Storia

Il silenzio assordante del centenario della Rivoluzione d’Ottobre

4 Novembre 2017

Diciamolo! La riflessione intorno al centenario della Rivoluzione d’Ottobre non è un granché. Sarebbe interessante chiedersi perché una data del calendario civile internazionale abbia avuto una caduta verticale nelle passioni. La risposta più ovvia sta nell’epilogo, ovvero nel crollo dell’Urss (1991).

Il centenario per molti è l’anniversario di qualcosa che non c’è più (un po’ come se noi oggi celebrassimo il centenario della “spagnola”, l’ultima epoidemia nella storia dell’Europa moderna). Eppure anche così il conto non torna. Perché se con “Rivoluzione d’Ottobre” intendiamo l’impossibilità di un regime comunista di coabitare con il capitalismo o con il libero mercato, allora è sufficiente spostare lo sguardo più a Est collocarsi a Pechino. Quella risposta non funzionerà.

E’ vero, invece, forse, che la questione sul centenario riguarda un problema molto più spinoso, ovvero il rapporto complicato che oggi l’Europa ha con la Russia, e viceversa.

Non solo a questo si potrebbe aggiungere, dove oggi la Russia di Putin collochi il senso di quell’evento, come lo legga, rispetto a che cosa lo spieghi, quale pertinenza gli riconosca nel complesso della sua storia.

Forse anche per questo c’è prima di tutto la necessità di capire il quadro del momento iniziale: gli entusiasmi, i conflitti, i molti mondi che in quei mesi entrano in scena. Le speranz e anche i nodi profondi che già in quei mesi emergono. Il ritorno in libreria, in queste settimane, de L’anno I della Rivoluzione Russa di Victor Serge, è un buon segnale, anche per questo.

Libro che in Italia ha sempre accompagnato gli anniversari e o i momenti svolta della storia dell’Urss – la prima volta proposto in occasione del cinquantenario della Rivoluzione d’Ottobre (nel 1967) la seconda nel momento in cui l’Urss si andava rapidamente dissolvendo nell’autunno 1991 (in entrambi i casi, l’editore era Einaudi) – L’anno I della Rivoluzione Russa è un testo che consente di stare dentro quella scena, ma anche di interrogarla

Un tempo l’avremmo letto come un “classico”, come I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, ovvero come la scrittura “partecipata” a fianco di una parte politica e come il resoconto drammatico, di un cronista della rivoluzione d’ottobre che prova a raccontare i fatti da un lato della storia.

Forse vale ancora la pena di leggerlo con questo taglio, ma cercando anche altro in quel testo.

Intanto che cosa contiene L’anno I della rivoluzione russa? Esattamente ciò che promette il titolo. Lo storytelling del farsi del processo rivoluzionario con la scena sempre vista dalle quinte della parte bolscevica. Un resoconto che coglie tutti i momenti essenziali del processo: le giornate del luglio 1917, gli scontri drammatici, politici, sociali e militari nelle settimane che precedono la rivoluzione e la presa del Palazzo d’inverno, la diffusione del terrore controrivoluzionario e dell’errore rivoluzionario; il confronto tra bolscevichi e Stato maggiore tedesco per la firma del trattato di pace che poi sarà effettivamente firmato il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk.

Insieme ciò che emerge da queste pagine non è solo l’immaginario che accompagna il “farsi del processo rivoluzionario”, ma anche le passioni che animano e attraversano quelle giornate e quel farsi della storia. Sono le pagine sulla nascita della contrapposizione del doppio terrore, sia da parte dei rivoluzionari sia dei controrivoluzionari nella primavera del 1918, ma anche la proiezione con cui i bolscevichi vivono la dimensione del Terrore che avvertono come la riproposizione delle sfide che furono del giacobinismo francese tra 1793 e 1794 (una correlazione che è nelle parole del leader bolscevico in tempo reale già nel 1918 e che sul piano culturale lo storico Albert Mathiez propone già nel 1920 come canone interpretativo della Rivoluzione d’Ottobre nel suo pamphlet Bolchévisme et Jacobinisme).

Cercando di far rivivere la scena del farsi della storia, Serge propone una sua interpretazione che gira intorno alla coppia Lenin/Trotskij e lascia indietro gli altri leader della rivoluzione. Sotto quest’aspetto, L’anno I della rivoluzione russa testimonia del tempo della sua scrittura, tempo in cui Victor Serge si colloca all’opposizione a fianco di Trockij fino all’epilogo del suo esilio (la stesura è chiusa alla vigilia del primo arresto di Serge, nel 1928).

