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Il Partito catodico – II Puntata

9 Maggio 2021

(segue dalla prima puntata)

Identità vo’ cercando

Il PCI del 1989 era un partito comunista, strategicamente votato al superamento dell’economia capitalistica e alla collettivizzazione dei mezzi di produzione? Assolutamente no, ma il richiamo esplicito a dei simboli, dei leader e a una storia sempre più italiana che sovietica costruiva la cornice di senso all’interno della quale si muoveva un partito realmente di massa, che partecipava non strumentalmente al gioco democratico e governava pienamente vaste parti del Paese. Non solo, il PCI aveva ereditato dalla Resistenza e dalla Guerra Civile una solidissima cultura di presidio della democrazia dai pericoli di sovversione dell’ordine repubblicano, provenissero essi dal neofascismo, dal terrorismo, dalla criminalità organizzata o dalla magmatica area grigia della destabilizzazione istituzionale.

Erede della doppiezza togliattiana, il PCI aveva progressivamente scolorito ogni componente rivoluzionaria e antioccidentale. Aveva gestito sussulti e strappi dolorosi, come la scissione del Manifesto e le frasi di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre e sulla scelta atlantista, ma aveva mantenuto un’identità tutto sommato coerente, almeno per chi osservava dall’esterno.

Essere elettori e/o militanti comunisti italiani significava una certa idea, praticata o declamata, dei rapporti sociali, del lavoro, dello sviluppo economico, dei rapporti internazionali. Non era monolitica, ma aveva assunto quel potere auto esplicativo per il quale un’idea non deve più essere spiegata, ci si capisce al volo. Il PCI era, chiedo perdono per l’icasticità e la superficialità, un brand ad altissimo tasso di riconoscibilità, polarizzante ma fortissimo.

Il tema del superamento di questa identità così consolidata in favore di una nuova identità da costruire viene posto con grande lungimiranza all’indomani del crollo del muro di Berlino, da parte di un gruppo dirigente formatosi all’interno del PCI e delle meccaniche della politica della prima Repubblica. Da questo punto di vista, va dato atto soprattutto al Segretario Achille Occhetto, una figura ingiustamente sottovalutata, di un coraggio leonino e insieme di una (ben poco comunista) enorme e generosa incoscienza. Con gli occhi di oggi, il passaggio dal PCI al PDS fu un travaglio vero, culturalmente fondato, per nulla strumentale e per questo più potente per la scelta deliberata di abbandonare la propria comfort zone.

Dall’altra parte, la svolta fu pensata e agita da politici del ‘900, ancora convinti del legame consequenziale tra elaborazione culturale e identità politica e soprattutto del potere sostantivo delle auto-definizioni in termini di culture politiche. Comunista, socialista, socialdemocratico, liberale, cattolico democratico, liberalsocialista erano termini vivi, evocativi e soprattutto distinguibili.

Si abbandonava la tradizione comunista (ci siamo intesi), il Sol dell’avvenire, in favore di soli più a ovest, socialisti e persino liberalsocialisti, ritenendo che queste evocazioni bastassero a evocare Pantheon e a definire programmi politici organici e coerenti.

In realtà, lo si scoprirà solo più tardi, con l’89 va in crisi tutta la cosmologia e il vocabolario della politica. Si svuotano di senso gli aggettivi posizionali, dapprima utilizzati sempre più stancamente ed elasticamente come buzz word e poi destinati ad essere appesi nell’armadio della storia accanto ai Guelfi e ai Girondini. Diventano nozioni da libro di Storia, che hanno però dietro passioni, guerre, morti e speranze proprio come i Socialisti e i Liberali (per non parlare degli infiniti cross-over liberal- e social-, sfumature da puristi).

Alla Bolognina si scoperchia il vaso di pandora dell’identità della Sinistra e si apre una ricerca che gli eventi degli ultimi trent’anni hanno reso sempre più complessa e contraddittoria, a tratti sempre più inutile.

Lo svuotamento delle culture politiche novecentesche non ha prodotto nuove culture politiche, nuovi aggettivi per riempire lo stesso cosmo.

È proprio cambiato tutto, radicalmente, passando per la globalizzazione dei processi economici e politici, la scomposizione della società e del lavoro, ricorrenti crisi economiche e sistemiche, la rivoluzione digitale.

