Governo
Il Partito catodico – Ultima Puntata
(segue dalla quinta puntata)
Come se ne esce? Disegnando il partito che vorrei votare
Da elettore-recensore vorrei finire provando a dire cosa mi piacerebbe trovare di più e di meglio nell’offerta politica del PD.
Penso che il voto in era post ideologica sia sempre una sintesi di tifo (mi piace, non mi piace, ma non so nemmeno perché, come per me l’Inter), cuore (mi identifico in battaglie che sento, anche se non sono mie) e interesse (voto chi rappresenta e tutela meglio i miei bisogni e le mie istanze).
Il mio voto al PD è più il risultato dei primi due fattori che del terzo, più scelta emotiva ed estetica che opzione di interessi (dacché, come ho detto, da lavoratore autonomo figlio di artigiani che lavora per le PMI il PD non è il più indefesso assertore dei miei interessi). Va bene così nel mondo liquido. Va bene, ma alcune cose potrebbero andare meglio. Provo a dire quali:
1. Senso dello Stato, non Senso del Palazzo: è tranquillizzante che il partito Democratico sappia alla bisogna farsi concavo e convesso per sostenere e difendere le istituzioni italiane ed europee, meno che lo faccia acriticamente e a prescindere, anche intestandosi battaglie non proprie. È successo in pieno con l’armageddon del Governo Monti e altre mille volte nelle quali misure d’austerità sono passate senza la minima resistenza, al punto da essere il PD diventato il partito del “lo dice l’Europa”. Senza settarismi o irresponsabilità, un partito deve fare valere le proprie ragioni di parte, che non possono sempre e comunque coincidere solo con il mainstream e la difesa delle istituzioni, bisogna chiarire cosa si vuole e cosa non si vuole, porre dei limiti, difendere la propria parte, dire qualcosa. Il passaggio dal Governo Conte II al Governo Draghi I è avvenuto ancora una volta senza elaborazione critica, subendo decisioni altrui e conformandosi ai voleri superiori. Non è un invito a essere capricciosi e a fare i preziosi, ma così si è partito delle istituzioni e non dei propri elettori. Sono da sempre simpatetico con la causa europea e con l’integrazione, ma non si può non ammettere che molti passaggi siano stati a vuoto, dall’umiliazione della Grecia all’abiura dell’austerità per paura dei populisti prima che per la pandemia, al disastro sui vaccini. Avrei voluto un partito che non allargasse le braccia quando gli eurocrati facevano la faccia feroce, in grado di essere francamente meno accomodante con il mantra dei tagli alla spesa pubblica a tutti i costi e delle privatizzazioni. Vorrei un partito che certamente, come l’attuale, è l’unico a poter mettere in campo una classe dirigente di livello internazionale, ma che sappia dare a questo contributo alla nazione qualcosa di più e di diverso sia dal “arrivano i nostri” che dal temporary management della Repubblica. Vorrei il senso che le cose non solo sono ben manutenute, ma si muovono in una direzione.
2. Lavoro come valore non negoziabile: vorrei che il PD fosse soprattutto il partito del Lavoro, ossia la principale forza politica che ha al centro della propria azione gli interessi di chi lavora e crea valore attraverso il lavoro. La salvaguardia del lavoro rappresenta un pilastro per una costruzione sociale più giusta e ordinata, dove ovviamente trovino spazio i temi dei diritti civili, sociali e individuali, non scindibili però dal tema delle condizioni materiali, soprattutto in un momento storico di nuova grande sofferenza. Nel 2021, essere il partito del Lavoro significa essere un partito interclassista, attento alle ragioni dei lavoratori e di quegli imprenditori che condividono una comune passione etica prima che economica per il creare valore attraverso il fare. Significa sposare l’idea che dal lavoro buono possa discendere una società meno squilibrata e diseguale. È una chiave di lettura dei processi sociali larga e inclusiva, ma orgogliosamente “di parte”. Essere dalla parte del Lavoro significa innanzitutto che lo si preferisce alla rendita e che ci si oppone alla sua riduzione a commodity. Significa premiare le imprese che investono per mantenere produzione e occupazione in Italia e penalizzare chi la trasferisce dove il lavoro costa meno. Significa non dico punire, ma certamente non incoraggiare la rendita improduttiva e socialmente estrattiva, dalle Autostrade che lucrano senza manutenere ai b&b che svuotano i centri storici e sostengono una classe di rentier. Significa sostenere concretamente la modernizzazione del sistema della piccola impresa diffusa, perché resti competitiva e impedisca il deperimento di culture e territori. Significa investire nell’educazione non come sistema astratto, ma come unico ascensore sociale possibile. Significa impedire gli sconci dei rider, ma al tempo stesso smetterla con la burletta degli autonomi precari tassati come imprese. Significa avere il coraggio di mettere mano a una riforma fiscale che premi chi lavora e crea lavoro. Significa non creare più le condizioni perché un gestore di edge fund parli a nome del PD, non perché un gestore di edge fund (o un costruttore, o l’AD di Glovo) non possa votare PD, ma perché i suoi interessi non sono i miei e certamente non sono quelli di chi sta peggio di me. Gli anni ’90 sono finiti e abbiamo capito che non siamo sulla stessa barca.
