Governo

Il Partito catodico – III Puntata

16 Maggio 2021

(segue dalla seconda puntata)

I nemici del PD e cosa dicono di lui

Le comunità larghe si riconoscono per omogeneità, comunanza di destino o comunanza di nemici. Quando la politica si è spostata dalla dimensione comunitaria a quella televisiva, e i partiti sono passati dalla rappresentanza di classi e interessi all’identificazione con opinioni, il nemico è diventato ancora di più l’elemento unificante. Chi siete? Non lo sappiamo di preciso, ma certamente non siamo quelli là, siamo la loro antitesi antropologica. Non è abbastanza?

Sebbene non con la forza che le attribuiva un vittimista Berlusconi, la comunità politica postcomunista si è alimentata negli anni con robusti odî, nei quali all’avversione politica si univa una costante componente di antropologia negativa, valoriale.

I nemici del ‘900, principalmente DC e PSI, erano nemici cavallereschi. I democristiani erano grigi pretini maneggioni e i socialisti rampanti faccendieri (sempre con le eccezioni personali e con il dato che si governavano assieme città e regioni), ma tra comunità politiche vigeva una sorta di mutuo rispetto.

La deriva del nemico antropologico parte da Craxi e dalla marcia nuova che innesta nella dinamica politica. Leaderismo, personalismo, aggressività esplicita, aggregazione di figure eccentriche rispetto alla Sinistra tradizionale, tentazioni egemoniche, fanno di Craxi il primo dei nuovi nemici, con i quali è impossibile (almeno idealmente) convivere.

La stagione di Tangentopoli, la spinta giustizialista anche a Sinistra e la Seconda Repubblica maggioritaria incarogniscono il dibattito politico e radicalizzano quella tendenza a drammatizzare tutti i cambi di regime che aveva descritto bene Massimo Salvadori in “Storia d’Italia e crisi di regime”. L’avversario è il Male, la sua affermazione non è un sano ricambio al vertice, ma la rovina del Paese.

Il supervillain dei postcomunisti è però Silvio Berlusconi.

Berlusconi arriva al potere nel 1994, con il proposito esplicito di impedire alla sinistra di vincere le elezioni, e ci riesce. Soprattutto, è plasticamente (e plastificatamente) il contrario di tutto quanto i postcomunisti pretendono di incarnare. È, almeno all’inizio, esaltazione incondizionata degli spiriti animali, con l’imprenditore self made come modello culturale e l’impresa come modello istituzionale. Nasce politicamente da una costola di Craxi e pragmaticamente imbarca pezzi di Prima Repubblica, ma ancor prima il MSI e la Lega, a distillare gli incubi dei postcomunisti. È diventato ricchissimo e famoso, oltre che per una certa disinvoltura negli affari e nei rapporti con la politica, soprattutto per aver rotto il monopolio della RAI, politicizzata ma pedagogica e nazionale, con una televisione americana, frivola e divertente.

Berlusconiano diventa un insulto sanguinoso: c’è dentro l’egoismo, la mancanza di valori, il SUV in doppia fila e le ragazze che smettono di studiare per fare le veline. È antropologia molto più che politica.

Antropologia che non permette di vedere come, in mezzo certamente a tanta spazzatura, nel pubblico (e nei lavoratori) di Canale 5 vi erano tanti elettori di Sinistra, o meglio classi popolari e non solo che avevano votato a Sinistra, ma che non avevano più voglia degli anni ’70 e della loro politica plumbea.

Perché un corollario degli odî forti della Sinistra postcomunista è stato sempre il ritardo nel cogliere segnali che la società, anche quella più vicina, stava dando attraverso l’adesione a modelli antropologici considerati lontani da quanto avrebbe previsto una pedagogia nazionale della Sinistra.

È stato così per Craxi, quando non si è colto il tema della classe creativa, che i socialisti hanno individuato prima e meglio. I “nani e ballerine” dell’Assemblea Nazionale del PSI, erano un drappello colorato in anni colorati, nei quali gli stilisti diventavano il made in Italy in luogo dell’industria che stava morendo. È stato così con la voglia di intrattenimento e di socialità ristretta e non organizzata che ha preso gli italiani negli anni ’80 e che si sposava perfettamente con Drive In e i programmi delle TV di Berlusconi.

