Storia
Il terribile attentato e l’elsa inchiavardata
Forse pochi, attraversando la strada che divide l’edificio della cattedrale dal palazzo arcivescovile di Palermo, si sono accorti dell’inconsueto oggetto conficcato in un’anta del portone di quel palazzo. Si tratta dell’elsa d’una spada, divorata dalla ruggine, che ci racconta una storia antica di violenza, la narrazione di una congiura, una delle tante che hanno segnato le vicende complesse della Sicilia.
Quella spada era appartenuta a Matteo Bonello, conte normanno e signore di Caccamo, giovane tanto brillante quanto ambizioso che, approfittando della indolenza del proprio sovrano, si trattava di Guglielmo I, si era messo alla testa di alcuni baroni per detronizzarlo.
Quella spada era servita, almeno così ci tramandano le cronache, per uccidere Majone da Bari, l’emiro degli emiri, l’uomo più potente del regno, l’uomo nel quale re Guglielmo aveva riposto la sua fiducia, l’uomo che suscitava tante invidie nella nobiltà normanna, e che costituiva un forte ostacolo per il raggiungimento dell’obiettivo coltivato da Bonello.
Il fattaccio avvenne la sera dell’11 novembre 1160.
Quella sera l’alto funzionario del regno si stava recando a palazzo arcivescovile per incontrare l’arcivescovo Ugo, una visita di cui erano pochi a conoscenza e, fra essi, quasi certamente anche il Bonello che colse al volo l’occasione.
Infatti, quella fatidica sera, il conte, con un piccolo manipolo di uomini fidati, si appostò in un angolo buio della via Coperta (oggi via Matteo Bonello ) ed attese che Majone arrivasse.
Essendo più o meno nota l’ora dell’appuntamento, i congiurati non dovettero attendere più di tanto prima che l’ignaro funzionario, che pare andasse in giro privo di scorta, giungesse presso la porta del palazzo arcivescovile.
Fu allora che i congiurati uscirono dall’ombra e si avventarono come belve sulla vittima indifesa. Majone fu trafitto a morte proprio dinanzi a quel portone che, nonostante le sue invocazioni di aiuto, era rimasto ermeticamente serrato.
I congiurati ben sapevano che tutto si sarebbe dovuto concludere con estrema rapidità per evitare l’intervento delle guardie regie, eppure stranamente (e questo ci fa sospettare che Bonello avesse dei complici nel palazzo), Matteo si prese il tempo necessario per conficcare, quasi a sigillo del suo delitto, il troncone dell’arma assassina nel battente in alto del grande portone del palazzo vescovile.
Di fronte a quanto era avvenuto re Guglielmo, che intanto era rientrato in città dal castello della Favara dove passava le sue giornate fra cacce e sollazzi , sembrò incerto su come reagire: sulle prime infatti sembrò parteggiare per Bonello ( ch’era intanto rientrato a Palermo ed era stato accolto dal popolo come un eroe), ma subito dopo, forse convinto da quanti parteggiavano per il defunto Majone, cambiò idea accusando del delitto di fellonia i congiurati.
Per Matteo Bonello non si presentava altra via di scampo che la fuga, pensò bene infatti di abbandonare Palermo per rifugiarsi fra le mura protettive del suo imprendibile castello di Caccamo.
A Palermo intanto la situazione sfuggiva di mano a re Guglielmo che, il 1° dicembre, solo per la prontezza di spirito e l’ardimento del conte Riccardo di Mandra riuscì a salvarsi rifugiandosi nei locali della Torre Pisana di palazzo dei Normanni.
Da lì, il re assistette impotente al saccheggio del palazzo ed alla acclamazione a sovrano di Sicilia del proprio figlio Ruggero.
Di fronte a quello scempio sia la Chiesa siciliana che molti nobili normanni che avevano simpatizzato con gli insorti compresero che la situazione stava sfuggendo di mano e che dunque fosse necessario un intervento per ristabilire la legalità.
Tanto fu sufficiente perché si manifestasse un nuovo mutamento di campo.
Quel popolo, che aveva dichiarato di voler deporre Guglielmo, ora acclamava a gran voce il sovrano e gli restituiva la pienezza dei poteri.
La vendetta di Guglielmo fu terribile, non ebbe pietà per nessuno fossero essi nobili o villani, uomini o donne, pare che, addirittura, con un calcio avesse perfino ucciso il figlio Ruggero che al tempo aveva appena nove anni.
Matteo Bonello restava intanto a Caccamo in attesa degli eventi.
A Caccamo lo raggiunse però un messo del re che gli prometteva, sempre che si fosse presentato al suo cospetto chiedendo perdono, di lasciarlo in vita.
Bonello non ebbe dubbi, la promessa di un re era sacra, poteva fidarsi.
Ma Guglielmo non era un sovrano qualsiasi, era uno che non perdonava ( non per nulla è passato alla storia come “il malo”) , e Matteo Bonello, inquieto fellone, ne fece le spese.
Avutolo fra le mani, Guglielmo ordinò che il conte venisse accecato e, dopo averlo torturato a dovere, gli fece recidere i tendini e gettare in un’orrida prigione nella quale, di lì a poco e fra atroci tormenti, rese l’anima a Dio.
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