Storia

Italia 1925. Avanti tutta verso il totalitarismo

25 Ottobre 2023

“Fuoriscena”, la nuova impresa editoriale nata all’interno del gruppo RCS, manda in libreria una raccolta frontale tra fascisti e antifascisti. Il volume contiene i testi dei due manifesti-rispettivamente quello degli intellettuali fascisti, scritto da Giovanni Gentile e quello degli intellettuali antifascisti (scritto da Benedetto Croce)

Significativamente li propone attraverso la scelta di testi e due introduzioni distinte (una dedicata al manifesto fascista e una al manifesto antifascista) firmate da due storici che si sono caratterizzati negli ultimi anni proprio per la loro ricerca tematica di uno dei due campi: da una parte Alessandra Tarquini che cura la parte dedicata agli intellettuali fascisti; dall’altra Giovanni Scirocco che invece si occupa degli intellettuali antifascisti.

Il tema che fa da sfondo al profilo della riflessione che propone Alessandra Tarquini consiste nel dichiarare definitivamente superata la questione se sia esistita o meno una cultura fascista. La discussione nelle sue linee alte nel corso degli anni Settanta era tra Norberto Bobbio e Eugenio Garin: il primo che la riteneva inesistente e su cui si consumò allora (tra il 1975 e il 1976) un confronto tra due generazioni, da una parte appunto Bobbio, dall’altra una giovane storica, Luisa Mangoni, che era profondamente convinta della tesi contraria; mentre il secondo, ovvero Garin, dissentiva radicalmente da quella immagine che Bobbio intendeva accreditare.

 

La discussione forse nei termini in cui allora si espresse potrebbe apparire parte di un dossier da tempo risolto. Secondo Tarquini non è così. A mio giudizio ha perfettamente ragione.

Cultura fascista indubbiamente fa riferimento ad alcuni grandi intellettuali che ne furono espressione convinta e organica (Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, fra tutti), ma allude anche ad altre questioni: scuole e correnti filosofiche e artistiche, fascistizzazione del costume, nascita di uno “stile fascista”, di una “mistica dell’azione”.

 

All’interno di questa questione non è senza significato riconsiderare la stagione dell’ultimo confronto ideale tra mondo culturale fascista e antifascista nella primavera 1925 intorno alla vicenda dei due manifesti contrapposti, il primo ispirato da Gentile, il secondo da Benedetto Croce su cui appunto invitano a riflettere Tarquini e Scirocco.

Al centro il passaggio irreversibile verso il totalitarismo rappresentato dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925. Significativamente il giorno prima di quel discorso un giovanissimo Lelio Basso, scrive un saggio dal titolo L’antistato, su “Rivoluzione Liberale”, la rivista fondata e diretta da Pietro Gobetti, in cui definisce la svolta che sta per avvenire l’ingresso definitivo dell’Italia nel totalitarismo (opportunamente Scirocco include il testo di Basso nel volume. Il lettore lo trova a pp. 150-159).

Il periodo tra gennaio 1925 e novembre 1926 (quando viene sancita la messa fuori legge di tutte le formazioni politiche) è considerato un momento saliente della trasformazione del sistema politico in Italia: dal governo autoritario alla costruzione del regime. La vicenda dei due manifesti, quello degli intellettuali fascisti e quello degli intellettuali antifascisti occupa un posto di rilievo in questo percorso.

La vicenda si consuma in poche settimane tra la fine di marzo e la metà di maggio del 1925 e si struttura intorno a tre atti diversi: 1) il “Convegno per la cultura fascista” che si svolge a Bologna il 29 e il 30 marzo; 2) la pubblicazione tre settimane dopo, il 21 aprile, del “Manifesto degli intellettuali del Fascismo” su molti quotidiani italiani; 3) la pubblicazione, l’1 maggio 1925 sul “Mondo”, giornale vicino alle posizioni liberali, del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”.

 

Cominciamo dal convegno.

Scopo del convegno è porre le basi della politica culturale del regime in quel momento in via di formazione e di dare corpo e fisionomia a una dimensione dottrinale del fascismo. Il testo del manifesto degli intellettuali fascisti risponde o è in sintonia con questa necessità. Della stesura del manifesto è incaricato Giovanni Gentile, Il testo è rivisto e coretto da Benito Mussolini come sottolinea Tarquini.

Quel testo dunque fa parte di un processo di costruzione culturale su cui giustamente insiste Tarquini: la definizione di un profilo del fascismo come cultura che non si identifichi né esclusivamente, né prevalentemente, con la dimensione squadristica. È un profilo su cui Gentile lavora nelle settimane che precedono il convegno. Essenziale il testo del suo discorso tenuto a Firenze l’8 marzo 1925 e poi ripetuto a Bologna, dal titolo Che cos’è il fascismo che Tarquini propone nel volume. Altrettanto significative, tra le molte, le riflessioni di Bottai, Corradini e Federzoni che Tarquini propone nella parte dell’antologia dedicata ai fascisti.

Il risultato è la consistenza non solo numerica, ma di alta qualità delle adesioni al manifesto promosso da Giovanni Gentile. La qualità delle adesioni è ricavabile dall’elenco proposto a pagina 40. Tarquini ricorda: Pirandello, Ungaretti, Volpe, Ernesto Codignola, Marinetti, Soffici, Malaparte.

Non meno interessante, anche se per altri aspetti, è il campo rappresentato dal manifesto degli intellettuali antifascisti.

