Storia

Italia 1919-1922

8 Settembre 2022

Il fascismo non ebbe il merito di impedire la vittoria del comunismo in Italia, bensì fu –  come aveva scritto Angelo Tasca in un testo per molti aspetti insuperato e che infatti, giustamente,  costituisce la base essenziale della monografia di Federico Fornaro –  una «controrivoluzione ‘postuma’ e preventiva»; un segmento rilevante della sua realtà sociale e politica era stato rappresentato dalla rivolta generazionale e dallo «stile D’Annunzio»; il suo successo denunciava l’inconsistenza politica dei socialisti italiani. Ma il suo successo che ne rese facile tanto la vittoria, quanto favorirne la durata, erano stati l’attivismo, il culto per l’azione, la incapacità del mondo liberale, le incertezze dei cattolici. Infine il fatto che più che di consenso era necessario parlare di uno «smarrimento di coscienza» che non aveva risparmiato nessuna classe sociale (classe operaia inclusa).

Il tema è dunque il triennio 1919-1922 che si chiude con la Marcia su Roma e il varo del primo governo Mussolini (per un’analisi circostanziata di quei mesi tra estate 1922 e novembre 1922 è assolutamente da leggere il volume di Giulia Albanese, ora opportunamente riproposto da Laterza).

Il profilo è quello di un tempo, certamente significativo in cui rapidamente si passa da una condizione che sembra collocarsi alle soglie della rivoluzione socialista al completo rovesciamento dei rapporti di forza e all’emergere di un nuovo attore politico, ma anche sociale, capace di rappresentare malesseri, malumori, che si candida a dare soddisfazione delle molte ragioni e alle molte forme di rancore.

Di quel quadro complesso più volte al centro dell’indagine storica Fornaro scrive con chiarezza e con competenza, certamente con passione – la sua non è una ricostruzione al di sopra delle parti, ma ciò non toglie che sia assolutamente oggettiva e attendibile – individuando alcuni temi che di solito sono rimasti al margine.

Ne considero tre.

Il primo riguarda appunto il linguaggio che si inaugura con la comparsa di Mussolini sulla scena politica tra guerra e dopoguerra.

Il tema del linguaggio ha al centro non tanto la denominazione esatta dei fenomeni, ma la costruzione dell’attore politico che si vuol rappresentare. Una continuità che soprattutto risiede nel linguaggio che dalla protesta (prima ancora che Mussolini sia “il Duce”) conduce alla costruzione del Duce.

È lungo l’asse temporale che sta tra il Mussolini agitatore e dirigente socialista dei primi anni del ‘900, fino alla definizione dell’identità collettiva italiana con cui si costruisce in forma consolidata il regime (e dunque tra 1926 e 1928) che quel linguaggio prende corpo definitivamente. Prende corpo nello stile, nella “lingua di Benito Mussolini”, sia negli anni della sua militanza socialista, sia in quelli del suo essere “duce”; tanto nello stile retorico, uso delle forme verbali, modalità del discorso pubblico, quanto nei temi o nelle immagini che quella retorica acquista già negli anni del suo esordio in politica, all’inizio del’900. Temi che riassumo in questi: elogio della teppa; antipolitica; autorappresentazione come Italia e dunque definizione di tutti gli avversari politici come AntiItalia; sovranismo economico e politica monetaria nazionalista; elogio della famiglia come patrimonio culturale da tutelare e come modello economico da salvaguardare.

Questo linguaggio si concentra su alcune parole chiave nel tempo tra Caporetto (ottobre-novembre 1917) e Marcia su Roma. Il primo dato su cui Mussolini agisce e che giustamente Fornero richiama riguarda i soggetti che chiedono di essere rappresentati dalla politica tra guerra e dopoguerra. Mussolini lo propone già nel dicembre 1917 coniando una parola che farà la differenza tra “prima” e “dopo” – Trincerocrazia – quando pubblica su “Il Popolo d’Italia un testo dal titolo appunto trincerocrazia in cui scrive:

“La trincerocrazia è l’aristocrazia della trincea. È l’aristocrazia di domani. È l’aristocrazia in funzione. Viene dal profondo. I suoi “quarti di nobiltà” hanno un bel colore di sangue” E chiude “Le parole repubblica, democrazia, radicalismo, liberalismo; la stessa parola “socialismo” non hanno più senso: ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro i milioni di “ritornati”. E potrà essere tutt’altra cosa. Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale. I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e nazione. (…)”

Mussolini è ancora un outsider ma “annusa il vento. E lo ripropone il immediatamente all’indomani della fine della guerra. Il 10 novembre 1918, un «corteo della Vittoria» percorre le strade di Milano. Mussolini prende posto su un camion di Arditi.  Dopo molti giri, tutta la compagnia irrompe in un gran caffè del centro, dove Mussolini tiene questo discorso: «Arditi! Commilitoni! Io vi ho sempre difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava…. Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe faranno giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia. Essa è vostra!».  Gli arditi estraggono i loro pugnali, li puntano su una bandiera che è stata stesa sulla tavola e acclamano l’oratore e la «grande Italia» che li promette.