Quando Berlusconi fonda Forza Italia, non si prende solo lo scontato voto della borghesia più conservatrice e degli imprenditori rampanti, ma si porta a casa anche come abbiamo visto il collegio di Mirafiori e un solido voto operaio, che travaserà poi alla Lega. È un lutto e una bomba lanciata nella fragile identità del partito non più comunista, che come i crostacei aveva appena messo un nuovo carapace ancora morbido, che però con gli anni non si è mai del tutto indurito.

Perdere Mirafiori ha rappresentato un colpo simbolico all’identità consuetudinaria dei postcomunisti, il senso di un porto lasciato senza che fosse chiaro quello di destinazione. Perderlo da Destra, in favore della forza politica guidata da un miliardario populista che metteva insieme liberismo economico, securitarismo e gentismo, era una tortura.

La sconfitta di Mirafiori ha innescato domande e riflessioni ancora aperte: Perché il PDS aveva perso Mirafiori? Perché i DS perderanno 5 anni dopo Bologna? Perché hanno abbandonato la Sinistra? Perché non esistono più Destra e Sinistra? Perché non rappresentano più le classi popolari? Perché sono il partito delle ZTL?

Berlusconi resterà il nemico per vent’anni esatti, da capo del Governo e leader dell’opposizione. Ispirerà una torrenziale produzione culturale e di intrattenimento e infinite piattaforme politiche, il cui glutine era esattamente quello di impedire al Berlusconi e al berlusconismo di prendere o di tornare al potere.

Solo dopo vent’anni, un Segretario del PD riconoscerà all’anziano leader del Centrodestra, dopo avere governato assieme nella stagione di Mario Monti, lo status di interlocutore per un patto politico.

Lievito di questa rivalutazione era, oltre alla comune esperienza di governo nel primo reset della politica nella Seconda Repubblica, l’emergere di nuovi, inediti e potenti nemici, portatori di una carica antisistema così spiccata da fare apparire Berlusconi come un affidabile uomo delle istituzioni: i 5 Stelle e la Lega di Salvini.

Prima di diventare, con mossa ardita, alleato strutturale, i 5 Stelle sono stati un implacabile nemico del PD. Soprattutto, il PD (PDmenoelle per sottolinearne l’indistinguibilità dalla coalizione di Centrodestra), in quanto partito simbolo delle istituzioni e del mainstream politico, è stato il principale nemico dei 5 Stelle, oggetto di polemica continua e violentissima, com’è violentissima la polemica politica nell’era digitale.

I 5 Stelle sono stati un nemico insidioso perché, al di là delle suggestioni di Casaleggio sul partito digitale, sono stati e sono un movimento a base realmente popolare. Popolare senza filtro, intellettuali organici, scuole di partito e case del popolo (sostituite male dai social network) e dunque aperto a ogni semplificazione e soggettivismo, oltre che all’influsso di gruppo più o meno organizzati di portatori di istanze pre- o impolitiche, o semplicemente marginali. Con le loro infinite contraddizioni, i 5 Stelle sono il partito del “reddito di cittadinanza”, ossia della misura tra millemila contraddizioni più radicale e ideologicamente orientata a supporto degli incapienti. Una misura che è stata oggetto di innumerevoli lazzi (anche miei) come “reddito da divano”, mentre invece preconizzava tanto l’emergente necessità di garantire un reddito agli sconfitti dell’assetto economico digitale post crisi, quanto un ruolo più attivo e sostantivo dello Stato nelle vicende economiche.

I 5 Stelle hanno oscenamente maltrattato il PD, con la violenza che è tratto contemporaneo della politica, come paradigma della Casta e di un modo “analogico” di concepire la politica, fatto di simboli, organizzazione, selezione delle classi dirigenti e soprattutto compromessi. L’imbarazzante vertice in streaming tra un attonito Bersani e gli arroganti neoeletti grillini raccontava l’incontro non solo di due culture, ma di due epoche politiche e l’onore fu ristabilito solo da una delle più felici performance di Renzi, quando picchiò per primo con un’aggressività che il pacioso predecessore emiliano non possedeva.

Per ragioni diverse da Berlusconi, anche i 5 Stelle sono stati avversari antropologici, per la carica antisistema, per lo sberleffo dadaista di portare in Parlamento e nelle istituzioni assoluti, ostentati incompetenti, per lo spazio dato a istanze marginali come i no-vax, i terrapiattisti e ogni complottismo.