Primo dato sono gli assenti. Non aderiscono al manifesto, infatti, i comunisti, i socialisti di sinistra, gli anarchici. L’adesione dei socialisti moderati non è massiccia. Prima conclusione: antifascismo, inteso come difesa e assunzione di valori democratici, nella primavera del 1925 vuol dire soprattutto liberali, democratici, ma non per esempio ciò che rimane dei popolari o figure alte del movimento sindacale. Se applichiamo il campo vasto che oggi identifichiamo con “antifascismo” allora il quadro del maggio 1925 che si presenta ai nostri occhi è quantomeno imbarazzante.

Non significa che tra gli aderenti non ci siano nomi significativi. Nel lungo elenco che compare a pagina 132 tra i firmatari del manifesto scritto da Benedetto Croce, infatti troviamo: Sibilla Aleramo Riccardo Bachi, Antonio Banfi, Corrado Barbagallo, Piero Calamandrei, Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Paola Lombroso. Attilio Momigliano, Gaetano Mosca, Giuseppe Rensi, Matilde Serao, Silvio Trentin, Vito Volterra, Umberto Zanotti Bianco.

Tutti rappresentano delle individualità, ovvero se stessi. Dietro quei nomi è difficile individuare delle realtà culturali consistenti, o delle passioni. O delle storie di gruppi.

Un secondo dato è segnato dal nucleo fondativo stesso del Manifesto, ovvero da Benedetto Croce, a lungo vicino al governo Mussolini, almeno fino a tutto il giugno 1924. Ancora in quei giorni, nel pieno della crisi Matteotti, Mussolini cerca Croce per proporgli la carica di ministro della Pubblica Istruzione dopo le dimissioni di Giovanni Gentile. Croce rifiuta ma ancora per tutto il 1924 tiene un atteggiamento equidistante. La scoperta di quella “religione laica” della politica, viene fuori dopo, nella primavera del 1925 e lì matura il nucleo che nell’aprile 1925 produce il testo del manifesto degli intellettuali antifascistiche per certi aspetti non è il risultato di un processo di critica, bensì l’avvio di un processo di distacco.

Se si leggono con attenzione i testi di Croce che Scirocco include nella parte dedicata al manifesto degli intellettuali antifascisti, emerge che l’accusa fondamentale mossa da Croce al fascismo è quella di contraddire l’idea di patria, di “negare agli altri partiti il carattere di italiani”.

A monte sta una valutazione della crisi politica che nell’ambito antifascista è espressa da un intervento che Guido De Ruggiero pubblica nel febbraio 1925 (opportunamente Scirocco lo propone in questa antologia (si trova a pp.160-165). Quel testo valuta la crisi come preliminare a un crollo del fascismo perché non ha costruito una classe politica. La crisi del fascismo e la sua prevedibile dissoluzione in tempi rapidi – scrive De Ruggiero nel febbraio 1925 – è determinata dalla inconsistenza della sua classe politica e dunque dell’impossibilità, per questo di rinnovarsi.

Il tema, dunque, era rappresentato, a partire dalla lettura proposta da De Ruggiero, dal mettere in evidenza la consistenza della classe politica e della capacità politica di tessere. Un dato che misurava, secondo De Ruggiero, la differenza con il fascismo che in nome dell’azione, non “costruiva una classe politica, non si dotava di una “generazione politica territoriale” e dunque, per questo, era destinato a scomporsi.

È una chiave interessante quella proposta da De Ruggiero. Lo è non tanto per comprendere la realtà politica presente, ma per indicare i criteri su cui si costruisce l’intelaiatura del manifesto di risposta degli intellettuali antifascisti al manifesto degli intellettuali fascisti.

Il tema infatti, nel manifesto promosso da Croce, è una netta divisione delle parti: da una parte il testo di una chiamata civile, quale nei fatti è il testo del manifesto, dall’altra la costruzione di una proposta politica cui si presta un segmento della classe politica. Il manifesto si presenta così come una divisione delle parti tra intellettuali e politici.

Testo cui arride un’ampia diffusione, in molti contesti urbani e accademici. Tuttavia testo che non è efficace proprio perché non è dotato di un progetto. È una premessa ma non ha un profilo.

Viceversa il manifesto deli intellettuali fascisti non solo ha un profilo, ma si presenta anche come un testo che chiede identità e soprattutto chiede adesione convinta.

C’è un dato nel testo scritto da Giovanni Gentile che merita attenzione ed è l’insistenza sul carattere antinazionale dell’opposizione. Nella parte conclusiva si legge:

“La grandissima maggioranza degli italiani rimane estranea e sente che la materia del contrasto, scelto dalle opposizioni, non ha una consistenza politica apprezzabile, ed atta a interessare l’anima popolare”. Per cui, prosegue il testo di Giovanni Gentile, “questa piccola opposizione al Fascismo, formata da detriti del vecchio politicantismo italiano (democratico, razionalistico, radicale, massonico) è irriducibile e dovrà finire a grado a grado per interno logorio e inazione, …” [p. 49].

 

Quel testo chiude un ciclo, iniziato con l’affaire Dreyfus – in cui gli intellettuali chiedevano conto alle proprie istituzioni delle mancanze o della violazione dei diritti – per risolversi ora, come si legge nel manifesto gentiliano nella categoria di Patria laddove scrive:

“… la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima. Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina” [p. 46].

È un tratto con cui ancora dobbiamo misurarci quando riflettiamo sull’onda lunga della cultura fascista nella formazione del carattere dell’italiano contemporaneo fino ad allungare l’ombra sull’“italiano attuale”.

Per due buoni motivi: da una parte riconoscere che il fascismo ha avuto una cultura, ha espresso un progetto culturale e lo ha messo in atto; dall’altra capire quanto, dopo, abbiamo fatto, o non abbiamo fatto, i conti con quel codice culturale che già allora mostrava gli elementi strutturali della sua natura totalitaria.

 

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