Ciò non toglie che il linguaggio iniziale di Mussolini sia duplice e la prima fase del movimento dei fasci, tra marzo 1919 e estate 1920, segnata da una stretta convergenza con il movimento futurista sia fondata su n elemento di duplicità, di doppiezza. Mussolini stesso lo scrive nell’ottobre 1919 in un testo spesso dimenticato, o non valorizzato, ma che è una spia significativa di quella stagione politica che non a caso ritornerà negli anni del regime forte, nella seconda metà degli anni’30 quando si tratta di trasformare il regine da un impianto nazionalista a uno di nuovo movimentista o antiestablishment (sono gli ultimi 10 anni di vita del regime quando la verve razzista e antiborghese insiste di nuovo sul concetto di tradimento, di solitudine dell’avanguardia rospetto al popolo come massa di manovra che si inaugura con la legislazione razziale, irrora il linguaggio di Salò e si consegna invariata (significativa è la satira della stampa della stampa di destra nell’Italia post-1945) per atterrare nel linguaggio e nell’immaginario del neofascismo italiano postbellico.

Il testo esce il 13 ottobre 1919 su “Il Popolo d’Italia”, all’indomani del primo congresso dei Fasci di combattimento (Firenze 9-10 ottobre 1919) e in piena campagna elettorale – la prima con il voto proporzionale. L’editoriale si intitola Verso l’azione. Scrive dunque Mussolini (il corsivo è mio):

“non si ha ancora un’idea esatta di quel che sia e possa diventare il movimento fascista. Perché il fascismo è una mentalità speciale di inquietudini, di insofferenze, di audacie, di misoneismi anche avventurosi, che guarda poco al passato e si serve del presente come di una pedana di slancio verso l’avvenire. I melanconici, i maniaci, i bigotti di tutte le chiese, i mistici arrabbiati degli ideali, i politicanti astuti, gli apostoli che hanno i dispensieri della felicità umana, tutti costoro non possono comprendere quel rifugio di tutti gi eretici, quella chiesa di tutte le eresie che è il fascismo. È naturale, quindi che al fascismo convergano i giovani che non hanno ancora un’esperienza politica e i vecchi che ne hanno troppa e sentono il bisogno di rituffarsi in un’atmosfera di freschezza e di disinteresse”.

Il secondo dato da valutate sono appunto le elezioni in particolare il confronto non solo numerico, ma politico tra quelle del novembre 1919.e quelle del maggio 1921

Consideriamo il dato del novembre 1919.

Su quel risultato che premia il partito socialista e, soprattutto, immette nel mercato della politica il Partito popolare, ovvero il partito cattolico fondato e diretto da Luigi Sturzo, si è spesso insistito come momento alto e apicale del riscontro della nuova fase politica italiana che sembrerebbe immettere a un avanzamento della democrazia sociale se non, addirittura, essere premessa della rivoluzione socialista in Italia.

Fornaro non trascura questi due dati ma insiste, opportunamente, nel sottolineare come quel risultato elettorale più che segnare la vittoria delle opposizioni culturali e politiche dell’Italia liberale, segni invece il dato di crisi e dell’Italia liberale e dei gruppi che hanno espresso la classe politica di governo dalla fine del XIX secolo.

Questo dato significativamente ha un peso nelle elezioni politiche del maggio 1921.

La costruzione dei “Blocchi nazionali”, in cui entrano i Fasci di combattimento e che svolgono un ruolo primario nel dare un apporto organizzativo di trazione di consensi. È significativa la tabella che Fornaro propone a pp. 127-129 dove risulta evidente l’apporto dato dal movimento fascista al successo della lista a partire dalla graduatoria degli eletti in cui i candidati fascisti erano quasi ovunque ai primi posti (tra questi si segnalano: Giuseppe Caradonna a Bari; Roberto Farinacci a Cremona; Dino Grandi a Bologna; Giovanni Giuriati a Venezia; Francesco Giunta a Trieste, Costanzo Ciano a Pisa).