E tuttavia alcune scene e soprattutto alcuni giudizi prescindono dalle sue scelte o dalle sue simpatie politiche. In questo senso Serge non riscrive la storia della rivoluzione a seconda del giudizio politico del momento. Ci sono aspetti di quella scena che rimangono costanti nella sua riflessione, e nel giudizio che egli esprime, indipendentemente che egli si senta dalla parte del potere sovietico, che si schieri all’opposizione oppure che maturi un distacco, inquieto, ma non ricucibile, con la leadership politica. Ma appunto è un distacco dalle leadership politiche, non dagli eventi.

Così il suo giudizio sulla fisionomia della rivoluzione d’ottobre alla fine degli anni ‘20 ripropone un suo lungo articolo dl 1921. E ancora quelle pagine si ripresenteranno in Da Lenin a Stalin [Bollati Boringhieri 2017] che egli pubblica, all’inizio del suo arrivo a Parigi dopo l’espulsione dall’Urss, nel 1937, e si ritrovano nell’ultimo testo che egli scrive prima di morire – Trent’anni dopo la Rivoluzione Russa . In quel testo (incluso in questa nuova edizione de L’anno I della Rivoluzione russa), composto nell’estate 1947, e che esce postumo la settimana dopo la sua morte (17 novembre 1947) sulla rivista dei sindacalisti rivoluzionari francesi, un’amicizia politica durata un’intera vita, Serge torna a riflettere su ciò che lascia in eredità quella rivoluzione.

Conferma alcuni giudizi, appunto il carattere genuino di quella rivoluzione trent’anni prima, ma anche sottolinea come quella vicenda più che un’esperienza da difendere rappresenti per lui ora la consapevolezza del fallimento di un disegno politico.

“Il totalitarismo, così come si è stabilito in URSS, nel Terzo Reich, e debolmente abbozzato nell’Italia fascista e altrove – scrive in Trent’anni dopo la Rivoluzione Russa, un testo che, di fatto, si consegna a noi come un testamento – è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (sarebbe meglio dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo. Un regime di questa natura tende forzatamente ad espandersi, cioè punta alla guerra di conquista, poiché è incompatibile con l’esistenza di paesi vicini differenti e più umani, poiché soffre inevitabilmente delle sue psicosi d’inquietudine; poiché vive all’interno sulla repressione permanente delle forze esplosive al suon interno” [qui p.356].

E dopo conclude:

“Con la parabola che si disegna nel caso russo, “la rivoluzione proletaria non è più, a miei occhi, il nostro scopo; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico del termine, e più esattamente socializzante, democraticamente, libertariamente compiuta … Fuori dalla Russia, la teoria bolscevica del partito è fallita completamente – La varietà degli interessi e delle formazioni psicologiche non ha permesso di costituire la coorte omogenea di militanti devoti a un’opera comune così nobilmente lodata dal povero Bucharin … La centralizzazione, la disciplina, l’ideologia governata non possono ispirarci oggi che una giusta diffidenza, tanto è il bisogno che abbiamo di organizzazioni serie”[qui p. 358].

Posti così uno accanto all’altro L’anno I della Rivoluzione Russa e Trent’anni dopo la Rivoluzione Russa, forse a un lettore disattento rischiano di apparire come una lettura strabica condotta da un intellettuale incerto, incapace di abbandonare i suoi entusiasmi giovanili.

Eppure i segnali inquieti anche in quel racconto “partigiano” della metà degli anni ’20 ci sono.

Riguardano la convinzione già in quelle pagine che il problema sia come continuare perché da sola la rivoluzione è destinata alla sconfitta. Ma non solo.

Un altro tema è interessante. Per esempio quando Serge sottolinea il ruolo della battaglia contro l’alcoolismo nelle giornate convulse dell’inverno 1918. Un aspetto che sarebbe tornato costante nella storia dell’URSS un paese che la propaganda raccontava come il “paese più felice del mondo” in cui manifesti esaltavano la forza, la grandezza monumentale della sua industria, la gioia delle donne e dei giovani destinati a una nuova vita ma in cui costantemente ritornava l’invito a ridurre il tasso di consumo alcoolico, per “non distrarsi” dalla felicità politica. Comunque l’invito era  a cercarla fuori dall’alcool. Così negli anni ’10, di nuovo negli anni ’20, insistentemente negli anni delle pianificazioni forzate, e anche nel secondo dopoguerra.

La società felice, non era poi così felice.

 

 

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