Misuratisi a forza con il peso del loro consenso, i 5 Stelle hanno rivalutato l’affidabilità istituzionale e il buon carattere del PD, facendone l’interlocutore ad oggi privilegiato e implicitamente riconoscendo che la politica ha un codice cavalleresco e delle compatibilità che non possono essere del tutto disconosciute.

Il nemico acerrimo, secondo solo a Berlusconi per odio, è però stato ed è tuttora Matteo Salvini. Il leader della Lega, che ha preso come partito nordista in disarmo e ha portato ad essere prima forza nazionale su una piattaforma dichiaratamente populista reazionaria, rappresenta tutto quanto un partito pur diviso come il PD unanimemente disprezza: una xenofobia nemmeno celata, l’antieuropeismo come sintesi della somma di egoismi e localismi amorali (prima gli…), il gentismo come comunicazione semplificata e manipolatoria, il qualunquismo.

Salvini, a differenza dei 5 Stelle, non guida un partito virtuale, ma l’ultimo partito leninista italiano, che ha ereditato dalla Lega di Bossi il radicamento territoriale e la disciplina organizzativa. Vedendo con previdenza un buco di consenso in cui infilarsi, il risentimento dei territori e delle categorie sociali marginali ma con una connotazione più reazionaria e violenta dei 5 Stelle, Salvini ha esteso il range d’azione della Lega a tutto il territorio nazionale, anche presso gli odiati “terroni”. Quindi il comico fiorire di leghisti a Roma ladrona, presidenti di Regione leghisti in Calabria e Sardegna e attivisti persino a Lampedusa.

Sincretico, sintetico e velocissimo, dove il PD è analogico e cacadubbi, Salvini surfa su ogni contraddizione, annusa costantemente i trend topic digitali e su questi costruisce l’agenda politica, che ormai fonde totalmente policymaking e comunicazione in un’identità indistinguibile. Ovviamente odia il PD, la Sinistra, i radical chic e quel coté di competenti che rappresenta il nemico per eccellenza dei populisti.

Come i 5 Stelle, la Lega ha costruito consenso su una base chiaramente popolare, che ha guardato a Destra anche perché non ha trovato alcuna piattaforma politica credibile, che unisse la rappresentanza dei suoi interessi a una dimensione di solidarietà di classe e comunanza di destini tipica della Sinistra. Avendo fame, ha mangiato quello che c’era.

Salvini, come i suoi omologhi inglese, francese e americano, ha incanalato la “vendetta dei luoghi che non contano” secondo il geografo economico Andrés Rodríguez Pose, facendone progetto politico antiglobalista, antisolidale, antiscientista, antimoderno. I più attenti osservatori non hanno però mancato di notare come, in quel pentolone ribollente di rabbia che Salvini e i suoi accoliti alimentavano di legna da ardere, ci fossero ragioni genuine di disagio verso alcune dimensioni del contemporaneo che producevano esclusione economica, sociale, culturale, territoriale.

Soprattutto, lo spostamento del consenso delle classi popolari alla Destra e ai movimenti antisistema metteva il dito nella piaga della trasformazione identitaria del PD nel partito delle ZTL, ossia in una forza politica di opinione sostenuta principalmente dagli elettori più integrati, benestanti e garantiti. I quali elettori, avendo superato i bisogni più elementari alla base della piramide di Maslow, sono concentrati quasi esclusivamente sui bisogni in cima alla piramide, prevalentemente individuali, identitari e morali più che materiali. Ciò è comprensibile e anche necessario, poiché dall’innalzamento delle aspirazioni deriva molta parte del progresso, ma spiazzante e divisivo se non inserito in una cornice di senso più ampia e inclusiva, come sarebbe stato compito dei partiti politici e del PD in particolare. In assenza di questa cornice di senso unificante, la dicotomia evidente tra bisogni materiali e discorsi morali e identitari “alti” produce spiazzamento e apre la via all’azione degli imprenditori politici dello scontento.

I dibattiti sullo ius soli, il voto ai sedicenni, la transizione ecologica e il superamento anche lessicale delle discriminazioni di genere hanno senso, “da Sinistra”, se si inscrivono in un’azione complessiva e coerente di tutela delle fasce deboli della società. Si proteggono i deboli storici, migliorandone e rafforzandone le condizioni materiali, e progressivamente ci si rivolge a nuove debolezze per andare tutti un po’ più avanti. Un labor limae lento ma costante, come fu per il PCI l’integrazione degli studenti fra le categorie deboli da rappresentare.

