Partiti e politici

Il Paese dei Campanacci

18 Luglio 2019

Ogni paese ha una sua personalità. Ci sono i paesi austeri, dove trovare un sorriso è raro come un ciclamino nel Sahara, paesi caotici dove è impossibile coordinare tutto ciò che sta nel metro quadrato in cui ti muovi, paesi enigmatici dove non si riesce a capire cosa potrà mai pensare chi ti sta davanti. E così via. Il nostro paese sembra avere la vocazione a essere un’operetta continua, senza fine. Lo tuyo es puro teatro, come dice un bolero de La Lupe.

Già la monarchia del Montenegro, imparentata colla monarchia italiana – Elena del Montenegro fu la regina consorte di Vittorio Emanuele III di Savoia – , fu sferzata dalla parodia nella Vedova Allegra di Franz Lehár, dove il piccolo principato si trasfigurava in Pontevedro. Che l’allusione fosse chiara si deduce anche dal fatto che, inoltre, nel Medioevo il Montenegro si chiamava Zeta, che è anche un fiume che lo attraversa, e il barone Zeta era il nome dell’ambasciatore pontevedrino a Parigi. Un principato perfetto per un’operetta.

L’operetta è un genere dove confluiscono vari aspetti dell’opera – quest’ultimo prodotto tipicamente italiano – ma in maniera leggiadra e parodistica, spesso disincantata, il sentimentale si sposa col caricaturale, l’eroico viene messo in ridicolo, il tragico diventa grottesco, per prendere in giro una società borghese sempre più emergente e dominante dall’Ottocento in poi, un po’ come la commedia cinematografica italiana degli anni ’60 del Novecento.

L’estate, la stagione in cui siamo, si presta anche a festival dell’operetta all’aperto o al chiuso, a dimostrare che è, ancora, uno spettacolo molto amato e apprezzato dal pubblico ed è per questo che lo stiamo trattando qui ed oggi. In fondo, prima la tradizione italiana, come qualcuno urla scompostamente e rumorosamente qui e là!

Ma la Vedova potrà essere sempre allegra? Chi è davvero questa vedova e soprattutto di chi è vedova? Procediamo per figuras.

Vediamo un po’ se l’Italia potrebbe essere considerata un po’ la Vedova allegra attraverso vari momenti storici. Hanna Glawari, l’autentica vedovissima riccona, era il bocconcino prelibato per tutti gli scavezzacolli e i nobilastri sul lastrico ma che non sapevano rinunciare alla bella vita. L’Italia, bella e ricca di uno sfavillante patrimonio artistico, monumentale, naturale, climatico e potenzialmente produttivo, è sempre stata desiderata da tutti. Un po’ come Hanna. Vedova per molti secoli di un monarca vero e proprio, con tanti principini, quasi tutti imparentati colle case reali europee e, in seguito, colla famigerata casa Coburgo Gotha, l’Italia si dimostrò proprio il regno ideale per le operette. E i personaggi che si sono alternati al governo dell’Italia, soprattutto dall’unità in poi, sembrano aver tenuto in alta considerazione un modello di copione da operetta da seguire.

In fondo la monarchia sabauda (e le sue frattaglie odierne che più che gossip non hanno mai generato, ah, sì, forse una quasi vittoria a Sanremo con un titolo che sarebbe potuto stare in un’operetta: Italia, amore mio, un po’ come Klänge der Heimat sta nel Pipistrello) oltre all’inutilità della stessa, puro elemento scenografico, non ha espresso mai un granché. I suoi esponenti avrebbero potuto essere benissimo dei personaggi da commedia musicale, come il Re Galantuomo e la Bela Rosin, il re nanerottolo, le varie Gradische e sciantose di contorno… Ben emulati dai successori non blasonati, siano essi dittatori e gerarchi oppure i nuovi eletti della nuovissima repubblica democratica.

I nani e le ballerine, corteo indispensabile per i regimi operettistici che hanno caratterizzato gli anni recenti della Repubblica, a un certo punto non sono bastati più. A un certo punto i personaggi principali hanno voluto scrivere di propria mano il copione dell’operetta di turno, o almeno così hanno mostrato di voler fare. Chiaro che un signor B. che aveva a disposizione sceneggiatori, registi, attori, attrici, ballerine/i, uno sciame di api operaie perennemente a disposizione, televisioni, teatri, studi cinematografici e contatti ovunque, era facilitato a prodursi nella sua operetta personale, la più straordinaria e vera che l’Italia abbia mai avuto: Il Paese dei Campanacci.

