Costume
Inaspettatamente, una luce nella nebbia
Inaspettatamente, ma forse non bisogna poi stupirsi così tanto e vedremo perché, arriva dalla Sicilia la soluzione.
Non sono le sardine l’animale simbolo di una rivolta contro il leghismo e tutto il corollario che il leghismo ha costruito e si porta dietro nelle sue grottesche carovane. La Sicilia, si sa, ha una chiave ironica e surreale di interpretare la realtà. L’ha sempre avuta, volgendosi talora in chiave propositiva talaltra in chiave regressiva, ma l’ironia è sempre in agguato. Un attore siciliano può essere il più tragico dei tragici nelle più tragiche tragedie greche ma potrebbe stupire per un guizzo da commedia quando meno te lo aspetti.
L’esilarante messaggio delle sardine catanesi a Salvini è, dal punto di vista della comunicazione, costruito benissimo. Secondo me inconsapevolmente. Ma è un’inconsapevolezza supportata da una cultura antica e permeata di altre culture, vicine e lontane, che si sono stratificate nei secoli e che costituiscono proprio l’unicità endemica e che, anche se non vuoi, riaffiora inconsciamente. La Sardegna, antichissima pur essa, per esempio, non è altrettanto profonda, è più tagliata coll’accetta. E non lo sono Cipro, Creta, le Baleari, per quanto luoghi antichi e interessanti. Non è una gara, ovviamente, è solo Storia, Storia che è passata con maggior facilità in un luogo che è naturalmente il ponte-corridoio tra continenti diversi, nel mezzo del Mediterraneo, dove si svilupparono città ex-colonie greche da superare in potenza e splendore quelle della madrepatria. Un luogo ideale. Lo disse perfino Goethe, che se ne intendeva, pur nella sua a volte tronfia prosopopea.
Dopo quest’inutile, pur se minimo, sfoggio di cultura, come alcuni dei miei pochi lettori che mi accusano di prolissità e di (supposte) assenti sintesi scriveranno, vediamo perché non è inutile. Diceva una mia prof del liceo: “Fate conto di parlare sempre con qualcuno che non sappia niente”, perché non è detto che chi legge o chi ascolta sappia il perché delle cose e spesso un piccolo riassunto delle puntate precedenti può essere d’aiuto.
Andiamo al punto e analizziamo la superba vignetta.
Campo azzurro, come uno schermo cinematografico, un mare dove diversi pesciolini, di cui si vede solo il contorno in un azzurro più chiaro, nuotano tutti in una direzione, da sinistra verso destra, tranne uno. Quell’uno, in primo piano, è bianco e guarda al centro dello schermo dove campeggia un circolo bianco e blu, simile all’icona attuale della Lega. Al posto delle parole Lega, Salvini premier, Padania, e le solite cose che si scrivono per attrarre gli elettori simpatizzanti, viene sventagliato il termine ALLICCATI e, nella calotta inferiore, A SADDA, in giallo. Potrebbe leggersi allìccati o alliccàti, a seconda di come si voglia intendere, ora ci arriviamo. Sulla calotta inferiore, sempre all’interno del circolo bianco, è appoggiato in piedi un elefante che brandisce una sarda nella proboscide, a mo’ di durlindana orlandica, forse anche per la tradizione paladinica della locale Òpira ’e pupi (in catanese): Beccati questo colpo Ferraù!
Tutti sanno che nel blasone della Lega c’è il famosissimo Guerriero di Legnano, statua che quegli ignoranti di leghisti identificano con Alberto da Giussano, un condottiero di pura fantasia che molti italiani conoscono per averlo studiato nella famosa poesia di Giosuè Carducci. Ai nostri tempi, alle elementari (!) dall’Alpi alle piramidi, la imparavamo a memoria: “Vi sovvien, dice Alberto di Giussano… eccetera”. E anche la memoria gioca un ruolo enorme in questa innocente e ironica vignetta. È incredibile cosa ci possa stare dietro dei simboli così giocherellonamente utilizzati.
Dietro la sarda bianca in falsa contemplazione pende un amo dall’alto, la trappola in agguato, ma il dolce animale, colla coda a forbice è pronto a tagliare il cavo dell’amo, mentre una dichiarazione di coscienza in basso proclama: CATANIA NON SI LEGA E NON AMMUCCA. In endecasillabo, peraltro. Perbacco!
