Storia
Il Giorno della Memoria, tra le macerie di Gaza e l’Italia dei saluti romani
Quando il Giorno della Memoria della Shoah fu istituita per legge, con voto unanime del Parlamento, nel 2000, eravamo in un’altra Italia, e in un altro mondo. L’11 Settembre era di là da venire, e il processo di pace in Medioriente sembrava sul punto di realizzarsi. Questa, almeno, era la percezione del mondo. Di sicuro non era ancora avvenuta la famosa passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee, allora leader del partito di destra Likud subentrato a un Netanyahu da poco sconfitto alle elezioni. Quella “passeggiata”, volta a rivendicare l’unità “ebraica” di Gerusalemme e la sua indivisibilità, diede il là alla Seconda Intifada palestinese, realizzata principalmente per mezzo di attentati suicidi su territorio israeliano ed essa, di fatto, pose fine alla speranza di pace in Israele e Palestina, mostrando invero quanto fragili fossero le intenzioni di pace da entrambe le parti, almeno a partire dall’assassinio di Rabin, avvenuto circa cinque anni prima.
Per stare a casa nostra, in quel luglio del 2000 in cui la legge venne approvata, governava un centrosinistra di fine legislatura, guidato da Palazzo Chigi da Giuliano Amato, che era succeduto a D’Alema, che a sua volta aveva preso il posto che era stato di Romano Prodi, candidato premier del centrosinistra uscito vincitore dalle elezioni del 1996. A guidare la destra italiana in un cammino ancora iniziale di allontanamento dalle radici fasciste era allora Gianfranco Fini, che tre anni più tardi, in visita al Memoriale della Shoah di Gerusalemme, lo Yad Vashem, avrebbe definito il fascismo “male assoluto”. Ancora, sempre per provare a tratteggiare quel tempo così diverso, eppure certo non remoto, la fase iniziale dell’integrazione europea era ancora vissuta con entusiasmo diffuso, o quantomeno con ottimismo. Non c’era ancora l’Euro, cui dare la colpa di ogni male, e l’Unione Europea si consolidava, e puntava ad allargarsi, ancora immersa nel brodo di coltura della fine della Guerra Fredda e della Caduta del Muro. Il Novecento sembrava allora solo un secolo di violenza politica da ricordare in modo che non capitasse “mai più”, e gli eredi di quelle storie erano impegnati a rendere presentabile il proprio passato, mentre sempre più blandamente rinfacciavano agli altri le colpe storiche di pertinenza. Nelle pieghe della storia si perdono dettagli rivelatori, perlomeno interessanti. Nessuno ricorda che l’unico astenuto al voto che istituì il Giorno della Memoria fu Lucio Colletti, deputato di Forza Italia e, ben prima, importante filosofo della storia di solida formazione marxista, evidentemente oggetto di operosa autocritica, che spiegò la propria “non adesione” con la mancata condanna contestuale di tutti i totalitarismi, e non solo di quello che appunto si votò allo sterminio del popolo ebraico.
Era davvero un altro tempo che tuttavia, in forza delle molte distanze e delle poche pertinenti assonanze, vale la pena di ricordare oggi, mentre siamo prossimi al 27 Gennaio, giorno dell’anniversario della Liberazione di Auschwitz e celebrazione internazionale della Memoria della Shoah. Un’istituzione memoriale e culturale che attraversa ormai da anni una crisi lunga, dalle molteplici radici, ben raccontate sulle nostre pagine da David Bidussa. Quest’anno, tuttavia, il prossimo e ormai vicino 27 gennaio cade nel mezzo di un ciclo di eventi storici e di fatti di cronaca particolarmente dolorosi e significativi. Questo 27 Gennaio, infatti, più di ogni altro che l’ha preceduto, è il perfetto anello di congiunzione tra il passato di sterminio subito dal popolo ebraico e un presente di colpe ed errori dello stato d’Israele, a prezzo della vita di qualche decina di migliaia di palestinesi negli ultimi tre mesi. Inoltre, per stare ai fatti della politica italiana, si celebra dopo una serie di manifestazioni pubbliche di impronta neofascista e nostalgica, in un paese governato dall’ultima figlia di quella tradizione politica, Giorgia Meloni, e con un presidente del Senato, Ignazio La Russa, che orgogliosamente si rifiuta di fare dell’antifascismo un dovere nè, tantomeno, un proprio dovere. Le materie sono magmatiche e delicate, e tuttavia proprio per questo necessitano di essere osservate da più vicino.
Partiamo da lontano, cioè appunto dal conflitto Israelo-Palestinese, dal massacro del popolo di Gaza, iniziato in risposta – ma è sempre più difficile pensare che non sia per vendetta, mano a mano che passano i giorni e si accatastano i morti palestinesi – dopo l’abominio terroristico compiuto da Hamas lo scorso 7 Ottobre. L’interazione psicologica e politica tra quel che succede in Israele, e quel che fa Israele, e il ricordo della Shoah, è da sempre problematica quanto inevitabile. È spesso un cortocircuito logico, al quale tuttavia non è possibile e forse neppure giusto sottrarsi. L’incommensurabilità dell’orrore della Shoah, una colpa tutta europea, e nello specifico nazista e fascista, ha spesso conflitto, nella memoria pubblica, col diritto del popolo palestinese di avere uno stato senza che questo negasse a Israele la propria legittima esistenza. È un conflitto lungo, che ha preso corpo in molte forme, o meglio formule. Ne possiamo sommariamente elencare alcune.
