Storia
Il ritorno del corpo del nemico ucciso
Ci sono libri che nel tempo non invecchiano. Comunque che rileggere non è «perdere tempo».
Alle volte risolviamo questa definizione all’interno della categoria di classico. Sono i libri che riprendiamo in mano perché accade qualcosa che ci riporta – talvolta con nostalgia – alla prima volta della lettura. Ma senza sottovalutare la lettura della prima volta da adulto di testi considerati classici come ci esortava 40 anni fa Italo Calvino.
Poi però ci sono anche libri che non invecchiano perché le domande brucianti che pongono e propongono non vorremmo farcele e, invece, periodicamente quelle questioni ritornano. Spesso è la cronaca del tempo presente a proporci con imperio a riconsiderare quello che vorremmo mettere da parte.
Sono quei libri che impediscono di continuare a «farsi i fatti propri» o che rendono complicato continuare a «farsi i fatti propri». Riletti a distanza di tempo, forse denunciano la loro non esaustività, ma indicano un percorso di scavo e di un setting di domande e di questioni, che vorremmo tenere lontane. E che, invece, la realtà talvolta ci ripropone con urgenza. Comunque senza poterle eludere.
Il corpo del nemico ucciso (Einaudi) di Giovanni De Luna, anche a quindici anni di distanza (il libro è uscito nel 2006), è un esempio calzante di questa seconda variabile.
A lungo rimossa la questione del corpo del nemico, della violenza esercitata sul corpo dell’avversario, è stata proposta come figura retorica di mobilitazione della propria parte in guerra per sostenere la “inumanità” del nemico. Il problema non è mai la morte dell’avversario nel conflitto bellico. La morte del nemico, infatti, è consustanziale alla guerra. Il problema è invece l’uso e più precisamente l’abuso che si fa del corpo del nemico.
Il problema della guerra non è la morte del nemico, ma come viene trattato il corpo del nemico. Il problema è dunque il come della morte. Ma anche chi dà la morte e, soprattutto, chi è l’oggetto di quell’atto.
Più precisamente: non solo come muore il nemico, ma come si abusi del suo corpo prima di morire e quale sorte aspetti quel corpo, soprattutto dopo la morte. Non da ultimo il problema è anche chi sia il nemico.
Nelle guerre del ‘900 il corpo del nemico non è solo quello che si presenta sotto con l’uniforme dell’esercito avversario sul campo di battaglia. Più spesso il corpo del nemico è quello delle sue popolazioni nelle retrovie. Le violenze sul corpo del nemico spesso si traducono nello stupro, e nella violenza del corpo dell’avversario.
Il corpo del nemico esposto, mutilato, vilipeso e violato costituisce da sempre un segno della propria potenza. L’ira sul corpo del nemico a suo modo costituisce un archetipo della guerra.
Come dimenticare lo strazio del corpo di Ettore da parte di Achille. In tempi più recenti, nel corso del XX secolo, lo strazio del corpo del nemico è tornato nelle scene di entrambi i fronti della guerra civile spagnola, nelle violenze delle guerre coloniali, nelle decapitazioni spettacolari nella Cina di fine Ottocento o nelle stragi messe in atto dall’esercito italiano in Etiopia all’indomani della guerra del 1935-1936. Nessun esercito e nessuna parte ne è esente.
Il secolo delle violenze si apre con le teste tagliate nel corso della rivolta dei boxer nella Cina del 1900 e continua ancora con le teste sgozzate da parte dei gruppi fondamentalisti islamici in Irak nei video trasmessi da Al Jazeera, poi prosegue con le scene di Daesh a Palmira e le violenze sul corpo di Khaled al-Asaad, il custode del sito archeologico, ma anche le scene delle esecuzioni in massa seguite alla distruzione del sito archeologico stesso.