3. Un partito veramente di tutti, ma tutti: il diktat di Enrico Letta per riequilibrare un partito troppo maschile inserendo due capogruppo parlamentari donne è giusto e comprensibile. Dove le organizzazioni non sono in grado di auto organizzarsi e continuano a riprodurre discriminazioni e storture è giusto che si intervenga con la forza del diktat. Quella di genere, benché la principale, non è tuttavia oggi l’unica discriminazione che rende il PD poco in tono con l’evoluzione della società e soprattutto con quello che il partito vuole essere. I prevaricatori, poi, non sono tutti uguali, come del resto i prevaricati, e non credo che la sostituzione del sindaco maschio cinquantenne di una piccola comunità o di un ex operaio con un’avvocata del centro di Roma rappresenti di per sé una svolta positiva. Se si accetta il pieno ritorno alla rappresentanza “sociologica”, ossia alla somiglianza tra rappresentati e rappresentati invece del meccanismo “politico” della delega, allora vorrei un partito che, in subordine, aprisse anche a una maggiore varietà e inclusività territoriale e di retroterra professionale. Un partito certamente con più donne nei ruoli apicali, ma anche con più rappresentanti delle aree interne e più operai, partite IVA e piccoli imprenditori. È un’accortezza da avere, a maggior ragione in questa stagione di minoranze rumorose (che hanno ragione, ma ovviamente lasciano indietro quelle meno rumorose) e in vista della applicazione dello scellerato provvedimento sul taglio dei parlamentari, che il PD ha caninamente difeso in nome della governabilità con i 5 Stelle, facendo strame della propria diffusione territoriale e della propria storia.
4. Un partito di eletti e amministratori (e di chi sa cambiare mestiere): invidio molto alla Francia la possibilità di essere persino ministro e rimanere Sindaco di un minuscolo villaggio e al Regno Unito l’identificazione di tutti i leader politici con il proprio collegio, al punto che se i tuoi elettori sono arrabbiati con te puoi non essere eletto anche se sei sempre in televisione. In questi Paesi civilissimi quasi non esistono politici solo londinesi o solo parigini, scissi da ogni legame con il territorio e in costante attesa dei tempi buoni. Con le dovute distinzioni, e con il massimo rispetto per il lavoro di organizzazione politica e parlamentare, penso che l’esistenza in sovrannumero di queste figure di dirigenti politici senza riferimenti locali, spesso sedimenti di passate stagioni, rappresenti un problema. Molti di loro non hanno più riferimenti di vertice nel partito e contribuiscono alla sua balcanizzazione e alla confusione dei messaggi veicolati all’esterno, soprattutto per i frequenti e adattivi cambi di posizione. Rappresentano la più probabile massa di manovra per quel male necessario, ma che deve essere ridotto al minimo in frequenza e visibilità esterna, che sono le congiure di palazzo. Non sono d’accordo con il diktat qualunquista dei 5 Stelle sui due mandati, perché l’esperienza conta e la politica è una professione. Credo però che, come molte professioni intellettuali, la rappresentanza si debba svolgere mantenendo l’equilibrio tra entusiasmo ed esperienza. Il neofita sbaglia ma ha energia e ci crede, il veterano sbaglia molto meno, ma fa le cose “con la mano sinistra” e tende a riprodurre l’uguale. Avere il coraggio di lasciare la politica, o almeno il proscenio nazionale, per fare altro o perché non si ha più nulla di nuovo da dire, penso sia un valore che andrebbe praticato. Ugualmente, andrebbe incentiva il riposizionamento del PD come partito degli eletti e degli amministratori, ossia di politici competenti e legati ai processi reali della politica, della società e dell’economia e vicini alle comunità. Questo favorendo il più possibile la progressione degli amministratori locali, ma anche recuperando il cursus honorum del PCI, che prevedeva che anche i predestinati si facessero le ossa in provincia. Massimo D’Alema ha raccontato spesso dei suoi anni di formazione come segretario regionale del PCI in Puglia, poi diventata sua terra di elezione. Oggi che il Paese si sta nuovamente scollando, recuperare l’idea che il PD metta mano a un rimescolamento della propria classe dirigente, anche mandando giovani amministratori a fare esperienza in piccole comunità lontane e diverse dalla propria zona d’origine, sarebbe un atto di coraggio che vorrei.