La prima è quella che dà per assodato che Israele, come Stato storico nato nel 1948 nel mezzo del Vicino Oriente, esiste “perchè c’è stato l’Olocausto”. Senza di esso non ci sarebbe mai stato, e in questo discorso si lascia intendere, quasi naturalmente, che la nascita di Israele è stata un male e un errore, e lo sarebbe stata in ogni caso: solo che dopo l’Olocausto agli ebrei non si poteva dire di no. È un pensiero semplificatore che certo coglie l’enormità della Shoah e l’inevitabile capacità di fare la storia di ciò che è enorme e incommensurabile, ma dimentica mille pieghe e anse della storia pregressa: il secolare percorso di immigrazione di un popolo, quello ebraico, verso una terra, quella di Palestina, e molte altre cose, che stanno a stento nei libri degli storici, per tante che sono. In questo modo, selezionando i fatti di prima sulla base delle passioni di dopo, si finisce col relativizzare il dovere del ricordo dell’Olocausto, perchè da quel genocidio sarebbe nato un grave torto storico, o addirittura un altro genocidio, a danno del popolo palestinese.
Il secondo pensiero relativizzante, diffuso, si chiede: “Ma com’è possibile che proprio gli ebrei, che hanno subito il più grave, organizzato, industrializzato genocidio della storia, non si rendano conto del dolore che provocano regolarmente, da decenni, ai palestinesi?” Anche in questa domanda ci sono semplificazioni e omissioni, che qui non c’è modo di trattare. Ma di certo coglie un punto vero, che è la marginalizzazione del valore universale della Shoa, e della lezione permanente di ogni genocidio, proprio al cuore del popolo che l’ha subita. E tuttavia – semplificazione per semplificazione – a questa domanda retorica si può e si deve rispondere con un’altra domanda retorica: “Da quando il male subito rende necessariamente migliore chi lo subisce, o chi teme di poterlo subire ancora?”. Vale per ciascuno di noi, e per quel noi che sono i popoli e le nazioni. Sarebbe bello che fosse così, naturalmente. La terra sarebbe un posto migliore, se ogni torto subito rendesse immuni dal farne subire altri. Ma non è così, e lo sappiamo tutti, soprattutto se guardiamo a come vive ciascuno di noi.
Il terzo e ultimo pensiero che, più o meno consciamente, punta a svuotare il Giorno della Memoria del suo carico di dovere morale congiunge in maniera naturale il passato della Shoah con il presente dello Stato d’Israele per dire che “il senso di superiorità” del “popolo eletto”, il loro bisogno di essere “separati” dal mondo trova oggi una manifestazione più nitida e cruenta ma, in fondo, è sempre esistito. In fondo, per dirla tutta, oggi se la stanno cercando, e da sempre se la sono – almeno un po’ – cercata. Naturalmente in pochi tra noi sono disponibili a dirla così, piatta e netta, per fortuna. Ma sotto, tolto qualche strato di pelle morta e pudore, spesso, troppo spesso, si trova questo.
Capita molto spesso in persone che si sentono e si dicono “di sinistra”, si sentono con sincerità appartenenti al campo progressista – qualunque cosa voglia ancora dire – e che sinceramente e orgogliosamente sfilano ogni 25 Aprile dalla parte della ragione (lo faccio anche io, orgoglioso di avere ragione).
Sinceri antifascisti, dicevamo, in un tempo e in un paese nei quali di antifascismo continua a esserci davvero bisogno. Pensate alle celebrazioni per l’eccidio di Acca Larentia, poche settimane fa e ai saluti romani in piazza nel celebrarli. Al silenzio delle istituzioni eccezioni fatta per le parole, naturalmente giustificazioniste, di Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato. Lo stesso La Russa che, in una commemorazione della Shoah al Binario 21, con la senatrice a vita e sopravvissuta alla Shoa Liliana Segre, ha liquidato come “svilimento” la richiesta di professione antifascista – manco non fosse stato il Fascismo a proclamare le Leggi Razziali che hanno portato Liliana Segre e altre decine di migliaia di ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti. Con un tempismo sicuramente casuale, ma certo carico di spezie, è dei giorni scorsi anche una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, chiamata a valutare la legittimità di una condanna penale per il saluto fascista, esercitato da alcuni militanti, in un’occasione analoga a quella che celebrava il ricordo di Acca Larentia, ha rimesso il giudizio alla Corte d’Appello, chiedendo di valutare l’esistenza “in concreto” della possibilità di ricostituzione del partito fascista, proibito da Costituzione e leggi ordinarie. Le questioni giuridiche sono per definizione complesse e opache, almeno fino a quando non si possono leggere le motivazioni (ed è questo il caso, al momento): tuttavia non è mai tardi per svegliare di sistemi di allarme, tanto più che c’è il Giorno della Memoria.
Una celebrazione, quella del 27 Gennaio, che serve a farci sentire tutti, ma proprio tutti, potenzialmente responsabili, e perfino colpevoli. Che serve a ricordarci che la generazione dei nostri nonni ha lasciato che questo fosse, senza muovere un dito. Senza paura di dire che chi ha perso in un crematorio i suoi, di nonni, non ha sempre ragione. Può avere torto e commettere crimini, ed è diritto e dovere del mondo dirglielo, se è così.
E mentre noi ammettiamo le colpe della nostra storia e ce ne facciamo carico, è possibile e giusto chiedere ai figli e ai nipoti delle vittime della Shoah di non essere carnefici: e poco importa se una carneficina non è, giuridicamente parlando, un genocidio. Tutti i genocidi sono crimini contro l’umanità, non tutti i crimini contro l’umanità sono genocidi: ma restano crimini contro l’umanità.
Proprio guardando un film sull’Olocausto, una trentina di anni fa, abbiamo imparato che chi salva una vita salva il mondo intero. Resta l’insegnamento più importante, la ragione prima e ultima per la quale, contro il vento che tira da ogni lato, il Giorno della Memoria va difeso dall’oblio.
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