Storia

Irlanda, Olanda, Gaza, Israele, EU… il lungo inverno della democrazia che avanza

27 Novembre 2023

Siamo entrati definitivamente nel tempo della lotta alla sostituzione etnica (i fatti di Dublino, il voto in Olanda, di questi giorni sono solo due dei tanti bookmarks di questo nostro presente).

Riguarda tutti e permea il vocabolario politico mainstream.

Riguarda le destre politiche e culturali che la rivendicano, ma anche una parte consistente delle sinistre.

Nel frattempo, in casa nostra –  qui, in Italia – la realtà ci dice che quei ceti svantaggiati e bassi che le sinistre dicono di rappresentare nei fatti si sono spostati e si fanno rappresentare politicamente dalle forze sovraniste.

In breve siamo entrati in un tempo di “nazionalismo armato” e di realtà statali che avvertono la necessità di abbassare gli spazi di autonomia culturale delle minoranze interne. Si potrebbe anche aggiungere che è la dimostrazione di una nuova egemonia del Tramonto dell’Occidente di Spengler. Quel libro è tornato ad essere un testo di riferimento (ammesso che ci sia stato un tempo in cui se ne era andato via).

Aveva ragione molti anni fa Fernand Braudel. La forza del Tramonto è in un codice culturale con cui era arduo, comunque impegnativo, fare i conti. Non già in forza della sua fondatezza, ma come conseguenza di una macchina mentale che occorreva affrontare, smontare e rimontare con pazienza. Se ci risiamo, vuol dire che sono mancate o sono state fallaci le risposte che il pensiero democratico e quello progressista avevano ritenuto di essere stati in grado di dare.

Bisognava impegnarsi di più. Ora la risposta è prima di tutto nel trovare una nuova legittimità alle proprie convinzioni, prima di essere in grado di modificare il “senso comune”.

Il 7 ottobre ha avuto un significato esplosivo perché ha eliminato l’ultimo velo su un dato che riguarda tutti gli attori quelle geograficamente sul campo e quelli geograficamente lontani dal campo. Ovvero; Israele; il progetto di futuro che propongono da Gaza (e che sembra attrarre la maggior parte dei palestinesi); tutte le realtà statali presenti nel quadro medio orientale; qui in Europa, e sostanzialmente in un qualsiasi luogo che si presenti come Stato-nazione o come progetto di Stato nazione.

Semplicemente la nuova regola di fondamento di qualsiasi regime politico, (sia esso democratico-parlamentare, autoritario, populistico, totalitario) è ormai l’affermazione della politica di coesione nazionale sul principio della lotta alla “sostituzione etnica”.

Certo la nostra attenzione è in questo momento concentrata su ciò che accade a Gaza.

Trovo interessante che nessuno ponga il problema del dopo, eccetto alcuni (per esempio Wlodek Goldkorn).

Credo che dipenda dal fatto che il problema non è trovare una soluzione locale, ma prendere le misure di un fenomeno globale.

In breve quando si parla del futuro là, si parla della crisi culturale, politica, e di futuro qua.

Dire che il linguaggio, la cultura e la visione politica della lotta alla “sostituzione etnica” fondano il codice culturale di questo nostro tempo – dovunque e per chiunque – significa uscire dalla natura specifica (regionale) della crisi che si è aperta il 7 ottobre e guardarla per le dinamiche (emozionali, culturali, sociali,…) che essa propone a livello globale.

La raccomandazione è una sola: guai a ibridarsi.

Qualcuno potrà dire che questo dato non è una novità e che in fondo ciascuna realtà nazionale nasce e racconta la propria memoria e il proprio diritto all’esistenza come progetto di dignità del proprio gruppo etnico-nazionale ad avere uno spazio non sottoposto a possibili mutazioni da gruppi umani estranei, che “vengono da fuori”, che godono dei risultati, che non hanno fatto nulla per ottenerli, e che comunque a casa loro nel loro sistema culturale di riferimento non hanno diritto di cittadinanza.

Dire che questa dimensione ci riguarda tutte le realtà nazionali (esistenti ora o che lottano per affermare la propria esistenza) non significa dire che in ogni contesto avremo la stessa realtà: ci sono e si saranno realtà in cui il gruppo etnico e culturale di maggioranza concederà spazi di autonomia e di produzione culturale ampi, e realtà dove semplicemente questa possibilità non c’è, non ci sarà mai.

Significa che al massimo possiamo aspirare a costruire o ad essere partecipi di realtà multiculturali sub-judice. Vuol dire che le minoranze avranno possibilità di una loro autonomia solo se percepite come parte all’estero di una realtà statali. Se invece non avranno uno Stato alle spalle o in grado di proteggerle allora la loro vita sarà assai grama (per chi avesse dubbi consiglio di chiedere ai curdi, o agli esuli rispetto a paesi a regimi autoritari).

Il che apre una seconda questione che qui per ora accenno molto di sfuggita, ma che non mi sembra meno inquieta.

Nella stagione che si è aperta con il crollo del muro di Berlino, il refrain è stato che cominciava una nuova era di libertà.

Non è andata così: sono aumentate le ingiustizie, le agenzie internazionali (a cominciare dall’ONU, ma anche la Croce Rossa Internazionale non mi sembra che abbia molte possibilità di azione) che dovevano avere un ruolo di arbitrato hanno sempre avuto meno forza; sono aumentati i muri di divisione e di separazione; il diritto internazionale è sempre più arretrato.

La domanda che mi faccio è: siamo proprio certi che non sarebbe meglio ristabilire una condizione di guerra fredda?

In breve accanto alla insorgenza delle politiche volte al contrasto della sostituzione etnica (peraltro in tempi di forti processi migratori) forse abbiamo anche un problema di governare in sicurezza o di contenere a livello basso conflitti che ora sono senza rete.

Non è così improprio che lo scenario indichi una preferenza per politiche sovraniste. Non è una stagione. È un lungo ciclo che forse chiede nuove regole di governance internazionale, fondate su riscrittura di rapporti di forza, su nuovi punti di confine, su regole di governo da parte di propri “genitori tutelari” che ovviamente solo in parte sono gli stessi del 1945.

Chiede anche la costruzione di un sistema culturale, di sensibilità opposte che si impegni a costruire ipotesi radicalmente alternative. Non c’è una lotta di liberazione in corso che abbia un “grumo” di contenuto in gradi di trasmettere contenuti opposti al mainstream vincente. Non c’è nemmeno un prodotto culturale (filmico, letterario, simbolico, concettuale, simbolico,….) capace di essere generativo o “esemplare” o di svegliare inquietudine. Al più ci sono delle vaghe e nostalgiche espressioni di malessere. Alle maggioranze appaiono come “mal di pancia di zona 1” direbbero a Milano.

Per ora non intravedo né il codice, né il vocabolario, per affrontarlo. Ma soprattutto non intravedo l’inquietudine. Domina “il tifo”.

Ci aspetta un “lungo inverno”. E’ il “lungo inverno della democrazia”.

 

 

 

 

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