È cambiato al punto che anche la nozione-madre di Sinistra è entrata in profondissima crisi proprio nel momento in cui le diseguaglianze esplodevano. Una crisi, ancora una volta, di identità e di riferimenti, sul chi sono le categorie oggi in difficoltà, gli interessi da tutelare, e sul come tutelarli. La nozione di Sinistra si stira e perde di significato dovendone coprire un ventaglio larghissimo tra crescita, redistribuzione e protezione sociale, a cui si aggiunge l’entropia rappresentata dai diritti sociali e individuali, più forti e vocali di quelli economici. Una crisi che ha messo addirittura in seria difficoltà l’assioma storico per il quale la Sinistra fosse naturalmente la depositaria degli interessi delle classi economicamente disagiate.

Poiché dire che è cambiato tutto rende la magnitudo del cambiamento, ma è ovviamente una nozione generica, proviamo a considerare cosa è il tutto che è cambiato.

Sono cambiate le modalità di partecipazione alla politica. I partiti di massa e la Chiesa nazionalizzavano appunto le masse, le educavano, le facevano avanzare selezionando i migliori, le filtravano, le contenevano. Offrivano e pretendevano omogeneità e prosperavano in società sostanzialmente chiuse.

Una società atomizzata, con appartenenze confuse e “liquide”, ma anche in positivo più libera, laica e adulta, e con la crescente lusinga del fai da te digitale non c’entra nulla con i partiti di massa e li abbandona. Li abbandona come strumento di organizzazione della società e della socialità, perché sempre meno persone avvertono l’esigenza di essere organizzate (ed educate, e filtrate e indirizzate). Li abbandona come strumento di partecipazione alla vita politica, perché la partecipazione politica è diventata da sport praticato, anche se a livello amatoriale, a sport da divano, quasi sempre riservato a tifosi. Uno sport di competenze iperspecialistiche, che servono a fronteggiare i problemi ma non inducono identificazione e partecipazione. Uno sport da professionisti lontani, ai quali si riservano plausi o biasimi a pelle, incondizionati, volubili.

Non ci sono più i partiti politici di massa perché non c’è più la massa. Non c’è più l’idea che una comunità che si mobilita possa indirizzare davvero un’agenda politica ipertecnica nei temi oggetto di policy e strettissima nelle varianti concesse alla creatività. Un credo assoluto degli anni ’90 e dei primi 2000, diffuso e praticato soprattutto a Sinistra, diventata massima custode dell’ortodossia europeista e compatibilista, mentre la Destra si è potuta permettere varianti più radicali e creative, che hanno obiettivamente mobilitato di più.

La cultura ha abbandonato la politica e la politica ha abbandonato la cultura. I partiti di massa selezionavano e formavano gruppi dirigenti che credevano alla cultura come strumento di lotta politica e potevano contare su sistemi di trasmissione cardanica delle idee, dall’empireo dei luoghi dell’elaborazione culturale a nozioni a beneficio delle masse popolari. Dall’intellettuale organico di Gramsci le idee fluivano fino allo spassoso dibattito nella casa del popolo toscana sul tema “Pole la donna permettisi di pareggiare con l’omo?” in “Berlinguer ti voglio bene” di Roberto Benigni.

La cultura, l’elaborazione culturale e i consumi culturali anche popolarizzati avevano piena cittadinanza come glutine del partito di massa della Sinistra. Di più, la cultura e i consumi culturali sono stati parte integrante del progetto di liberazione ed elevazione delle classi popolari. I bisnonni materni di mio figlio, entrambi operai comunisti, avevano consumi culturali certamente “superiori” alla loro classe di provenienza e la loro unica figlia fu mandata a studiare all’università fuori da Milano. La cultura aveva una funzione liberatrice e ogni messaggio era la traduzione di un’elaborazione ideale e culturale lunga e diffusa.

Ovviamente, in una comunità in cui l’esercizio del controllo era pervasivo, non tutti i consumi e non tutti i prodotti culturali erano uguali e “approvati”, in quanto ideologicamente compatibili, ma anche in questo aspetto vi erano poche differenze con altre culture politiche di massa. La letteratura, il cinema, il teatro, la musica, le scienze sociali avevano una rilevanza nelle scelte della politica e nell’identità di una comunità.

