Storia
Il «grido civile» di Milan Kundera per l’Europa
Intervistato da “la Repubblica” il filosofo Alain Finkielkraut ha sottolineato come Milan Kundera nel saggio pubblicato nel 1983 su la rivista «Le débat» diretta da Pierre Nora Un occident kidnappé, (ora proposto nel volume dal titolo Un Occidente prigioniero per Adelphi per la cura di Giorgio Pinotti) ricordi che nel 1956, “nel mese di settembre, pochi minuti prima che il suo ufficio fosse devastato dall’artiglieria, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese spedì per telescrivente in tutto il mondo un messaggio disperato contro l’offensiva russa scatenata quel mattino contro Budapest”. Il testo si chiudeva con queste parole: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”.
“L’Europa – aggiunge Finkielkraut – non è intesa come la casa di rilancio delle nazioni assassine; le nazioni vi sono difese perché prodotti della civiltà europea”.
Ci sono testi che forse un tempo avremo pensato che erano lo sguardo nostalgico su un tempo senza futuro. Tuttavia può anche capitare – e questi di Kundera rientrano in questa seconda specie, che quegli stessi testi tornino a parlare non di futuro perché la cronaca improvvisamente si incarica di ricomporre il palinsesto culturale ed emozionale del tempo presente obbligando a rimodellare l’agenda culturale.
A noi in questo tempo, ora, primavera 2022 è capitato questo e le poche parole, quanto mai preziose, di Milan Kundera forse come poche altre nel tempo recente parlano di questo nostro tempo.
Paradossalmente, o proprio a dimostrazione della loro profondità, esse sono nate in un altro tempo. O meglio sono state formulate, dette e ascoltate in un altro tempo. Ma la cronaca fa in modo che lette oggi esse si presentino come necessarie.
Un occidente prigioniero riporta per la prima volta in forma di libro due interventi di Kundera – con la cura di Giorgio Pinotti e che qui spiega e racconta – risalenti al 1967 e nel 1983.
Il primo è un discorso tenuto a Praga davanti al Congresso dell’Unione degli scrittori sul rapporto che avrebbero dovuto tenere rispetto ai “barbari” che minacciavano di invadere il Paese.
In quella occasione Kundera pronuncia un’orazione appassionata in favore del definitivo distacco della poesia dal palazzo. L’intellettuale, per poter esser considerato tale, dev’essere libero e per essere libero non può sottomettersi quand’anche il potere prometta garanzie.
Si potrebbe dire che non c’è una particolare novità in queste parole. Certamente si potrebbe ricordare le riflessioni di Foscolo, ornai nel suo esilio quando nella Lettera apologetica, fa i conti su cosa significhi il rapporto inquieto, tormentato comunque conflittuale tra l’esercizio pubblico dell’intellettuale e la invadenza del potere.
C’è un secondo tema su cui insiste Kundera in quella relazione tenuta a Praga 55 anni fa: ovvero la riflessione intorno al nodo classico di tutte le culture che avvertono il fiato delle potenze intorno.
La domanda che pone Kundera è se una cultura geograficamente delimitata, linguisticamente di minoranza, abbia diritto a perpetuarsi nel tempo e se sì perché debba aspirare ad avere una propria autonomia, rivendicarla e a che cosa alluda quel desiderio.
Spiega Kundera in quell’occasione che il problema non è rivendicare una propria autosufficienza, ma anzi avere una propria lingua significa sapere che il proprio processo di crescita nel tempo è possibile solo se si è consapevoli che la propria personalità culturale vive dello scambio, della traduzione verso di sé delle suggestioni di altre culture e delle molte pieghe delle parole. Dunque della possibilità di incrementare il proprio vocabolario alfine di acquisire maggiore sensibilità culturale.
Una cultura non cresce perché si assimila a culture più forti, ma perché dialoga con quelle e quelle si mostrano non desiderose di egemonia, ma curiose di sapere.
Il fine dell’incontro delle culture e delle lingue non è confondersi ma incrementare il set di parole con ci esprimere una gamma sempre più articolata e sempre più dispiegata di emozioni, di visioni da cui discende e consegue una percezione sempre più plurale e molteplice della realtà, del vissuto interiore, delle emozioni, delle immagini che si dischiudono, delle metafore che si creano che sono, appunto, il motore generativo di una lingua che non è solo dizionario (ovvero quante parole produce) ma enciclopedia, ossia quante immagini è capace di produrre, quanti concetti è portata non solo a creare, ma, anche, a ampliare, riscrivere, ripensare.
In questo c’è una dimensione non nazionalistica della riflessione sul rapporto tra lingua e nazione che ha un’eco nella riflessione di Kundera in ciò che nel 1946 Istvan Bibo, nel suo Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale già metteva in guardia all’indomani della seconda guerra mondiale, proprio riferendosi al rapporto tra lingua e nazione per le nazioni piccole del centro dell’Europa. «Nella particolare situazione dell’Europa centrale ed orientale – scriveva allora Bibo – l’appartenenza linguistica diviene un fattore politico e storico, ed è innanzitutto il fattore che presiede alla definizione territoriale nei confini esistenti e, in alcuni casi, alla formazione di nuove nazioni».