Dove questa attenzione invece viene meno, per superficialità o perché una parte si prende in esclusiva il proscenio, l’effetto partito delle ZTL che pensa alle ubbie dei radical chic è immediato e violento, e a tratti francamente comico. Immediato e violento per la velocità e pervasività della comunicazione pubblica attraverso i social network, nonché per la presenza di abili e interessati soffiatori di Destra sul fuoco della “Sinistra che dimentica i deboli italiani per gli immigrati, i gay o la guerra al vocabolario”. Comico quando esponenti politici o intellettuali vicini al PD mostrano, nelle parole e nei comportamenti, un mariantoniettesco distacco dalle vicende e dai problemi delle persone comuni.

Scoperchiato il vaso di Pandora della diffidenza estetica e morale tra i well to do progressisti e le classi popolari tradizionali, le ragioni di distanza e diffidenza si sono moltiplicate. Di più, l’agenda politica della contemporaneità andava e va scavando solchi tra la borghesia progressista che oggi vota PD e quelle classi popolari che con il voto esprimono disagio e rifiuto del prezzo, culturale, sociale, economico, che quella contemporaneità ha imposto loro.

Gli esempi sarebbero centinaia, ma prendo per semplicità quello dell’ambiente: la pressione delle opinioni pubbliche borghesi e urbane per interventi immediati e radicali sull’ambiente, anche in risposta alle suggestioni del nuovo ambientalismo, ha concentrato inedite attenzioni da parte dei governi su misure a forte impatto ambientale. Queste misure hanno comportato un riassetto della mobilità urbana a deciso sfavore del traffico privato su gomma, oggetto di politiche punitive finalizzate a disincentivarlo in favore di mezzi di trasporto pubblici e privati più sostenibili e, più a lungo termine, di formule come “la città in 15 minuti”, che intendono creare le condizioni per abbassare il volume di spostamenti in città. Sono misure giuste, appoggiate con convinzione e spesso con entusiasmo proattivo dagli amministratori del Centrosinistra in Italia e nel mondo. Sono altresì misure che, allo stato, gravano innanzitutto su chi si deve muovere in città venendo da fuori, ed è bene se si tratta di un inveterato maniaco dell’automobile, meno bene se si tratta di un operaio o un piccolo artigiano con un furgone che deve entrare in città per lavorare.

Il caso della mia città, Milano, è paradigmatico: qui una amministrazione liberal, molto attiva e attenta all’ambiente, ha colto l’occasione della pandemia per rivoluzionare la viabilità di alcuni assi viari molto importanti, privilegiando esplicitamente l’utilizzo della bicicletta e dei monopattini e causando una potenziale fonte di enormi ingorghi a pandemia finita. La Destra soffia da mesi sul fuoco della protesta, ma anche alcune voci della Sinistra storica hanno rimarcato come si tratti di una misura velatamente impopolare, o meglio che rischia di scaricare i propri effetti su chi è meno fortunato logisticamente, a cui si chiede un surplus di sforzo, solidarietà e comprensione non solo filosofiche, ma assai pratiche. Qualora si arrabbiasse, sarebbe solo uno stolto da censurare? Non credo, ma so per certo che troverebbe udienza solo alle orecchie, certamente interessate della Destra. Perché lo spostamento della Sinistra postcomunista ai piani superiori della piramide di Maslow ha di fatto consegnato le classi popolari al junk food politico degli imprenditori dello scontento e della paura, unica fonte di sostentamento. Perché stupirsi allora se persone nutrite solo a odio iniziano a odiare?

Un solo leader dei postcomunisti si è posto il tema di recuperare il contatto con le classi popolari attraverso un recupero mimetico di media e linguaggi pop. Si trova nel girone dei nemici perché, in un partito che ha avuto dalla sua fondazione ben 9 segretari, di cui solo 4 rimasti successivamente nel PD, ha rappresentato prima un leader assoluto poi il nemico più odiato: Matteo Renzi.

Renzi è stato il maggior esperto di guerre lampo politiche dalla nascita della Repubblica: giovanissimo e outsider presidente di Provincia, giovane e outsider Sindaco di Firenze, aspirante e poi Segretario del PD eletto con le primarie, giovane Presidente del Consiglio scalzando un compagno di partito, odiato leader di un partitino coalizzato ma rivale del PD, al quale si è divertito a scompaginare ogni carta negli ultimi anni.