Il dibattito sulla Cosa, la fase di transizione dal PCI e al PDS, fu l’ultimo dibattito cultural-politico di stile novecentesco con quel carattere di massa, l’ultimo dibattito cartaceo nel quale abbiano avuto una rilevanza le opinioni degli intellettuali.

Oggi la cultura è scomparsa dall’orizzonte della politica, se non come politica della cultura, sottosistema della techne economica che governa ogni scelta. Soprattutto non esistono riferimenti cultural-politici unificanti e con valore di visione organica del mondo, in grado di suscitare identificazione in una comunità, meno che mai di educarne gli esponenti. Anche i riferimenti di cultura politica che non sono ancora morti, come socialista, socialdemocratico, e anche l’onnipresente liberale, sono ormai buzz word con una consistenza tattica.

Le poche culture politiche emerse nel XXI secolo non hanno mai avuto alcuna pretesa organica, o sono single issue (ambiente, diritti, ecc.) o sono concetti elastici e quasi sempre “anti”, come il Sovranismo populista.

La scomposizione del lavoro ha reso inafferrabili e contraddittori i concetti di classe, gruppi sociali e interessi da rappresentare. La fine del PCI è avvenuta mentre si stava compiendo il processo rapido e radicale di deindustrializzazione dell’economia italiana e si faceva largo con pochissima resistenza l’idea della divisione globale del lavoro, dove l’Occidente era l’ufficio e la Cina la fabbrica.

Nelle elezioni Politiche del 1994, prima prova del fuoco per il partito post PCI, Alessandro Meluzzi, uno psichiatra istrionico ed ex militante della Sinistra candidato con la coalizione tra Forza Italia, Lega e MSI batte un dirigente comunista come Sergio Chiamparino nella roccaforte operaia di Torino-Mirafiori. È un evento di enorme portata simbolica, che sancisce la frattura fra voto operaio e Sinistra e apre a una riflessione sulla portata e le conseguenze di questo allontanamento. Emergono gli operai tesserati alla CGIL che votano Lega, la forza del messaggio securitario e identitario rispetto alla rappresentanza sbiadita degli interessi che offre il partito ex-comunista (mentre resiste il Sindacato, non più cinghia di trasmissione).

La deindustrializzazione, reale o psicologica, del Paese non porta con sé solo la polverizzazione del blocco sociale, e del voto operaio, ma segna l’emergere nella percezione pubblica di una nuova inafferrabile classe di lavoratori deboli quanto politicamente difficili da trattare, i lavoratori precari. Sono per la gran parte lavoratori della conoscenza con buon tasso di scolarizzazione, non lumpenproletari, che svolgono mansioni una volta di alto prestigio sociale in luoghi molto diversi dalla fabbrica novecentesca. Sono creativi, insegnanti, artisti, consulenti. Sono giovani e donne. Sono contratti a termine e collaborazioni formalmente autonome e addirittura paraimprenditoriali, ma nella sostanza esternalizzazione di funzioni senza diritti e senza tutele.

La Sinistra fordista nel ‘900 aveva puntato tutto sulla crescita dei diritti dei lavoratori salariati, erigendo muri di regole e diritti acquisiti che impedissero ogni assalto di fanteria alle conquiste ottenute. Ancora una volta però la realtà si incaricava di smontare il costrutto faticosamente raggiunto e il fortino dei diritti dei lavoratori veniva attaccato da sotto, chiudendo le fabbriche e le filiali e spostando la produzione altrove.

Per soprammercato, i muri troppo alti risultavano invalicabili per quelle figure di lavoratori che non erano entrati nel fortino in tempo. Il lavoro si scomponeva in garantiti e non garantiti: entrambi debolissimi di fronte agli smottamenti della globalizzazione e delle crisi economiche, ma i secondi di più.

Da che parte stare? Non funzionava più l’equilibrio dogmatico-dialettico che metabolizzava tutte le contraddizioni, a partire dalla Rivoluzione operaia fatta dai contadini, miracoli dell’aggettivo comunista.

La contrapposizione garantiti-non garantiti faceva (fa) male, anche perché metteva in discussione anche alcune vittorie storiche dalla Sinistra, e contrapponeva (errore tattico inaccettabile nella storia del movimento operaio) le classi subalterne una all’altra. Al di là delle ricorrenti petizioni di principio, il conflitto del lavoro non si è mai risolto.

