato la decadenza del pensiero.
Si trattava, fin qui, di un vecchio e notorio chiodo fisso di ogni classe dirigente. Dall’ossessione dell’antica Grecia per l’attività fisica, al “mens sana in corpore sano” dei romani, alla riesumazione delle Olimpiadi da parte di Pierre De Coubertin dopo l’umiliante disfatta nella guerra franco-tedesca del 1870, ogni governo aveva associato alla vitalità e all’efficienza fisica del popolo il successo militare e in sostanza la stessa sopravvivenza della propria comunità. Tuttavia, nell’analisi kennedyana c’era anche altro, ossia la consapevolezza che lo scontro con il comunismo non si giocava soltanto sul piano economico, su quello militare o nell’allargamento delle rispettive sfere di influenza ai paesi in via di sviluppo. L’esito della Guerra fredda, conflitto ideologico per eccellenza, sarebbe dipeso soprattutto dalla capacità di ciascun contendente di diffondere la propria cultura e i propri valori storici di riferimento. Era dunque necessario combattere a tutto campo e soprattutto lo sport, che avvinceva masse sterminate di esseri umani, doveva costituire un terreno privilegiato di scontro.
Kennedy era del 1917 e aveva un vantaggio sugli altri leader mondiali. I suoi omologhi appartenevano a un’altra era: il sovietico Nikita Chruščëv e il cinese Mao Zedong, il francese Charles de Gaulle e il tedesco Konrad Adenauer, l’inglese Harold Macmillan e l’indiano Jawaharlal Nehru erano tutti nati nell’Ottocento e per ragioni anagrafiche non erano passati per quella fase dell’infanzia in cui la crescita è così strettamente legata al gioco e allo sport, o comunque non avevano vissuto l’esercizio fisico come una pratica naturale e universale. Un antefatto aveva convinto Kennedy dell’urgenza di dedicare più risorse e più attenzione allo sport. Nell’estate del 1960 si erano tenuti i Giochi di Roma, la prima vetrina realmente planetaria della migliore gioventù, nella quale gli Usa avevano ceduto all’Urss il primato nel medagliere. Non solo i sovietici avevano già spedito lo Sputnik nello spazio, ma di fronte al mondo intero avevano dimostrato di aver ormai sorpassato l’arci-rivale anche sulle piste di atletica, nelle piscine e sui più svariati campi di gara. Particolare ancora più grave, il presidente Dwight Eisenhower aveva snobbato la contesa con il Cremlino sul terreno della propaganda e lasciato che l’Unione Sovietica dispiegasse senza opposizione tutte le armi del soft power. Il giorno precedente l’inizio delle Olimpiadi, i maggiori quotidiani russi pubblicarono un messaggio di Chruščëv alla delegazione sovietica, che in realtà era indirizzato a tutta la platea internazionale. Nella comunicazione, che non si discostava dalla solita retorica di pace e amicizia così tipica dei magniloquenti pronunciamenti di Mosca, il segretario del Pcus lodava la fiamma di Olimpia, che promuoveva la fratellanza fra i popoli e favoriva il progresso dell’umanità grazie “al benessere psicologico, alla purezza morale e allo sviluppo fisico”, tutti principi che – concludeva il documento – innervavano sia il movimento olimpico che la politica governativa dell’Urss. È bene puntualizzare che Chruščëv non provava nessuno slancio per lo sport, ma fu evidentemente ben consigliato e la sua breve nota monopolizzò l’attenzione del villaggio olimpico e fu riportata sulla principale stampa italiana ed europea. L’ambasciata americana a Roma suggerì una risposta da parte della Casa Bianca, che però fu diramata troppo tardi e passò di fatto inosservata.
Secondo Kennedy, nonostante le contrarie rassicurazioni dell’Amministrazione Eisenhower, gli Stati Uniti avevano perso troppo terreno nella sfida Est-Ovest e per colmare il gap non sarebbe bastato incrementare le spese militari e finanziare la corsa alla Luna, occorreva anche restituire energia e slancio ai giovani americani. Una volta insediato, Kennedy mise Charles Wilkinson, coach di football all’università dell’Oklahoma, a capo del President’s Council on Youth Fitness e lo pose alle sue dirette dipendenze. Così rivitalizzato, il Comitato progettò nuovi programmi scolastici di educazione motoria, allo scopo di produrre risultati confrontabili e misurabili nelle prestazioni atletiche di ragazzi e ragazze sparsi per il paese. Analogo impegno fu profuso in un capillare e martellante piano di comunicazione, sul quale non di rado si soffermava lo stesso presidente nei suoi discorsi pubblici e il cui maggiore successo fu la cosiddetta “Kennedy march”, una camminata di 80 chilometri che fu riesumata da una vecchia idea del presidente Theodore Roosevelt e che divenne in breve una mania nazionale, con cui si misurarono persino alcuni membri del governo, incluso il fratello e Ministro della Giustizia Robert Kennedy.
L’attivismo del Comitato, sul quale Kennedy tornò ancora su Sports Illustrated, contribuì a identificare il presidente con l’atletismo, con la forza e con il dinamismo, il che è parso a diversi osservatori un risultato quasi sbalorditivo, considerati i suoi seri problemi di salute. L’enfasi sull’importanza di mantenersi in esercizio e di opporsi alla sedentarizzazione indotta dal progresso tecnologico provocò inoltre una valanga di lettere, con cui bambini, giovani e adulti indirizzavano alla Casa Bianca domande, proposte e denunce. Molti studenti accusarono le precarie dotazioni sportive delle loro scuole e l’insufficiente sensibilità in materia del corpo docente, che era solito punire le classi meno disciplinate annullando lo svolgimento delle previste ore di ginnastica. Le ragazze lamentarono principalmente che la maggior parte dei programmi atletici erano pensati per i maschi e che quelle di loro che andavano a scuola a piedi invece di prendere il bus erano rimproverate perché proiettavano sull’istituto una pessima reputazione. Altri, al contrario, invitarono la presidenza a dedicare lo stesso impegno a contrastare la malnutrizione, l’alcolismo e il fumo, giudicate piaghe assai più rovinose per la collettività. In ultima istanza, l’effetto maggiore dell’imponente sforzo promozionale fu di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sugli obiettivi della “Nuova Frontiera” e di alimentare un fecondo dibattito sui benefici arrecati dalla cura del fitness, che negli anni a venire avrebbe trovato applicazione nelle riforme dei programmi sportivi statali e federali e nella fine della discriminazione di genere nell’accesso allo sport.
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