Storia
Il silenzio come via di fuga e, con difficoltà, come virtù
“La storia, si sa è fatta dai vincitori, ma pure dai chiacchieroni” è la frase con cui Remo Bassetti chiude la breve introduzione a Storia e pratica del silenzio (Bollati Boringhieri).
Premessa efficace perché consente di aprire un’indagine intorno a silenzio che segue piste molto diverse da quelle tradizionali.
Il momento del silenzio è oggi spesso quello della lettura. Pratica recente, perché a lungo i libri venivano ascoltati, più che letti in solitudine e in silenzio. Non era solo la conseguenza di un basso tasso di alfabetizzazione, ma era anche il segno che il momento del sapere si formava in pubblico, in una chiara divisione di ruoli.
Non era l’unica dimensione in cui la parola costituiva una pratica eccezionale, rispetto al silenzio come pratica collettiva.
In questo senso, forse, più che la condizione del silenzio, ciò che ha valore è l’esperienza del silenzio. Perché il silenzio è linguaggio, ascolto e visione.
Così come il dolore, le molte forme del silenzio raccontano di un’esperienza che non è solo una e non è sempre la stessa.
Il silenzio è una prova in cui ci si cala volontariamente o dunque si sceglie, o la si subisce, come altra forma del dominio su di noi, di dominio non solo sulle nostre scelte, ma anche sul nostro corpo.
Di silenzio, tradizionalmente nel corso del XX secolo abbiamo ragionato soprattutto in termini di censura, de dunque di oppressione, una memoria di quella condizione si ritrova oggi nella dimensione della richiesta di parola libera «senza limiti». Condizione, per esempio, che sta alla base, anche – e sottolineo anche – della costruzione della lingua dell’odio.
Il che significa che oggi il silenzio, più che sottrazione, è precondizione per dichiarare non la propria indisponibilità a stare nel chiacchiericcio.
Anche per questo, forse la questione del silenzio va indagata e mappata non più solo come oppressione subìta, ma come una dimensione nuova, come fascino. Ovvero il silenzio del silenzio: come esperienza, come pratica, come tempo di vita.
La questione del silenzio, dunque, va valutata sotto vari aspetti. Si può ritenere che il silenzio talora nasca dalla solitudine, oppure dal variare delle coordinate culturali che non consentono che si diano spazi di interlocuzione.
Ma si deve tener conto che esiste anche un silenzio che è un ritrarsi dal mondo. Sono, per esempio le riflessioni di Rousseau nel testo delle sue Passeggiate, come bilancio di fine vita.
Eppure, del silenzio si deve tener conto anche in un altro senso: ovvero come pratica del distacco, dell’astensione, forse la risposta più inquietante per una politica che, con la crisi dei partiti di massa, deve trovare oggi le forme più “di pancia” per assicurarsi consenso. Da questo lato il populismo, più che essere la risposta alla crisi della politica, è la via traverso la quale la politica cerca di riaccreditarsi.
Possiamo, invece, assumere il silenzio come quella pratica che non intende entrare in trattativa con la politica, e che sceglie di proporsi come politica. Allora quella la sua premessa consiste nel non essere sul mercato, e dunque non andare in cerca di un padrone cui affidare le proprie sorti.
Posta così la questione del silenzio, forse acquista nuovi statuti, a partire appunto dalla premessa della sua non disponibilità a compromessi.
Per esempio: va aperta la questione del proprio silenzio (ovvero di ciò che riguarda il proprio io), e quella della parola pubblica (ovvero l’esercizio della riflessione pubblica), dove deve occupare la scena la capacità di discernere, di non introdurre il proprio Io.
Non si tratta di punire sé stessi o di negare la propria personalità, ma di tenere a freno la propria irruenza.
Il silenzio dunque è una condizione in cui si delinea un patto.
Sotto questo profilo rientrano le molte forme de vissuto religioso o dell’esperienza di fede. Vi rientra per certi aspetti un’esperienza mistica e la decisione di vivere “ritirandosi dal mondo”. Sottolinea Bassetti che il silenzio è anche molte altre cose: c’è una dimensione carceraria del silenzio, che ha la doppia faccia di consentire la riflessione sul proprio crimine, oppure di segnare l’oppressione del potere totalitario sul corpo del prigioniero. In quel caso il silenzio è una pratica che ha come obiettivo l’annichilimento del prigioniero.
C’è anche un silenzio nella pratica analitica di scavo nel disagio. Riguarda l’atteggiamento del paziente, le sue resistenze a raccontare, ma anche la non perturbabilità dell’analista che aspetta “in silenzio” – che il paziente i rompa il silenzio e inizi a parlare.
Senza dimenticare una diversa dimensione con cui nell’epoca dell’immagine, dobbiamo prendere le misure: il fatto che le immagini talvolta ci annichiliscono.
Riguarda non ciò che non vediamo, ma ciò che non vogliamo vedere per cui riempiamo di parole il nostro presente, magari anche su temi da cui siamo presi violentemente, ma alla fine tutto appare come una strategia, voluta o casuale, con cui evitiamo accuratamente di prendere le misure del reale.
Quel percorso si interrompe, almeno temporaneamente, quando siamo costretti a misurarci con ciò che abbiamo sistematicamente evitato di affrontare. Allora l’unica reazione è il silenzio.
È l’operazione che ha proposto l’artista cileno Alfredo Jaar con Untitled 1994. La foto dei massacri in Rwanda, una realtà che abbiamo fatto di tutto per non vedere, è ciò che non volevamo sapere o che la narrazione giornalistica non era disposta a raccontare.
L’unico modo per prendere la misura delle cose era proporre un vuoto tra noi e il reale così come era stato. Ovvero sospendere, almeno temporaneamente, il flusso di parole.
Il silenzio, in quel caso era il segno dello scandalo.
Tuttavia, la sua gestione, oltre il messaggio artistico, rischia di non essere efficace. Quella pratica di silenzio, infatti, oltre il messaggio artistico di Alfredo Jaar, non è la risposta. Ovvero segna la misura della nostra impotenza, più che il misuratore della nostra vergogna. Provare vergogna, infatti, vorrebbe dire attribuire a quel silenzio una funzione educativa, ovvero che si è fatto memoria di qualcosa e,dunque, si è intrapresa una strada diversa.
Non mi pare, perché la stessa latitanza, da allora, si è ripetuta molte altre volte. Per cui quel silenzio, più che «atto di responsabilità», come Alfredo Jaar propone di assumere, mi pare si confermi come «via di fuga». Ancora una volta.
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