Geniale. Allìccati a sadda vuol dire leccati la sarda, oppure alliccàti, leccate la sarda, imperativo seconda persona plurale. Catania non si lega e non abbocca.
Alliccari a sadda significa, in catanese, non avere di che mangiare, quindi leccare, neanche mangiare, la sarda – strofinando il pane per avere almeno l’aroma della sarda – uno tra i più economici e inesauribili cibi a disposizione. Indirizzato al Capitano senza macchia e senza paura significa: resterai a leccarti la sarda, noi ti sorpassiamo senza abboccare, non caschiamo nella tua trappola.
E qui entra in campo l’elefante.
L’elefante, come ognuno sa, è la statua principale della fontana nella piazza del duomo di Catania, la statua su cui è stato ideato e costruito il monumento. Statua antichissima, carica di storie, leggende, simbologie, che fu spostata nel tempo in varie parti della città. Costruita in pietra lavica non si sa quando, la statua ebbe a soffrire parecchio col sisma del 1693, dove perse la proboscide e le zampe anteriori, ricostruite dall’architetto G.B. Vaccarini, che la sistemò nella scenografica fontana piena zeppa di altri simboli legati al territorio e alla Storia. Quella statua si porta sul groppone, quindi, oltre duemila anni di Storia e di attribuzioni, tra cui culti dionisiaci (Dioniso trionfante dall’India viene raffigurato spesso su un elefante) e, posteriormente, cristiani, legati all’Asia. L’elefante sembrerebbe, infatti, un elefante asiatico, in quanto ha le orecchie piccole. La stilizzazione primitiva della simpatica e sorridente statua la rende quasi moderna, come se fosse stata scolpita nel Novecento.
La sistemazione con gualdrappa marmorea e con obelisco presumibilmente egizio che si dice venga da Syene, l’odierna Assuan, è tutta barocca, naturalmente. Ma si riallaccia a una tradizione in cui l’elefante, per la sua mole e per la sua intelligenza era la cavalcatura di principi orientali, usato perfino come macchina da guerra per la sua potenza (Cartagine), comparendo come simbolo di forza e regalità nelle monete di Giulio Cesare e di Alessandro Magno, il quale in India, però, c’era arrivato secoli prima.
Leonardo da Vinci, nelle schede del suo bestiario, si dilunga moltissimo sulla creatura, ammirando l’elefante e il suo stile di vita, diremmo oggi, mettendo in evidenza le virtù dell’animale, che si unisce in branchi dove il primo è il più anziano e il più saggio e, in caso di attacchi da predatori, guida e difende gli altri, evitando la dispersione perché sa che un branco di elefanti è invincibile. In effetti è così. Non si può disperdere un branco coeso di elefanti che travolgono ogni cosa, soprattutto se sono incazzati.
A parte l’umanizzazione che Leonardo fece nei suoi appunti, dove c’è molto di Plinio il vecchio, e quella dei cartoni animati di Walt Disney, nell’arte l’elefante è sempre stato utilizzato come simbolo di forza, vedi quello berniniano di piazza della Minerva, o in altri casi, come stiloforo o, udite udite, come base per un seggio vescovile. Accadde a Canosa di Puglia, nella cui cattedrale di San Sabino, edificata per volere del longobardo Arechi II, duca e poi principe di Benevento, si trova il seggio vescovile in questione. Sempre in Puglia, e sempre nella cattedrale, a Otranto, i mosaici monumentali mostrano elefanti, creature associate alla forza di Cristo. Quante storie parallele si porta dietro il Liotru catanese, eh?
Ora, lasciando da parte le sardine che sono animalucci carini e pure ottimi da mangiare, in frittura, in polpette, a beccafico, nella pasta, la simbologia coinvolta quasi per caso dai buontemponi siciliani potrebbe rivelarsi vincente. L’elefante, anzi, un branco sterminato di elefanti travolge la Lega e la schiaccia senza speiranza. Scendiletto, da un giorno all’altro, adornato con tutte le felpe e le divise del Capitano come frange. Il Capitano come una panella.
