Storia

Racconto per le Feste: c’era una volta il pranzo di Natale (a casa)

25 Dicembre 2014

Quanto è forzatamente allegro e fastidiosamente trito il cenone di capodanno con i suoi salmoni, le lenticchie inquinate dai coriandoli, i tappi che saltano per un bere volgare e smodato, prodromico del mal di testa con cui si ascolta lo stucchevole concerto viennese della mattina dopo. Tanto è familiare, prolungato nei ritmi antichi e nelle digestioni a lungo servizio, il pranzo di Natale.
Eppoi, perché pranzo? E la cena della vigilia dove la mettiamo? Con i suoi tempi poco padani, perché  parte tardi per fermarsi un attimo prima della Messa di mezzanotte alla quale arrivare nel freddo, rigorosamente a piedi; con i suoi menú che di magro hanno solo il pudico battesimo della natura degli ingredienti ma non la sostanza; con il pesce di mare o l’anguilla a salvare la liturgia (e anche i peccati) dalla gola.

Il pranzo di Natale è l’unica festa che non si conclude con la vigilia, cioè malinconicamente prima ancora di cominciare ma è un continuum che non puo’ non essere fatto in casa. Ce ne scusino i ristoratori amici ma il fatto che in quelle 24 ore abbiano avventori è la dimostrazione dell’esaurirsi dei rapporti familiari, dell’affermarsi delle famiglie mononucleari e della scomparsa dei nonni e ancor più  degli zii, lasciati in un angolo a casa loro e dimenticati. Soprattutto le loro tavole prenotate sono la celebrazione della emancipazione della donna che ha abbandonato i fornelli, che anzi non ne vuol più  sapere perché, lavorando tutti i giorni, non vuol mettersi a far da mangiare per una festa degli altri come se lo stare in cucina oggi fosse ancora assimilabile ad una esistenza discriminata, magari tutta al servizio degli uomini.

No, mi spiace: il Natale è a casa; e in un mondo che giustamente con i nuovi ritmi cambia la storia se c’è una tradizione da salvare è quella del Natale, delle sue cene e dei suoi pranzi che abbandonano la declinazione laica del divertimento infrasettimanale con gli amici o del business lunch finto nouvelle cousine e vengono assorbiti come parte integrante della sacra celebrazione, scandendone i ritmi al pari della liturgia religiosa. Non paia blasfemo, il Natale è sempre celebrazione religiosa maiuscola (e spesso pedante occasione per predicozzi anticonsumistici) ma è tale anche se la dimensione religiosa trova declinazione negli affetti della Casa, nel gusto del trovarsi e ritrovarsi, nel bicchiere portato in alto non per forma o divertimento ma legato a uno sguardo migliore verso il vicino di sedia; per riaffermare un affetto, una amicizia, un legame.

Il pranzo di Natale comincia quando mi sveglio tardi e sento che laggiù, in cucina, qualcuno già  lavora: i rumori non sono i soliti tacchi frettolosi delle mattine di lavoro ma il soffio asmatico e ossessivo della cappa aspirante perennemente accesa, la pentola risciacquata e riposta col sordo tintinnio (le pentole in cucina per magia non bastano mai…), il tictic della accensione del fornello, il piatto che cade e le imprecanti recriminazioni falsamente sottovoce tra moglie e suocera. E’ il procedere assonnati verso la sala da pranzo già  parzialmente imbandita e un caffè  preso in piedi e in accappatoio, ucciso nel suo sapore dall’aroma del cappone che bolle o dalla noce moscata del ripieno che ancora gira nell’aria. Il chiedere “come è di sale?” per scongiurare la presenza del grande nemico della cucina italiana e il veder ricomparire una uva tardiva nella alzata della frutta dopo solo qualche settimana di assenza. Discutere del casoncello dell’anno passato, sgrassare il brodo per la minestra che viene; il caldo umido e opprimente del bollito che non può fuggire dalla casa perché  il rigore dell’inverno non fa aprire le finestre. Un pranzo  lungo e i bambini per una volta non possono alzarsi sino a quando, molto più  tardi, la poca luce del giorno di Dicembre non lascia il posto ad un fioco tramonto tra i vetri appannati, con lo zio accasciato rumorosamente sulla poltrona, la zia in cucina ad aiutare, la genuina pesantezza di stomaco che cerca un toscano non più  fumabile in casa per il politically correct e, immancabile, il pessimo amaro a temperatura bollente servito dalla suocera come rimedio anche callifugo.

  • Insomma, non me ne voglia Carlos ma questo per dire che non riesco proprio a scrivere del menù natalizio: ognuno se lo coniughi come preferisce ed anche, in modo ardito, introduca magari l’ostrica abbinata al maiale con la birra: a Natale siamo tutti piu’ buoni, pronti a perdonare l’imperdonabile e alla sintassi del cibo concediamo il secondo posto, preferendo per stavolta, almeno stavolta, quella dei sentimenti.

 

Articolo scritto qualche anno fa su suggerimento di Carlos Mc Aden, una persona che di cucina, di cibo e amicizia ne sa…

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