5. Un partito che ama anche gli irregolari: le comunità progrediscono ordinatamente se la stragrande maggioranza dei cittadini segue le regole, ma i salti quantici di progresso hanno luogo quando qualcuno le stravolge. L’Italia è stata per secoli straordinaria culla di creatività collettiva e individuale, molte volte organizzata secondo percorsi largamente informali e refrattari ad essere inquadrati. È la storia del meglio della nostra Provincia e del meglio della nostra impresa, che da un certo punto del ‘900 si è stabilmente affiancata all’arte come luogo della creazione: sognatori un po’ anarchici che riuscivano a fare cose sorprendenti. Anche sbagliando molto, anche fallendo, ma all’interno di comunità che metabolizzavano il fallimento e sostenevano gli irregolari buoni. Questo ciclo creativo è finito a livello di sistema con gli anni ’80, il decennio demonizzato dai postcomunisti, a cui è seguita una scientifica parabola di imborghesimento e irreggimentazione che continua sinora. La massa critica e l’integrazione hanno superato rapidamente la distinzione nella scala dei valori. Sognare e sperimentare era un romanticismo che non ci poteva permettere nella divisione globale del lavoro e nel trionfo della razionalità tecnologica: l’innovazione era funzione della sistematicità della ricerca e “la classe creativa” aderiva a processi di accumulazione anch’essi rigidamente definiti. Insieme alla manifattura e ai capitali, anche la creatività veniva incanalata nei flussi globali del valore e volava a San Francisco o a Tel Aviv. Soprattutto, abbandonava la dimensione, sghemba ma fertilissima, della piccola comunità, per diventare progetto scalabile. Gli imprenditori, anche chi aveva fatto la propria fortuna con la creatività e il rischio, si facevano più accorti amministratori e smettevano di rischiare: gli spiriti animali diventavano spiriti ragionieri. Un processo nel quale abbiamo perso tutti, soprattutto le comunità più “irregolari”. Mentre doveva entrare in Europa, l’Italia si è scoperta più “non Germania” che un Paese peculiare ma straordinario. Il PD, sempre per l’ansia di essere alla testa di quelli che sono come tutti, oltre che per la crescita del peso politico dei garantiti al suo interno, ha accompagnato acriticamente questo processo di normalizzazione. Non solo ha attivamente promosso lo spossessamento dei livelli locali di governo (non senza ragioni, ma non si cura il raffreddore tagliando il naso), ma quasi sempre sostenuto il superamento della polverizzazione delle imprese premiando la finanza e la grande industria. Le micro e piccole imprese hanno trovato protezione nei lucignoli della Destra, che promettevano di poter continuare a operare come se nulla fosse, incuranti della rivoluzione digitale e della Direttiva Bolkenstein. Il PD che vorrei, forte anche di una classe dirigente più variegata, è un partito che riconosce, accoglie e promuove attivamente la creatività e l’immaginazione a tutti i livelli, dall’arte, all’impresa, alla politica e si apre all’apporto di intelligenze irregolari come lievito per ogni comunità viva.