L’elefante, animale con memoria di ferro, in un branco invincibile, potrebbe far ricordare al Capitano, sempre e soltanto coll’ironia tutta siciliana, le malefatte e le frasi infelici del Capitano stesso e dei suoi predecessori, i vari Bossi, Borghezio, Gentilini, i peggiori elementi che hanno sempre manifestato odî, rancori, insulti, orrende alleanze con varie Le Pen e altri oscuri personaggi europei. Ricordandosi poi delle scempiaggini e dei deliri di Gianfranco Miglio, il famoso storico e ideologo della Lega Lombarda, quella che ce l’aveva duro, che urlava Roma ladrona, adorava l’ampolla colla sacra acqua del Po, gli elefanti non scordano nulla: il Parlamento del glorioso nuovo stato federale sarebbe sorto a Frosinone. Frosinone, nientemeno. Roma era solo per il papa, diceva Miglio, com’era sempre stato. Così, forse, i parlamentari federali avrebbero avuto facile accesso a Fiuggi e ai riposi termali. Scempiaggini in libertà. La memoria degli elefanti è inesorabile.
Gli elefanti potrebbero ricordare alla Lega, senza mai nominare Salvini, diminuendo immediatamente la sua importanza che, va detto, spesso se la dà lui da sé coi suoi patetici post sui social, tutte le sconcezze dette sui meridionali e ricordare tutti gli scandali legati ai governi di destra nelle virtuose regioni del Nord, così care al Capitano e dove tutto, nella narrazione dominante, funziona come un orologio svizzero. Gli elefanti, se solo si decidessero a venir fuori e a mettere da parte la loro indole abbastanza mansueta, in fondo, e di travolgere per davvero quelle ridicole esibizioni rosariane del Capitano, con tutto il cocuzzaro di contorno, potrebbero realmente produrre un bel cambiamento. Basato unicamente, all’inizio, sulla memoria, che è una cosa che di questi tempi latita, in questo paese. I giovani memoria non ne hanno e non possono avercela; i vecchi sì. Ma i giovani dovranno ascoltare e sapere ascoltare i vecchi – almeno quelli non devastati dall’Alzheimer – che, come gli elefanti, ricordano tutto per filo e per segno e sono schifati, forse più dei giovani. E sono altrettanto schifati di come si è mutato il partito democratico, proprio perché ha messo la memoria in un baule e senza naftalina, perché le tarme potessero meglio distruggerla. Almeno così anche le malefatte di certa – sedicente – sinistra, senza memoria, non saranno mai esistite, si saranno detti. Ma gli elefanti ricordano.
Forza, giovani e vecchi, create un nuovo movimento di elefanti e lasciate le sardine alla gastronomia che è meglio. Soprattutto evitate di confondervi colle gretesche schiere perché il clima cambia con una velocità che manco vi immaginate e st’ecologismo strampalato oggi alla moda non lo sarà più tra non molto, non è un carro vincente, si perde solo tempo. Non fatevi fregare e sfruttate la memoria di tutto, ricordate chi ha fatto cosa e diffondetelo. Le azioni hanno, sempre, nomi e cognomi; spesso sono anche immortalate in opere pubbliche che non funzionano (il Mo.S.E. per esempio? Il Ponte Morandi? L’A26?). Vanno ricordati e spiattellati in faccia. Con ironia, naturalmente, che è l’unica vera arma che smonta ogni cosa, ne è testimonianza la vignetta catanese. La usa anche Salvini per smontare gli avversari, glielo suggerisce il suo staff che conosce ogni segreto del marketing ma che non conosceva la capacità creativa siciliana. L’ironia può essere usata sapientemente anche contro di lui, rendendolo ridicolo, cosa che è. Usate, una volta tanto proficuamente, i social, e che cazzo. E, soprattutto, accanto alla part destruens associate una corposa pars construens. Ricordate Socrate!
Leonardo Sciascia soleva dire che la Sicilia è il laboratorio politico dell’Italia, naturalmente declinandolo in un senso terribile. Forse l’estro e la fantasia siculi, ingredienti di un laboratorio periferico e erroneamente considerato sonnolento, oggi, potrebbero essere d’ispirazione per superare la delusione planetaria delle costellazioni di stelle cadenti al governo centrale e indicare qualcosa basato sulla concretezza della poderosa e maestosa memoria elefantina. Forza Sicilia! Forza Elefanti!
A proposito, catanesi, è ancora in uso, da parte degli “anziani” costringere le matricole a baciare il culo al Liotru?
© novembre 2019 Massimo Crispi
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