A distanza di qualche anno dai suoi regimi, acclamati da un popolo osannante amante dell’operetta, prima del finale non lieto del personaggio, si possono tracciare le vie del successo e dell’insuccesso, colla scia di danni che quell’operetta ha lasciato dietro di sé. Perché, se da un punto di vista spettacolare l’operetta era un prodotto scintillante e con molti degli ingredienti tipici e attualizzati, soprattutto i culi e le tette delle ballerine (che nell’antica operetta si intuivano, accennati dietro corsetti e calze a rete e gonne multistrato alzate al momento giusto), che al pubblico italico fa sempre piacere, dall’altro punto di vista la trama era sempre la stessa e alla fine risultava un po’ rafferma: il vecchio miliardario che cerca sempre carne giovane per le sue voglie, a volte esotica, a volte nostrana, ma sempre giovanissima. Non ci si muoveva di lì.

Ovviamente questo ha impoverito notevolmente le capacità e la creatività degli autori a disposizione, perché comunque il placet finale era sempre soggetto al padrone, in fondo di gusti scontati, mai con quel guizzo creativo e quella spregiudicatezza che invece dimostrava nel volto carsico della sua politica dove, con funambolismi apparentemente talleyrandiani (forse e più probabilmente con semplici ricatti, in uno stile molto cosanostriano) riusciva a volgere sempre il vento in suo favore. Il nuovo miracolo italiano.

Alla fine il burlesque delle cene eleganti era sempre la stessa cosa, un po’ come rivedere sempre la stessa operetta senza alcuna variante. Che barba.

E le altre operette, quelle messe in scena da chi evocava personaggi letterari carducciani, con carrocci, scudi crociati, ampolle sacre e corna celtiche (soffitta della nonna Lisa Rebaudengo svuotata e recuperata), alla fine risultavano scialbe, inabili gli autori pure di scrivere musica ad hoc e solo capaci di utilizzare un noto coro verdiano come inno. Di cui nessuno sapeva chi era l’autore dei versi… Va’, pensiero, sull’ali dorate ha la musica di Verdi, ma le parole? Chi sa realmente di chi sono? Provate a interrogare a un’adunata leghista i partecipanti, anche i dirigenti, perfino quando sono ancora sobri. Anche quelli che siedono in Parlamento. Non lo sanno.

I successori… L’operetta qui assume altri connotati e svela più aspetti circensi del previsto. Infatti si tramuta più in un varietà simile al café chantant, a distanza di un secolo preciso. Il Parlamento attuale è assolutamente fecondo di personaggi cabarettistici, quasi degni dei migliori Valeri, Totò, Macario, De Vico, Campori… solo che questi ultimi erano abili parodisti e autori, quelli invece sono comici inconsapevoli, sebbene a volte siano perfino autori. Ma la vena operettistica potenziata dal signor B. ormai sfuggita di mano, senza l’apparato spettacolare di cui disponeva il cavaliere, si muta in un karaoke da bar di quartiere, colle tristi e malinconiche conseguenze del caso. Neanche quando c’era Cicciolina si sono raggiunte le vette di cabarettismo attuali, anche perché Cicciolina era una, qui di Ciccioline e Cicciolini ce n’è un bel po’.

La caratteristica più evidente dell’attuale operetta, che si differenzia dalle precedenti, è la trama. Mentre le operette del passato erano più incentrate su amori e tradimenti di soubrette, amici fraterni, famigli, più aderenti alla tradizione teatrale ben nota, i temi delle ultime operette hanno avuto la pretesa di essere attualizzati.

E allora gli attori principali si lasciano andare a derive pseudo ecologiche, umanitarie, perfino geografiche, trasformando tutto in un gioco di spie, di sotterfugi, di equivoci nel sembiante, e rendendo lo spettacolo, secondo loro, più vivo, più interessante, più attraente. Più squallido, se fosse possibile, rispetto al passato prossimo, diciamo noi. Più squallido perché per stare in scena bisogna avere innanzitutto la stoffa e poi l’improvvisazione, grandissima arte che si raggiunge dopo lunghi studi, non si ottiene, come la maggior parte della gente pensa, dall’improvvisazione nel senso letterale. L’improvvisazione è una tecnica che s’impara sul campo dopo che si è fatto da spalla per anni al primo attore, osservandolo, studiandolo, cogliendone le intenzioni e assecondandole, per poi continuare a improvvisare sullo straccio colle proprie battute. Una tecnica sopraffina della commedia dell’arte.

