Storia
Il ritorno dell’economia morale e dell’etica del consumatore
Alcuni giorni fa circa una ventina di famiglie si sono accordate all’interno di un gruppo Facebook per assaltare un noto supermercato della città di Palermo. Sono entrati all’interno del punto vendita e hanno riempito i carrelli di spesa. Una volta arrivati alle casse, si sono rifiutati di pagare la merce e hanno provato ad uscire dal supermercato senza pagare nulla.
È un fenomeno per ora contenuto, episodico, ma costituisce un indicatore significativo. Forse per qualcuno, è il segno che esiste una differenza tra Nord e Sud e probabilmente per altri, è l’indicatore del ritorno di una “questione meridionale” cui dovremo far fronte all’indomani del rientro dal livello più alt dell’emergenza post Covid-19.
Sia chiaro, non credo che non esista una nuova emergenza e una rinnovata e aggravata “questione meridionale”. Sicuramente questo aspetto è parte anche di quel divario di diseguaglianza, di quell’allargamento della forbice tra diseguali, che è segnato anche da altri fattori (uno per tutti riguarda le risorse e le condizioni che coinvolgo non solo gli adulti, ma soprattutto la popolazione scolastica alla prova della didattica a distanza e dei deficit di strumenti – condizione che disegna una nuova geografia delle povertà del nostro paese).
La domanda a cui la scena di Palermo ci chiede di rispondere è: quando la gente è affamata, che fa? È automatico quel comportamento? Oppure quel comportamento è regolato da cultura, ragione, stili di vita pubblica preesistenti? In breve da norme? E se sì, come è possibile intervenire e dunque tentare di governare quella rabbia che nasce da una condizione di disperazione oggettiva, non negabile? In che forma è negoziabile? Soprattutto la storia ci serve per poter immaginare risposte possibili? Diversamente: quali sono le risorse per rispondere a chi fa azioni che si originano dalla miseria? O dalla percezione di sentire abbassato drasticamente e improvvisamente il proprio standard di vita?
La prima questione riguarda per esempio la norma che tutela o punisce l’accaparramento di viveri: a seconda che si adotti una norma regolativa di mercato o una linea liberista di mercato, prevarrà o una capacità di controllo o l’ideologia e la convinzione che “naturalmente” si produca un equilibrio. Magari il senso comune indica che la predisposizione sia verso il primo corno dell’alternativa. Errato, perché in epoche della storia moderna e contemporanea l’idea che lo Stato intervenga e regoli il mercato, o anche predisponga una redistribuzione controllata delle risorse intervenendo così sul prezzo di mercato, non è una pratica condivida, comunque si impone al prezzo di una politica di costrizione e molto forte Questione che può scontrarsi sul piano delle regole del mercato ma che anche entra in conflitto primario con quelle che sono le scelte di consumo collettivo. Se il pane è caro, chi non può consumare pane, in alternativa sceglie di consumare brioches?
La seconda questione riguarda il ruolo delle donne, ovvero il fatto che spesso sono le donne più degli uomini a muoversi e mobilitarsi. È accaduto a Palermo e questo dato di per sé non costituisce un’eccezione. Nelle mobilitazioni di mercato, degli ultimi due secoli sono le donne le protagoniste della protesta, quelle che si misurano sul problema dei viveri (forse incide in questo anche l’inconscia convinzione che nell’atto di violenza possibile da parte dei tutori dell’ordine agisca un deterrente se si tratta di colpire un maschio o una femmina).
La terza riguarda le misure che si mettono in atto talora per rispondere, più spesso per prevenire l’insorgenza o il tumulto. politiche di contenimento del prezzo, di redistribuzione a prezzi calmierati, misure che caratterizzano la gestione delle insorgenze e delle rivolte nell’Inghilterra del Secondo settecento inglese nel periodo di passaggio tra tramonto definitivo delle economie di villaggio verso la realtà industriale moderna nell’Inghilterra del XVIII secolo (come ce le ha descritte Edward P. Thompson in un saggio che ancora fa scuola ), sono tornati spesso nelle scelte di azione politica dell’economia dei governi locali o nazionali.
Il tema è che di fronte agli strappi del mercato, alle lacerazioni in cui si estremizzano le condizioni economiche di attori che nelle crisi, allora nel XVII secolo, di carestia o di cattivo raccolto, oggi nella pandemia, rischiano di allargare la diseguaglianza fino a renderle «insopportabile».
La risposta elementare a quella condizione testimonia della ricerca di protezione e allo stesso tempo la richiesta di intervento contro coloro che sono vissuti come avversari. La richiesta è quella di assumere la sfera pubblica, lo Stato, come protettore della propria condizione di svantaggio in nome di un’«economia morale del povero», un pacchetto di leggi, spesso non scritte che le comunità, sono pronte a difendere quando la percezione è quella dell’oltrepassamento dei limiti morali del mercato.
In altre parole, può essere non soddisfacente la propria condizione di lavoro sottopagato, di condizione “in nero”, ma nel momento in cui l’emergenza pone il problema della tutela per i “garantiti”, quella condizione di disparità, anche se sopportata fino a quel momento, non è più sopportabile.
Accade nel XVIII secolo, ma è accaduto in tutte le scene di crisi strutturale del XX secolo quando in gioco più che il disagio, anche profondo, c’è letteralmente la sopravvivenza. Accadde un secolo fa, tra 1917 e 1918, nelle strade di Vienna, in quelle di Berlino o in quelle di San Pietrogrado. Poi si è ripresentata nelle strade di Mosca nel 1991.
Si ripresenta in questi giorni.
Ancora non è generalizzato, certamente è un dato e un fenomeno molto contenuto. Ma è accaduto e ignorarlo sarebbe un errore enorme. Questo dato, per quanto episodico, dice più di ogni altro che cosa può essere il dopo Covid-19 in assenza di una politica che metta al centro la tutela e una cura dei cittadini. Ossia che non tenga conto di un’etica del consumatore.
Devi fare login per commentare
Accedi