I non garantiti, per loro natura frammentati e meno rappresentabili, continuano ad essere un soggetto in cerca di identità politica e sindacale. I garantiti hanno resistito meglio, ma è stato un compromesso al ribasso.

Un recente sondaggio di Nando Pagnoncelli assegna al PD la (poco) onorevole palma di partito italiano con l’elettorato più vecchio: il 62% di chi lo vota ha più di 50 anni e ben il 35% più di 65. Non sorprende dunque che il 34% dei suoi elettori siano pensionati, il 20% lavoratori (abbastanza) garantiti come impiegati e insegnanti, solo il 13% operai e lavoratori manuali, e solo un mesto 4% disoccupati, piccoli imprenditori e autonomi (ci torneremo). Il Partito Democratico, erede principale del Partito Comunista italiano non è più da tempo il principale partito dei lavoratori, soprattutto dei lavoratori più fragili, o almeno lo è in misura minore di quanto non sia il partito degli ex lavoratori. Una sottrazione di identità che lascia un buco impressionante, reso ancora più evidente dalle toppe con cui si è cercato di coprirlo.

In un volume significativamente intitolato “Le idee della Sinistra”, uscito per la casa editrice del PCI (a proposito di cultura e politica) Editori Riuniti durante il dibattito sulla Cosa, Umberto Eco esortava il nuovo partito ad abbandonare la pretesa di dare vita a una nuova visione organica del mondo in sostituzione di quella (comunista modificata) abbandonata con il cambio del nome. Facendo ricorso all’armamentario concettuale della matematica, il semiologo suggeriva di procedere pragmaticamente per “algoritmi miopi”, ossia di configurare soluzioni alle questioni che si fossero poste senza pretendere di rifare cosmologie a cui appellarsi.

A distanza di quasi trent’anni da quel suggerimento, si può dire con certezza che nulla ha sostituito nemmeno lontanamente l’organicismo ideologico del PCI. In quel senso, il PD di oggi è pienamente e compiutamente un partito post-comunista.

Allo stesso modo, però il richiamo al pragmatismo non ha trovato sufficiente attuazione. In luogo dell’identità apparentemente monolitica del maggiore partito comunista d’Occidente, gli eredi hanno saputo opporre un caleidoscopio mutevole di pezzi di identità.

Sono stati quasi tutti tentativi anche generosi di ricollocazione politica e sociale, presto abbandonati in favore della loro negazione e che però lasciavano nel sistema operativo tracce e bug, come i file cancellati non correttamente. Molto di questo sfrangiamento è dipeso dall’altissima conflittualità permanente, di posizioni e personale, interna a un partito contendibile, nel quale il vincitore ha quasi sempre avuto (e quasi sempre accompagnato) la tentazione del winner takes all.

Cosa rimane a un partito formattato per essere di massa nell’era del tramonto dei partiti di massa, che insegue formule di cultura politica quando le formule di cultura politica del ‘900 si sono sfarinate, che nasce come partito dei lavoratori e non sa più a quali lavoratori parlare? La declamazione a getto continuo di obiettivi e messaggi, anche contraddittori, ma soprattutto la trasformazione in partito di opinione, di un generico dover essere progressista, educato, non conflittuale.

Un partito di classe media (altra topologia sociale in smantellamento) riflessiva, civile, attenta, pacata, solidale.

Un partito che ha trovato il proprio massimo comune denominatore nel culto dello Stato e dell’Europa.

Il Partito dello Stato, di ogni Stato

Pur con significativi soggiorni all’opposizione, il PD e i suoi antesignani hanno espresso gli ultimi 3 Presidenti della Repubblica, 4 con Oscar Luigi Scalfaro, democristiano tutt’altro che progressista, ma fiero avversario della principale nemesi dei democratici.

L’identificazione del PD (e prima del PDS e dei DS) con lo Stato e le istituzioni è un tratto storico, che molto deve alla statolatria comunista e alla scelta di Togliatti di stare dentro le istituzioni repubblicane, anche a prezzo di molti compromessi.

Il PDS nasceva come partito candidabile al governo nazionale, superando la fatwa verso i comunisti, ma nasceva in una fase di grande instabilità della Repubblica e immediatamente fu chiamato a svolgere un ruolo da responsabile a partire dal Governo Ciampi, da cui pure uscì per quello che è stato di fatto l’unico strappo dei postcomunisti dalle istituzioni. Per il resto affidabilità istituzionale e rigoroso rispetto e difesa di ogni compatibilità hanno sempre costituito il tratto dei postcomunisti e della loro evoluzione, quasi mai premiante in termini di consenso, in partito della Nazione.