In mezzo si collocano altre scene. Sono le scene di violenza delle truppe di Salò e poi le violenze di piazza nell’Italia appena liberata. Lo scrivo perché spesso fi fronte alla violenza abbiamo la tentazione di collocarla come un gesto, un atto, e una scelta che non ci riguarda, collocata lontano da noi, dal nostro presente e dalla nostra storia, come se fosse la prova che noi non possiamo esserne vittima perché «civilizzati», perciò «immuni».
È la folla in questo caso che costituisce l’attore principale della scena, la stessa che ritroviamo nelle scene delle piazze algerine nella primavera del 1962. In questo caso il problema è quello di un nemico che è stato battuto e che si trova «senza tutela». È la violenza fondata sulla spontaneità dei nuovi liberati in una condizione priva di legge e senza norme, dove spesso sono le folle a impadronirsi dello spazio pubblico.
Ed è soprattutto il non valore del corpo altrui nella morte di massa, nello sterminio e nel genocidio. Sono le scene di Nanchino occupata dalle truppe nipponiche nel 1937 quando in pochi giorni tra 1937 e 1938 sono uccisi, stuprati, violentati circa 300.000 persone. Oppure le lunghe montagne di cadaveri o di resti e tracce di cadaveri che hanno costellato i campi di sterminio nazisti. Sono le molte fosse dei campi di lavoro sovietici o dei campi di morte cambogiani. Il tema in questo caso è il governo del corpo degli altri. Governo che spesso include la sparizione fisica del corpo. Dei nemici così non si deve dire che sono morti o sono scomparsi si deve poter dire che non furono mai. Per esempio è la scelta della morte degli oppositori nell’Argentina di Videla negli ’70, attraverso l’eliminazione dei loro corpi gettandoli in mare da un elicottero, così come si farebbe con le macerie da rimuovere.
La riflessione di De Luna ci porta direttamente dentro il problema dell’etica della guerra così come improvvisamente si è ripresentata oggi agli occhi di tutti noi. Ed ha, inoltre, il merito di indicare e sottolineare il problema del dominio del corpo dei prigionieri, nonché del problema di come affrontare la gestione dei corpi altrui, della documentazione fotografica che testimonia della violazione del corpo degli altri.
Se per anni abbiamo assistito a guerre senza immagini le ultime settimane ci hanno riproposto la centralità dell’immagine.
Il libro di De Luna è anche un’ottima occasione per riconsiderare il diritto alla accessibilità delle fonti e delle immagini e dunque al controllo della violenza. E a riflettere sulle troppe discrezionalità che entrano in campo quando lo sguardo esterno è abolito.
Ma anche un’altra questione è bene non sottovalutare e non smarrire. A lungo ci siamo detti – almeno a partire dalla guerra nella ex Jugoslavia, senza dimenticare le scene del Rwanda – che al centro della guerra contemporanea, del fare la guerra, stava la caccia al i civili.
Se mai ce ne fosse bisogno le ultime settimane hanno confermato questo aspetto, pur in una guerra che sembra riproporre anche il farsi della guerra novecentesca, soprattutto nella dimensione della trincea.
A lungo abbiamo associato quella dimensione di «guerra ai civili», come un aspetto della guerra nel tempo attuale: ovvero la perdita del monopolio della violenza da parte dello Stato, che si manifesta attraverso i kamikaze, ma anche attraverso l’uso di soldati mercenari in misura altissima rispetto a precedenti fasi del ‘900. La guerra delle ultime settimane in parte conferma questo dato, in parte lo riscrive. Perché se è vero che probabilmente è proprio l’impiego dei mercenari a testimoniare della guerra ai civili, è anche vero che questo dato si nutre della condivisione delle responsabilità con le truppe regolari.
Forse quella a cui stiamo assistendo in questi giorni non è una solo una nuova guerra, ma è anche una sintesi delle molte modalità di fare guerra, e di praticare sterminio che abbiamo conosciuto in forma non compiuta tra ‘900 e oggi.
Anche per questo vale la penna riprendere in mano il libro di Giovanni De Luna, vecchio di quindici anni. Per capire dove eravamo, allora. E dove siamo, ora.
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