Matteo Renzi ha attraversato il PD come un terremoto, facendogli compiere uno straordinario salto in avanti in termini di modernizzazione degli stilemi comunicativi, di immagine e anche di freschezza e radicalità del messaggio. Di contro, la cura Renzi non ha mostrato alcuna attenzione all’anima del partito, che l’ha col senno di poi più subìto che apprezzato, e soprattutto l’ha prontamente espulso come un corpo estraneo.

Renzi ha portato, lo dico da antico sostenitore oggi deluso come moltissimi, vere innovazioni nel modo di essere del PD: un gusto per la lotta a viso aperto, un carisma e una leadership che si erano viste più nell’altro campo, una capacità animale di intercettare i temi forti, una totale assenza di snobismo. Purtroppo, queste caratteristiche si sono accompagnate a un egotismo, una inaffidabilità e un disprezzo della comunità di cui si fa parte che ne hanno decretato l’altrettanto rapido declino.

L’ex Sindaco di Firenze è stato il perfetto leader politico contemporaneo in un continuum che va da Berlusconi a Salvini: rapidissimo, accentratore, sincretico, egoista. Un “io” che sovrascrive ogni “noi” e spossessa la comunità politica, rendendola community di follower. Troppo per la morale del PD, in questo comunità sana, che non digerisce mai completamente il dispossessamento critico e che ha rigettato Renzi rapidamente, nonostante gli dovesse il picco del 40,8% dei voti alle Europee del 2014.

È stato un leader “grintoso”, come i postcomunisti non hanno mai avuto (se ne doleva Nilde Iotti negli anni ’80), ma anche per questo è stato percepito sempre più come un corpo estraneo, qualcosa di alieno e progressivamente è risultato chiaro che anche lui si considerava in partibus infidelium, o meglio come un rider che acquisisca la maggioranza di un’azienda a dispetto degli azionisti storici. Azionisti che si sono coalizzati dopo la sconfitta netta al referendum sulla riforma costituzionale e la catastrofe alle Politiche del 2018 e lo hanno defenestrato, preferendogli figure più organiche e comunitarie. I propositi di vendetta alla Macron, lo svuotamento del PD, si sono presto arenati di fronte alla sua crescente impopolarità e alla solidità della comunità politica democratica.

L’ex Segretario diventato nemico è stato un politico ultramoderno (non è necessariamente un bene). Ha capito e addomesticato per primo a Sinistra la comunicazione come sostanza della politica, tra le varie cose prevedendo con gli “80 euro” la necessità che la politica e il Governo entrassero direttamente nella vita e nel portafoglio delle persone, non attraverso l’infinita mediazione delle leggi, ma producendo qualcosa di fisico, immediato.

È stato questo il suo contributo principale, l’elemento di innovazione in un impianto altrimenti saldamente ancorato alla Terza Via degli anni ’90, per la quale la via maestra alla redistribuzione della ricchezza era l’aumento del denominatore e una maggiore attenzione al percolamento del benessere dai piani alti a sotto.

Una messa alla prova nemmeno troppo lunga ha però evidenziato tutta l’inaffidabilità del suo fare politica completamente tattico, scisso da qualsivoglia tensione ideale, nella quale il leader politico è innanzitutto un influencer. Se Berlusconi ha portato in politica il brio delle TV private, Renzi è stato il primo politico social, specialità poi raffinata dai 5 Stelle e dalla Bestia di Matteo Salvini.

Con loro, la politica è entrata nell’era digitale.

Tra partiti app e cannibali. L’impatto del digitale sul discorso politico (e sul PD)

La rivoluzione digitale ha terremotato la politica esattamente come ha fatto per la società e l’economia.

A differenza di queste, però, la trasformazione digitale della politica sta avvenendo con tempi lunghissimi, sconta forti resistenze e soprattutto si è manifestata fisicamente sinora più nelle sue componenti critiche e problematiche che nelle, pure evidenti, potenzialità di allargamento e qualificazione della democrazia.

La trasformazione digitale della politica non è più da tempo un’opzione. È evidente il vantaggio che si avrà per la democrazia quando i cittadini si potranno in sicurezza esprimere con maggiore frequenza e velocità su temi di rilevanza collettiva e monitorare e interagire puntualmente con gli eletti.