Tangentopoli, La Mafia, Berlusconi, i 5 Stelle, Salvini, c’era sempre una minaccia alla virtù repubblicana, un Supercattivo da cui difendere il bene comune, e un PDS e successori pronto a sacrificarsi, a offrire passione e competenze (e a mettere da parte le proprie istanze) per senso di responsabilità. Non sono state le famigerate “poltrone”, peraltro concetto triviale se si parla di politica, ma la vocazione a difendere lo Stato dai barbari, che hanno determinato la trasformazione attuale in partito della Nazione, ultimo a rompere e primo a costruire.

In momenti procellosi, questa responsabilità ha davvero rappresentato un valore, anche se la comunità politica postcomunista ha pagato un prezzo per questa responsabilità. I postcomunisti erano e sono un’àncora di responsabilità e testa sulle spalle che ha permesso al nostro Paese di non perdere tutta la già periclitante credibilità internazionale. Per fare ciò, hanno dovuto però fondersi con le istituzioni che andavano difendendo. Investendo tutto sulla credibilità non del partito, ma del Paese, hanno smarrito, nel quadro d’insieme più che nei singoli, ogni radicalità nel porre, affermare e difendere le proprie istanze.

Il partito si è fatto concavo e convesso, ha detto ai suoi infiniti non possumus, troppi “ci vuole pazienza”.

Mentre era fermo a tenere in piedi la baracca (anche dall’opposizione, dove vivaddio ci si può un po’ radicalizzare), è stato scavalcato a destra e sinistra infinite volte. Ha subìto la nascita del Governo Conte II, che non poteva fare a meno del PD, come ha subìto la sua morte ad opera dello stesso demiurgo; è diventato il maggior supporter di un progetto politico che non era il suo ed è stato l’ultimo ad abbandonare Conte, subito spalancando le braccia all’ennesima chiamata al senso di responsabilità.

Per rispetto delle compatibilità ha posposto battaglie anche scontate come la cancellazione dei decreti Salvini, ha negato una patrimoniale all’acqua di rose, ha mantenuto “quota cento”. Si è legato ai 5 Stelle con spirito da crocerossina degno di miglior causa, nell’idea che fosse una forza democratica e di Sinistra.

Il paradigma più efficace della trasformazione dell’ex PCI nel partito delle compatibilità si ha però in riferimento all’Europa. I postcomunisti sono stati fra i più continui e acritici aedi delle virtù europee, anche quando sembrava chiaro che la costruzione segnava il passo, faticando a produrre segnali tangibili e positivi per i cittadini.

Dove non si capiva a cosa servisse l’Europa siffatta, negli anni nemmeno troppo lontani dell’Europa che voleva o non voleva e del massacro della Grecia, subentrava il mantra del “senza si starebbe peggio”. Era certamente vero, ma aveva un prezzo politico molto alto e soprattutto sembrava scritto sul marmo, un marmo alla cui guardia il PD si era erto, come sempre piuttosto acriticamente, anche esprimendo la guida della Commissione con Prodi.

L’Europa ha cambiato atteggiamento anche radicalmente, per effetto del Covid e per la paura che le proteste popolari contro le politiche di austerità, il non possumus ossessivamente ripetuto, portasse i barbari alle porte dei sancta sanctorum europei in Francia e Germania. I postcomunisti ne hanno preso atto e sono andati oltre, ma hanno ben pochi meriti da rivendicare e una tendenza a essere più realisti del Re, che devono assolutamente togliersi.

Il terrore del sovvertimento dell’ordine liberale da parte degli esclusi ha messo in discussione l’ordine degli anni ’90 e la Terza Via, che hanno rappresentato il principale approdo politico della Sinistra postcomunista in cerca di identità, anche di fronte al rapido mutare delle condizioni generali. La Terza Via era un mix “governato” di privatizzazioni e restringimento dello Stato, che avrebbe dovuto risolvere alla radice il conflitto di classe tra garantiti e non garantiti, allargando la base di risorse da redistribuire. Non ha, lo dico con il rincrescimento di chi ci ha creduto, funzionato per nulla. Le privatizzazioni hanno dilapidato capitale pubblico a favore di pochi soggetti, che non hanno restituito nulla degli ingentissimi profitti in termini di servizi più efficienti. Lo Stato, che doveva diventare un grande cervello regolatore liberato del corpaccione della gestione, non ha perso solo massa grassa, ma anche quasi tutta la massa muscolare ed è debolissimo nel corpo e nella mente.

