Storia
Il Regno borbonico fu il “male assoluto” ?
“Vae victis”, il terribile monito di Brenno si può, tranquillamente, ripetere per quanto riguarda la storiografia che si è occupata per lunghi anni del Regno meridionale.
Una storiografia, di stampo massonico, che ha fatto carne da macello della vicenda storica di quello che, forse con un po’ di esagerazione, Gianni Oliva nel suo interessante libro, ha indicato come un “Regno che è stato grande”.
Una demonizzazione aprioristica e carica di pregiudizi che impone una corretta rilettura scientifica, una rilettura onesta e che, tuttavia, non può accontentarsi né può andare dietro a certo revisionismo storico, spesso ridicolo, che non aiuta a comprendere il ruolo e il significato di un soggetto storico quale fu proprio il Regno meridionale e di quella dinastia che, nel bene o nel male, ne ha occupato per oltre un secolo il relativo trono.
Diciamo subito che i Borbone del regno sud, i cui errori non sono stati indifferenti, non possono però essere descritti, in questo modo non tenendo in debito conto del contesto in cui vissero la loro esperienza storica, come il “male assoluto” o, in un’ipotesi più benevola, come una sorta di “macchiette da avanspettacolo” come hanno fatto fior di storici, anche di un certo valore.
Diciamo, allora che i Borbone furono figli del loro tempo, ne hanno portato i segni evidenti, ed è però innegabile che furono in certi momenti della loro storia anche in grado di anticipare i tempi mostrandosi, e nessuno si scandalizzi per questa affermazione, in questo senso oltremodo lungimiranti.
C’è, ad esempio, un’una accusa ricorrente che viene mossa ai Borbone, accusa della quale alcuni storici hanno impregnato la memoria collettiva, quella che detta dinastia non fosse italiana e per questa stessa ragione non potesse comprendere appieno i problemi della nostra terra.
Un addebito, bisogna avere il coraggio di affermarlo, che è senza fondamento e questo perché forse nessuna delle case regnanti del reticolo di staterelli in cui era divisa la penisola avrebbe potuto vantare più italianità degli stessi Borbone.
E, aggiungo, perfino i Savoja del Regno di Sardegna, che li avrebbero sostituiti dopo la conquista del Regno, apparivano più francesi che italiani e, diversamente dai Borbone – che magari usavano il dialetto partenopeo – si esprimevano in fluente francese mentre avevano difficoltà con la lingua di Dante.
Allora, se rilievo forte si può fare e, magari, si deve fare alla dinastia dei Borbone è il carattere discontinuo delle loro politiche, potremmo dire una sorta di stop and go, che evidenzia troppo spesso una mancanza di coraggio nel portare avanti le buone scelte effettuate.
Evidenziato questo, mi pare, che quando si parla di riformismo borbonico per indicare momenti significativi della loro presenza nel Regno meridionale non significa altro che il riconoscimento doveroso di politiche di modernizzazione anche se in presenza sostanzialmente di un regime paternalistico, che come si sa è il regime in cui i sovrani tendono a promuovere il benessere del popolo e proprio per questo ricevono riconoscimento e consenso.
Parlavo di un andamento non lineare delle politiche e del modo di manifestarsi dei comportamenti della dinastia borbonica, ogni sovrano, infatti, ha mostrato una propria immagine diversa dagli altri ma ha anche mostrato atteggiamenti e comportamenti differenti e, perfino, contrastanti fra loro nel corso del proprio regno.
Questo costringe, dunque, lo storico serio a dovere leggere le vicende del Regno borbonico del sud necessariamente attraverso le vicende dei sovrani che nel corso di centoventisei anni di regno, carichi di luci e di ombre, si sono succeduti sul trono napoletano.
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