Oggi, nel mezzo di questa traversata, la via per l’orizzonte è però lastricata di pessima qualità della comunicazione politica, schiacciata sulle dinamiche più becere dei social network e riduzione a burletta della partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche.

Al di là della cronaca locale, si registrano però a livello globale alcune trasformazioni che il digitale sta imponendo alla politica, con le quali è già necessario fare seriamente i conti.

La trasformazione principale riguarda una radicalizzazione del confronto politico, che aderisce alle dinamiche delle piattaforme social e le sfrutta per prosperare. La tendenza ad accentuare le conferme delle proprie opinioni attraverso la partecipazione a bolle di discussione assai omogenee ovviamente accende il radicalismo, o meglio non lo mitiga attraverso la diluizione del confronto fra opinioni differenti.

Altrettanto rilevante è il fenomeno interconnesso della nascita di movimenti di opinione monotematici e radicali con grande capacità di mobilitazione, nessuna disponibilità al compromesso e soprattutto una tendenza a ibridarsi con gli stili di consumo, diventando nicchie della “coda lunga” di Chris Anderson, corteggiate e amplificate dal marketing delle imprese del lifestyle.

Frydays for Future, #metoo, #blacklivesmatter e il movimento LGBTQ+ rappresentano le vere novità della politica nell’era digitale.

Con l’eccezione di #blacklivesmatter, non rappresentano condizioni di disagio materiale, non sono movimenti di classe, ma di opinione e rivendicazione di diritti sociali e di stili di comportamento da parte di gruppi che si sentono non rispettati o minacciati nell’espressione del sé o nel proprio futuro. In questo sono, con tutto rispetto ed evidenza, movimenti borghesi.

Della classe di mezzo hanno preso anche la iattanza e l’assolutezza nella difesa delle proprie ragioni, che non sono mai negoziabili: sono le Pantere nere, non Martin Luther King. È un estremismo malattia infantile, ma non solo.

La cultura digitale, con la sua esaltazione della nicchia, spinge a ricavarsi spazi assoluti, che magari durano pochissimo; le aziende di consumo, di scarpe, cereali, app, smartphone, candidati alle elezioni hanno capito che le nicchie vanno coltivate e corteggiate. Si coccolano soggettività, modi di essere, idiosincrasie, ricavandone militanti-consumatori assoluti e un po’ fanatici.

Greta Thunberg non porta le istanze degli ambientalisti in un confronto bilanciato sui modelli di sviluppo, schiaffeggia i politici e i capitani d’industria perché hanno rubato il futuro ai bambini, e loro si fanno schiaffeggiare, lasciano abbattere le statue di schiavisti di 300 anni fa (quando lo schiavismo era un modello di sviluppo), cancellano sublimi artisti perché forse sono stati troppo disinvolti sessualmente in anni nei quali era la norma.

Il presupposto è che, mentre me ne sono potuto fregare per secoli dell’odio di classe di milioni di nulla spendenti, non posso permettermi l’alzata di sopracciglio di milioni di consumatori che votano quotidianamente con il clic e la carta di credito e hanno evoluto l’economia dell’esperienza nell’economia dello stato d’animo e del desiderio.

Come si gestisce il consenso e si fa politica in quest’era di intolleranze contrapposte?

Si alzano i toni e si diventa influencer. È il caso della Bestia di Salvini, efficientissima macchina di propaganda che annusa i trend topic, dagli immigrati alla pizza ai gattini, e ci fa mettere la faccia al leader, ma è anche il caso di Alexandra Ocasio Cortez, nuova stella della Sinistra radicale, che nei suoi video su Youtube alterna messaggi politici a indicazioni sul make-up, proseguimento della politica con altri mezzi.

Oppure, si apparecchiano piattaforme che aggregano nicchie, anche di lunatici, come nel caso dei 5 Stelle, dando spazio ai segmenti della coda lunga digitale, perché nella politica contemporanea marketing, comunicazione e contenuti si fondono costantemente.

Si da quindi vita a partiti app, monotematici o strettamente segmentati, con regole di ingaggio debolissime e debolissima, benché non per questo meno settaria, identificazione.