È qui che si colloca la riflessione sui tre tipi di Europa, su cui si sviluppa il secondo testo – è quello che dà il titolo al libro – di questo libro, piccolo e prezioso. L’intervento è pubblicato nel novembre 1983 su «Le débat», prestigiosa rivista francese, fondata e diretta dallo storico Pierre Nora che firma la presentazione di questo secondo testo. Scrive Kundera nell’esordio di questo saggio:
«L’Europa geografica (quella che va dall’Atlantico agli Urali) è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente: l’una legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica (segno particolare: l’alfabeto latino), l’altra connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa (segno particolare: l’alfabeto cirillico). Dopo il 1945, il confine tra queste due Europe si spostò ad Ovest di qualche centinaio di chilometri, e nazioni che si erano sempre considerate occidentali si risvegliarono un bel giorno constatando che si trovavano a Est. Nel dopoguerra si sono quindi delineate in Europa tre situazioni fondamentali: quella dell’Europa occidentale, quella dell’Europa orientale e quella, la più complessa, della parte d’Europa situata geograficamente al centro, culturalmente a Ovest e politicamente a Est» [p.45; i corsivi sono miei].
La tesi sostenuta con passione da Kundera – riprendendo e rielaborando quello che era venuto dicendo a Praga nel 1967 – è che un’Europa che rinunci alla propria componente culturale eterogenea sarà destinata a restare sempre monca, mutilata della ricchezza essenziale che le differenze culturali e storiche delle proprie nazioni comportano.
Torna in quel testo del 1983, ancora una volta il riferimento implicito alla riflessione di István Bibó almeno in due aspetti: il primo è la dimensione puramente statuale sovranista si direbbe in un gergo attuale in cui le realtà statuali dell’Occidente pensano Europa,(un paradigma che ha una lunga storia e che a suo modo Marc Bloch aveva già individuato a metà degli anni ’30 nel suo Problemi dell’Europa e su cui recentemente è tornato a riflettere Carlo Ginzburg); il secondo riguarda il percorso inquieto del costruire Stati-nazione nel centro dell’Europa su cui appunto nel 1946 invitava a riflettere István Bibó proprio nel tentativo di trovare una soluzione che soddisfi in maniera equilibrata il principio della demarcazione etnico-linguistica ossia trovare soluzioni democratiche ai problemi etnico-linguistici ed ai nazionalismi di questa parte d’Europa.
Ma quel percorso significativamente rimette al centro una discussione che a metà degli anni ’80, proprio in conseguenza del testo di Kundera pubblicato su «Le débat», su cui forse non sarebbe sbagliato riprendere in mano, in un qualche modo rimettendo in corsa un percorso che allora si delineò, ma che poi si è in un qualche modo eclissato. Il nodo stava nelle parole con cui Kundera chiude la sua riflessine.
«In relazione al suo sistema politico, – scrive Kundera – l’Europa centrale è l’Est; in relazione alla sua storia culturale, è l’Occidente. Ma l’Europa sta smarrendo il senso della sua identità culturale, sicché non vede nell’Europa centrale che il suo regime politico; in altre parole: non vede nell’Europa centrale che l’Europa dell’Est» [pp.73-74]
Una sollecitazione [ma anche, si potrebbe dire, «un grido»] che allora mosse Czesław Miłosz a sollecitare un confronto appunto sulle culture del centro dell’Europa, ma che dice che sta in questa partita anche che quello che oggi appare come il confronto spesso non amichevole tra le realtà nazionali dell’ex blocco sotto controllo sovietico rispetto all’Europa occidentale, condensata nel blocco di Visegrad. O nella riflessione sui compromessi e gli elementi culturali solo apparentemente risolti nella mediazione che nel settembre 2019 ha varato la risoluzione sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa.
Partita in parte non risolta, ma anzi esasperata, anche qualora quel passaggio verso l’Europa occidentale si sia formalmente compiuto, ma non culturalmente metabolizzato su cui Timothy Garton Ash era già intervenuto nel 1986, sulla scia delle considerazioni di Kundera del 1983 e su cui di nuovo interviene nel 1999 intorno a ciò che chiama l’enigma dell’Europa centrale.
Per altri percorsi, ora quel tema, torna ad essere non solo centrale ma anche sempre più ineludibile indicando una questione di lunga durata che Milan Kundera aveva nei fatti già descritto quaranta anni fa (per poi inabissarsi) e, contemporaneamente, caricandosi di una necessità di soluzione culturale che ancora, se soffocata dentro la partita del confronto tra «sfere di influenza», può rischiare di perdersi nuovamente.
Il tema è la «piccola nazione» e la sfida è contemporaneamente l’orgoglio nazionale e la consapevolezza che quel sistema di creatività culturale che Kundera circoscrive nel ventesimo secolo vive contemporaneamente di una condizione locale di incertezza, ma anche di un circuito di scambi culturali in cui le culture dei nazionalismi della prima metà del XX secolo hanno fatto di tutto per schiacciare.
Una parte rilevante, comunque imprescindibile, della coscienza europea si è formata nelle opere letterarie, filosofiche, culturali del centro dell’Europa (dal giovane Lukács, a Franz Kafka, da Milosz a Karl Polanyi, a Jan Potocka). Non si tratta di “scusarsi” o di dimettersi dalle identità nazionali.
Andare in cerca di Itaca, perché inevitabilmente quel percorso di ricostruzione è anche (non solo) un sentiero di «ritorno a casa» non è salvifico se volto alla riscoperta e orgogliosa e del proprio «particulare».
Non sarà il sentimento della «cozza attaccata allo scoglio» che consentirà di pensare e progettare domani, anche se quel passato e quella consapevolezza di identità saranno indispensabili per provare a definirlo e dargli un volto. Non sarà né sposando né rinnegando il passato, che si costruirà futuro. Anche per questo serve un «grido civile», non solo per invocare, ma anche per mettere in guardia.
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