Ed è ancor più significativa l’analisi del voto in Emilia Romagna nel 1921 che Fornaro propone a pp.130-132: per due motivi:

1.      costituisce una verifica della penetrazione del movimento dei fasci a seguito della prima fase di azione squadristica che si annuncia a Trieste il 13 luglio 1920 con l’assalto guidato dal ras fascista locale Francesco Giunta al alla casa di cultura slovena (Narodni Dom) nonché il suo il suo incendio e che si definisce nelle sue linee essenziali e definitive con l’assalto a Palazzo Accursio a Bologna nel novembre 1920.

2.      Le elezioni del maggio 1921 segnano dunque un passaggio, non foss’altro per l’uscita di scena definitiva di Giovanni Giolitti, e inaugurano un percorso che in meno di venti mesi conduce Benito Mussolini al governo.

In quella stagione, infatti,  si definiscono molti elementi di un quadro che poi rimarrà dato per l’Italia del ventennio successivo: la lenta disgregazione e la ghettizzazione del movimento sindacale e del movimento socialista; la costruzione di un partito (il momento rituale è sancito dal congresso di Roma del novembre 1921 che segna la trasformazione dei Fasci di combattimento in Partito nazionale fascista, passando per la costruzione, come ha richiamato Emilio Gentile, di un partito milizia).

Il quadro che si inaugura è decisamente una nuova stagione politica con gli attori che nei due anni precedenti sembravano destinati ad essere i nuovi protagonisti ridotti al margine, comunque costretti a subire l’azione e l’egemonia della nuova forza emergente del fascismo in crescita costante.

Il terzo dato è costituito da ciò che si inaugura con il 28 ottobre 1922 e, ancora meglio, con il primo intervento alla Camera da capo del governo il 16 novembre 1922, più noto come “discorso del bivacco”.

Fornaro giustamente non si limita a ricostruire la scena dell’ingresso dei marciatori a Roma la mattina del 31 ottobre 1922 o dell’incarico di formare il governo che Mussolini riceve la sera del 29 ottobre.

Il tempo del fascismo è ormai sancito.

E tuttavia, proprio per certificare il passaggio irreversibile di quel momento, forse l’elemento più significativo è condensato nelle parole di Giovanni Amendola, che si collocano tra il momento della marcia e la percezione del tempo nuovo che si è aperto.  Amendola scrive il 27 ottobre 1922:

 

…il nuovo allarme ci sembra ingiustificato. Lo Stato ha ancora forza e capacità per difendersi quando fosse veramente minacciato ed assalito. Ma nessuno che non voglia davvero la rovina della nazione può pensare ad assalirlo, sia con l’estrema violenza, sia con il corrodimento interno, perché a nessuno può giovare una eredità che si concreterebbe in un potere vuoto di senso, così sospeso, come sarebbe dopo il colpo di mano, tra l’anarchia e il fallimento. Restiamo, perciò, tranquilli.”

 

Poco più di sei mesi dopo (nel maggio 1923 sul periodico “il Mondo”, Giovanni Amendola sarà il primo a indicare nel fascismo un nuovo tipo di regime per il quale propone anche un termine nuovo – «totalitario» – per designare un sistema votato alla “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo politico e amministrativo”.

È iniziato un nuovo tempo. Ma a lungo quel nuovo tempo non verrà percepito.

La percezione di quel passaggio, eccetto alcune figure dell’antifascismo democratico, sfuggiva ancora alle opposizioni, anche in conseguenza, come ha osservato lo storico Emilio Gentile, del giudizio che essi avevano della qualità della democrazia parlamentare italiana.  Il che voleva dire che uscire da quell’epilogo non includeva solo restaurare qualcosa, ma modificare radicalmente l’impianto politico, più generalmente la cultura complessiva dei democratici, dei socialisti, dei liberali, dei cattolici. Soprattutto tornare a riflettere sul proprio strumentario e abbecedario politrico. Per questo, opportunamente Federico Fornaro chiude ricordando le riflessioni amare e autocritiche che Carlo Rosselli scrive nell’aprile 1926

“Le ragioni della disfatta – scrive Rosselli nel numero 2 della rivista “Quarto Stato” (aprile 1926) – non vanno cercate negli avvenimenti esteriori. Siamo noi gli autori e del nostro bene e del nostro male”.

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