Gli improvvisatori di quest’operetta attuale sono degni del bar dell’angolo, altro che di un palcoscenico così pregiato come il Parlamento, magnificato invece dal signor B.

Tanti sono i quadri dei molteplici atti di quest’operetta, e tutti sono orrendamente grotteschi, non ce n’è uno che si salva.

Una cosa da evitare, in uno spettacolo equilibrato, è l’incontinenza verbale e improvvisativa. L’improvvisazione, come dicevamo prima, è un’arte. Se si usa costantemente diventa stantia e non attrae più nessuno. Inoltre anche voler rubare la scena al primo attore, visto che tutti vogliono essere primi attori senza sapersi rassegnare al più idoneo ruolo, invalicabile per molti e per molte ragioni, di comprimari, necessita di una sapienza e di un intuito tra scena e pubblico che non tutti sono in grado di ottenere facilmente.

Perfino chi si mostra migliore di altri (ci vuole anche poco, va detto) come impatto spettacolare lo fa solo per pura casualità e per istinto, non c’è studio, non c’è un’urgenza artistica dietro. Anche se c’è uno staff agguerrito e aggressivo che lavora per lui. L’incontinenza del soggetto brucia tutto. Non basta cambiare divisa ad ogni uscita per far ridere, fatto una o due volte, l’espediente clownesco risulta rancido e il pubblico ha bisogno di qualcosa in più, reclama altro. I pagliacci occupano solo una piccola parte dello spettacolo. È pur vero che oltre a una tendenza al clownismo codesti personaggi hanno pure un’infarinatura di funambolismo e saltano sulle parole cambiandole, confondendole, restando in equilibrio precario quanto basta per illudere buona parte del pubblico che loro sono esperti acrobati. Ma è sempre più un circo di quart’ordine.

Quando qualcuno degli attori inizia a ingiuriare il collega con cui contende le tavole della scena per attrarre l’attenzione su di sé, la reazione dall’altra parte spesso è imbarazzata (o fintamente tale, ma comunque recitata male) perché lo spettacolo sfugge di mano a entrambi e non viene presa in considerazione l’economia totale dello spettacolo. È anche il narcisismo eccessivo di questi attori che frega tutto e alla fine l’operetta ne soffre.

Ci si può distrarre saltuariamente quando arrivano i diari del passeggino dall’America Latina, che sono lo straccio su cui compiere delle improvvisazioni, maldestre anche quelle, per cercare di cambiare registro.

Ma poi, alla fine, l’esperienza mancante a quasi tutti, per non dire della scarsa preparazione di partenza, e che caratterizza codesta generazione in generale, che ha fatto dell’arroganza la propria cifra stilistica, non migliora lo spettacolo, anzi lo affligge.

Una barca carica di marinai negri che sbarca nella placida Lampedusa è vista dal Capitano (non di quella barca ma del transatlantico Italy) come piena di potenziali stupratori, cosa assai pericolosa e che potrebbe far suonare tutti i campanacci sopra l’uscio di ogni casa lampedusana e quindi è tenuta alla larga per evitare una contaminazione nefasta. La Capitana, però, per dire la sua sul palcoscenico, entra di forza, con un gran coup de théâtre ed esce di scena rapidamente facendo marameo al Capitano. Ecco, lei è molto più brava del Capitano, perché sa come giocare le sue carte dal punto di vista spettacolare. Il Capitano, pur avendo un impianto mediatico di tutto rispetto, è tutto preso dai suoi campanacci, che fanno un rumore assordante soprattutto nelle sue adunate di piazza, affollate di bestiame e ruspe rustiche, e svicola facendo, contro la sua volontà, clamore nell’Impero di Russia, aprendo un altro quadro di questa desolante operetta che ci annoia sempre più.

Vedremo quali saranno i prossimi quadri e, la cosa più importante, l’epilogo. D’altro canto bisogna anche dire che non tutte le operette sono rimaste immortali come la Vedova Allegra. Qualcuna, come questa attuale, riesce male.

 

 

© Massimo Crispi 2019

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