I postcomunisti non diventano “di Destra” come vuole la vulgata, non è quella a mio avviso la questione dirimente e l’aggettivo è troppo mobile per sostenere un’analisi seria. Diventano come si direbbe oggi “mainstream”, aedi dell’opinione prevalente, civile, solidale, caring.

Diventano “come tutti”, nel senso di Nanni Moretti in quello psicodramma sul postcomunismo che è “Palombella Rossa”: “Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi. Mamma! Mamma, vienimi a prendere!”.

Un po’ Garrone e un po’ Bottini, i postcomunisti sono fondamentali per fare da contrafforte quando lo Zeitgeist è troppo estremo, quando sembra avere la meglio Franti. Quando l’alternativa è il caos o una destra anarcoide e giudicata pericolosa, lì si apprezzano le virtù del buon padre di famiglia, solerte e ordinato, che non abbandona il campo nonostante le avversità. Nella tempesta si apprezza la “protezione civile della politica”, quando è la sola opzione politica se ne evidenziano tutti i limiti.

L’enfasi sulla ragionevolezza ha però pastorizzato ogni fermento creativo e radicale, ha spento il potenziale di innovazione, immaginazione, utopia che è il propellente della politica, soprattutto a Sinistra.

Anche le condotte di governo più apertamente progressiste e illuminate sono apparse appannate da una luce tecnocratica e compatibilista, che le ha rese più fioche e meno percepibili all’esterno.

È il caso di molte delle iniziative di un ottimo governo come quello di Paolo Gentiloni, composto da personalità politiche e tecniche competenti e appassionate, ma che ha pagato anche più del dovuto il fio di una marea populista montante.

Scrivevo nel 2018 su Gli Stati Generali, recensendo il libro “Le riforme dimezzate” dell’economista Marco Leonardi, uno degli artefici delle riforme economiche più illuminate del Governo Gentiloni e oggi a fianco di Mario Draghi:

“Ho letto con grande piacere misto a struggente nostalgia “Le riforme dimezzate” (Egea), il libro appena pubblicato da Marco Leonardi, che racconta dall’interno la sua esperienza nella cabina di regia delle politiche per il lavoro e le pensioni durante i governi Renzi e Gentiloni.

Leonardi è un economista liberal di vaglia che racconta con passione e invidiabile chiarezza tecnica gli anni trascorsi nella West Wing di Palazzo Chigi, a cavallo tra il piacere dello studioso di plasmare la materia e l’ebrezza del politico di fare accadere le cose, nel caso dei governi Renzi e Gentiloni di fare avanzare riforme strutturali di settori fondamentali della vita del Paese come il mercato del lavoro e il welfare. L’autore argomenta senza reticenze il razionale anche di pura ma necessaria mediazione politica dietro alcune scelte e non scelte degli esecutivi a guida PD, dolendosi a ragione di come riforme importanti, sorrette da una visione lungimirante e solidamente riformista del futuro dell’Italia non siano state comprese dall’opinione pubblica e soprattutto non abbiano portato agli autori alcun premio nell’urna, anzi.

Nelle stesse stanze che hanno ospitato il lavoro di Marco Leonardi e del suo gruppo ora si aggirano oscuri teorizzatori della guerra permanente con l’Europa e della redistribuzione lauriana (dal Comandante Achille) di risorse pubbliche inesistenti. Non solo, alla visione riformista del futuro che permea il racconto non si è sostituita una legittima visione conservatrice, ma la negazione del futuro stesso come orizzonte della politica e la sua sostituzione con il tweet non solo come forma di comunicazione, ma come misura della durata dell’azione di Governo.

Qui entra in campo la struggente nostalgia per un’esperienza politica, culturale e istituzionale, quella dei Governi Renzi e Gentiloni che, al di là del caratteraccio del Toscano, avrebbe merito molto migliore fortuna e certamente non ha meritato il public shaming che ha portato alle elezioni più pazze del mondo concepite come vendetta collettiva contro il principale partito di governo.