6. Un partito patriottico, che vuole bene all’Italia come è: vorrei un PD che non lascia la bandiera dell’Italia al più bieco nazionalismo. Il nostro è un Paese fragile, molto complesso, straordinario e da troppo tempo sofferente, economicamente, socialmente e psicologicamente. Per troppo tempo chi l’ha governato è oscillato tra il lassismo verso gli evidenti difetti e la pretesa di imporre modelli alloctoni, senza radici e senza prospettive. Vorrei che il PD fosse il partito della nuova terza via: orecchio a terra per ascoltare il Paese senza vederlo in televisione, ottimismo della volontà per governarlo, visione del futuro per dare una prospettiva. E indulgenza non sbracata verso i suoi difetti. Troppe volte ho avuto a che fare con politici e soprattutto tecnici delle politiche assolutamente competenti, colti e illuminati, che però chiaramente avrebbero preferito svolgere il loro lavoro altrove, in paesi che ritenevano più civili. Si assommano a una retorica montante da anni sulla necessità di lasciare l’Italia, che accomuna veri cervelli in fuga e migranti economici a figli di papà annoiati. Il PD deve essere il partito di quelli che restano e di quelli che ritornano. Il partito delle comunità attive per rendere questo Paese più moderno, accogliente, competitivo, giusto.
7. Un partito che cambia idea, ma non con tutti i venti: la politica liquida in una società liquida impone continue revisioni di linea, perché “solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”. Il PCI del centralismo democratico cambiava opinione anche spesso nelle stanze segrete, seguendo poi processi di riconfigurazione del pensiero dell’organizzazione democratici, ma straordinariamente macchinosi. Oggi invece i processi di evoluzione della linea sono eccessivamente rapidi, pubblici e superficiali. La legittima coabitazione di opinioni diverse senza la tensione alla sintesi crea un costante effetto bar, nel quale dirigenti, rappresentanti e simpatizzanti dicono cose diametralmente opposte, senza gerarchia delle fonti. Ancora più spiazzante in questo bailamme sono i rapidissimi cambiamenti di linea, l’ultimo dei quali ha riguardato il sì incondizionato al Governo Draghi il giorno dopo essersi immolati sulla prosecuzione del Governo Conte. La difficile sincronizzazione tra tempi della democrazia e just in time digitale è uno dei grandi rovelli di questa epoca e necessariamente i partiti scontano il problema dei tempi di reazione troppo lunghi, da controbilanciare con lo scatto in avanti un po’ improvvisato del leader. Se il salto in avanti diventa un habitus, figlio più dei tempi dei social che di un’idea compiuta e progressiva di democrazia contemporanea, disorienta però la comunità di riferimento, la fa sentire inutile, e induce passività e disinteresse, quello che il PD oggi deve combattere come il peggior nemico.
8. Un partito orgogliosamente catodico, digitale e fisico: come ogni Segretario del PD negli ultimi anni, Enrico Letta si è posto la questione della partecipazione digitale alla vita del partito, lanciando la proposta delle Agorà Democratiche, alternativa allo show passivizzante della Bestia e alla Piattaforma Rousseau. Dopo oltre un anno di confinamento digitale causa pandemia, che ha sterilizzato i rapporti sociali ma ha permesso di riscoprire il valore della comunità più prossima, credo che assieme alla dimensione digitale il PD debba riscoprire quello della dimensione fisica della partecipazione. Il valore non digitalizzabile di una comunità di persone che, appena si potrà, si ritrovano vicine a parlare, discutere, progettare, sognare. I Democratici sono l’unico partito che dispone di una rete capillare di sezioni sul territorio e di un patrimonio, benché âgée, di militanti che le utilizzano. Queste sezioni, o circoli, sono le radici di un partito nato molto prima dell’era digitale, radici con le quali il PD deve fare la pace, valorizzandole senza gettarle alle ortiche né rimanerne impigliato. Certamente il PD dovrà essere presente online e ingaggiare come tutte le comunità, ma i suoi dirigenti e rappresentanti dovranno innanzitutto girare l’Italia per incontrare dal vivo, di persona, la propria gente, conoscerla meglio e spiegare e condividere i progetti per il Paese. Con attenzione analogica, catodica, alla qualità, che è quello che l’Italia sa fare meglio.
Ph: Bruno Panieri
(Fine)
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