Secondo uno studio di Yahoo, il ciclo di vita medio di un’app su uno smartphone non supera i tre mesi; sul mio Kindle c’è una pila di estratti gratuiti di libri che scarico solo per assaggiarli. Il digitale coccola il bovarismo e ogni forma di sindrome da deficit dell’attenzione: gli utenti/cittadini/consumatori sono alla continua ricerca di soddisfazioni immediate, sono inaffidabili e non se ne preoccupano, volando continuamente di fiore in fiore. Per attirarli, i messaggi devono essere sovraccarichi, coloratissimi, tanto più evidenti quanto minori sono l’attenzione e il discernimento dei destinatari.

Per chi vive di consenso, politico o commerciale, è una vitaccia: bisogna essere sempre presenti ma non troppo presenti, bisogna esternare il proprio pensiero per non farsi dimenticare sapendo di camminare sulle uova. Un tweet di anni prima, un’ironia non capita, la reazione piccata di una giornata storta, tutto entra in un frullatore che lancia o distrugge reputazioni e carriere, soprattutto a Sinistra, laddove i follower e gli influencer di Destra sono molto meno attenti alla consecutio logica delle affermazioni.

La pandemia, che pronostico sarà la tomba della classe dirigente politica attuale come il Fascismo lo fu dello Stato liberale, ha svelato completamente il circuito pazzotico della comunicazione politica nell’era digitale in tutta la sua perversità. Nessun esponente politico, compresi gli scienziati entrati purtroppo nel frullatore, si è salvato dal dire la propria e da invocare soluzioni assolute, prontamente smentite dall’ironia beffarda del virus.

Quando così tante persone anche di valore commettono il medesimo errore, bisogna guardare necessariamente anche al contesto in cui opera per capire se non sia anch’esso responsabile dell’errore. Coltivare il consenso nell’epoca digitale significa avere una telecamera sempre puntata in faccia, infiniti hater o portatori di opinioni, un pubblico distratto e vivere tra la paura di sbagliare e la superficialità di chi sa che tanto la mattina dopo ogni parola è cancellata. O si accetta il gioco e si producono ballon d’essai costanti (che non riguardano solo le opinioni dei leader, ma anche i contenuti delle leggi, spifferati per vedere la reazione social), o si ha la forza e l’incoscienza di provare a forzare la mano con strade alternative, che ora non si vedono.

Come sta il PD nella politica digitale? Malissimo, perché è un corpaccione goffo, o meglio una comunità abituata a rimuginare fin troppo sulle cose, incapace di contenere pensieri ed emozioni in 140 caratteri.

Il PD è un partito catodico, antico per età, radici, processi decisionali. Subisce i movimenti di opinione borghesi, che ne cannibalizzano il consenso e, se meritoriamente pongono problemi contemporanei nell’agenda politica, lo allontanano sempre di più da quell’attenzione alle classi popolari che dovrebbe esserne comunque la stella polare.

Non si tratta di imparare a utilizzare le tecnologie, quello già lo si fa e non c’è nessun dirigente o eletto anche di infima fascia a non esternare diuturnamente sui social; non si tratta nemmeno, sciagurata ipotesi dell’allora neosegretario Zingaretti per fortuna presto abbandonata, di dare vita a un Bestia democratica, ossimoro sbagliato e inutile.

La risposta ancora non esiste, se non nell’ipotesi assai ottimistica di dare vita a stilemi di comunicazione politica e di partecipazione che siano veloci senza essere superficiali e densi senza essere noiosi. Certamente, i modelli del leader twittante e del partito app non si addicono a una forza democratica e di governo di processi complessi, perché obliterano la democrazia e la riflessione in favore solo della pancia. Producono politici logorroici e vanitosi e soprattutto politiche pensate male e scritte peggio (la qualità del drafting legislativo è sprofondata negli ultimi anni e la confusione digitale tra fare politica e fare test di mercato costanti ha enormi responsabilità indirette in questo fenomeno).

Essere un partito catodico, tecnologia certamente antecedente al digitale, ma che a detta di molti esperti permette una qualità di visione superiore e una maggiore naturalezza di colori, può non essere necessariamente un limite, anzi. In un momento in cui il digitale influenza la politica più in negativo che in positivo, essere consapevolmente e coraggiosamente catodici potrebbe permettere di essere più naturali, veri, autorevoli. Certamente è meglio che cercare di scimmiottare partiti e movimenti nativi digitali.

Per essere orgogliosamente catodico, il PD dovrebbe ripartire dal proprio valore principale: la sua comunità di persone.

 

(continua…)

 

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