Sul perché di questo enorme scarto tra risultati e successo elettorale Leonardi pecca di educazione e soprattutto attribuisce a mio parere troppo potere al Governo e troppa fiducia al Paese. Troppo potere al Governo perché ormai la separazione tra fatti e percezione dell’opinione pubblica si è da lungi definitivamente consumata e le contorsioni di Di Maio & Co. per cercare di fare finta di mantenere le impossibili promesse elettorali stanno scavando un ulteriore golfo tra realtà e percezione che sarà duro da riempire. Troppa fiducia al Paese perché postula che, qualora fossero state comprese, le riforme avrebbero determinato una reazione differente da parte dell’elettorato, ipotesi rispetto alla quale sono meno ottimista. […].

Il Jobs Act, il REI, gli ITS (e la Buona Scuola e l’alternanza Scuola – Lavoro di cui il nostro non si è occupato ma che insistono sul medesimo filone riformista) ridisegnavano profondamente il modo in cui il Paese produceva e distribuiva ricchezza con un occhio alle prospettive delle giovani generazioni, ovviamente mettendo in discussioni decenni di pratiche e aspettative, dal posto fisso alla cassa integrazione infinita al figlio Dottore per tutti. Chiedevano al paese di andare più veloce, di alzarsi dal divano, in cambio di una sua maggiore modernità e competitività, ossia di una maggiore creazione e redistribuzione di ricchezza. Uno schema zemaniano nel suo dinamismo e nelle sue vene di follia che purtroppo, come troppo spesso capita al Boemo, non ha per nulla funzionato. A partire dal referendum costituzionale, il Paese ha risposto a questa scommessa con uno stentoreo gesto dell’ombrello. […].

Il primo cambiamento riguarda la stessa cultura riformista, che deve riaffermare la propria inevitabilità di fronte alle tentazioni di tanta parte della Sinistra di abbandonare ogni velleità di sviluppo in favore di un’adesione acritica alla pancia del Paese, eccezion fatta ovviamente per le posizioni sull’immigrazione. Questa scuola di pensiero, che pensa che i 5 Stelle siano dei compagni che sbagliano amicizie (ma de ché), non crede ad alcuna forma di Progresso e invidia la redistribuzione di risorse pubbliche come sola igiene del mondo: tolte tre o quattro cose del Governo attuale in fondo ne ammira il radicalismo parolaio. Essendo molto meno educato del buon professor Leonardi io penso che questa tentazione debba essere radicalmente sconfitta con gli strumenti democratici nel Congresso del PD e nel mondo delle idee con un radicalismo dello sviluppo ancora più accentuato (kudos per il coraggio di Leonardi di invocare una spesa pubblica di qualità). […].

L’Italia deve e può diventare un paese compiutamente europeo e occidentale, ma deve farlo facendo innanzitutto l’Italia, il che significa più attenzione all’economia reale (piccole imprese manifatturiere da innovare più e prima che start up) e alla geografia (territori mondo da mettere in rete e non solo incrostazioni di potere da centralizzare) di quanta ne abbiano dedicata i nostri eroi.

La terza lezione è quella di immaginare modalità nuove, efficaci ma democratiche (nel senso di veritiere e rispettose dei destinatari) per comunicare con il Paese anche argomenti complessi. Non si tratta di una questione marginale né solo di comunicazione, ma sempre più di una questione di democrazia sostanziale, per la quale raccontare sistematicamente fole ai propri elettori (per quanto deboli di mente possano essere) è e deve essere considerato eticamente sbagliato e ricevere una sanzione”.

Come risultato, la gran parte delle elaborazioni politiche più originali degli ultimi anni, dalle politiche di genere, al nuovo welfare, alle politiche ambientali e soprattutto alla più recente e innovativa messa in discussione degli assetti del capitalismo, hanno avuto luogo lontano da quell’area politico culturale che una volta era egemone e dettava l’agenda.

Il PD e i predecessori postcomunisti le hanno fatte proprie con lentezza, soprattutto quando era evidente che si trattasse di concetti ormai mainstream nelle opinioni pubbliche liberal borghesi. La legittimazione e la responsabilità hanno (forse?) rafforzato lo Stato, ma lo hanno fatto certamente a scapito della comunità politica di riferimento.

Una comunità politica tenuta insieme soprattutto dallo spauracchio dei suoi nemici.

(continua…)

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