Storia

Il giorno della liberazione, al bivio della libertà

25 Aprile 2021

Sul “Corriere della Sera” di stamani, Carlo Verdelli scrive un lungo e denso intervento (dal titolo La memoria perduta e quel «grazie» non detto) in cui sottolinea come il tempo che si aprirà da stanotte, quello del lento rilascio delle regole restrittive da Covid, non sia così estraneo con ciò che il 25 aprile permette che si inauguri.

È uno spunto che trovo saliente che consente di guardare al 25 aprile stando dentro e oltre la scena, guardandola come risultato, ma soprattutto come occasione e opportunità. Ovvero: partendo dal dopo, dalle sfide che apre e dalla loro presa in carico da parte dei contemporanei.

 

Scrive Hannah Arendt nelle prime pagine del suo Sulla rivoluzione che occorre distinguere tra liberazione e libertà, perché, scrive, «la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente». E poi aggiunge:

«il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà. Tuttavia, se queste ovvietà vengono frequentemente dimenticate, è perché la “liberazione” è sempre apparsa come una cosa grandiosa e la fondazione della libertà è sempre stata incerta, se non del tutto inconsistente».

La liberazione è sempre apparsa un atto dirompente, entusiasmante. La fondazione della libertà, invece un processo complicato, una scena incerta carica di incognite.

Per questo a ragione, se non misinterpreto, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli invita a pensare il momento della liberazione, Il 25 aprile, più che come un luogo di memoria, come un’opportunità per riflettere sul presente.

Forse mai come oggi questo è vero.

Mi spiego meglio.

Libertà non è «liberi tutti», ma è la possibilità – questo è ciò che è consentito dalla liberazione che si incontra con l’intenzione, ovvero la volontà, di stabilire un patto in cui tutti gli attori si sentano parte del progetto di futuro.

Non una «memoria condivisa», ma l’intenzione di produrre e definire un percorso di costruzione, che guarda la condizione da cui si esce come la fine dell’oppressione e chiede a tutto gli attori di sottoscrivere un accordo.

Perché questo sia possibile non è indispensabile essere d’accordo sul fine dell’azione, ma considerare e assumere che la condizione che si aprirà, pur con tutte le incognite, può essere meglio del prima e comunque solo scommettendo sul futuro si riesce a dare un senso anche alle incertezze del presente.

Quella possibilità non nasce da un atto di fede. All’apposto: si origina dalla determinazione a dare un volto nuovo a un nuovo inizio, che come tale non è il ripristino di ciò che c’era prima, ma l’assunzione della sfida.

Forse mai come questa volta quella coppia liberazione/libertà assume la dimensione di una scommessa di futuro.

Possiamo domani (letteralmente: 26 aprile 2021) decidere, ritornando lentamente a prendere confidenza con alcune cose che a lungo sono state interdette o, meglio, «sospese» che si tratta di restaurare la condizione di prima e dunque considerare il tempo, che per molti aspetti non è assolutamente finito, come una parentesi da dimenticare rapidamente.

Oppure possiamo essere consapevoli che si tratta di stringere un nuovo patto di futuro in cui ridurre le disuguaglianze che nei mesi scorsi sono aumentate, in cui avere una dimensione di futuro possibile, «sostenibile».

Un futuro fondato su un nuovo patto che si faccia carico di una nuova consapevolezza di coabitazione con la scarsità delle risorse, con la necessaria condivisione di comportamenti e di preoccupazioni. In breve di un nuovo «patto per lo sviluppo». E dunque un patto che si dimette da una visione complottista e vittimaria del presente.

Di nuovo come molti anni fa quel 25 aprile 1945 la liberazione ci lascia al bivio delle scelte da compiere.

Possiamo essere dirompenti e dunque fermarci alla presentazione del conto da soddisfare subito. Chi oggi scandisce lo slogan “io apro” non ha il futuro in testa. È mosso dall’ansia di recuperare il tempo perso.  Pensa che futuro sia vivere oggi.

Chi con molti dubbi, non si tira indietro e prova a ripartire, non può non pensare a che cosa significhi costruire insieme, pensare futuro non solo per sé, ma per chi verrà dopo. Il suo tempo non è ora è il futuro possibile, sostenibile, condiviso.

A ben vedere questa divisione non è cominciata ora, ma molti anni fa.

Tutte le volte che in questi ultimi venti anni, almeno, ci si è posti la domanda intorno al futuro che vogliamo siamo stati riportati a questo bivio.

Il 25 aprile possiamo avere uno sguardo rivolto al passato, ricordandoci da che cosa ci siamo liberati. Ma poi verso sera, inizia un diverso sguardo.

In quel momento il tema non è più cosa abbiamo alle spalle, ma che cosa abbiamo di fronte e che cosa vogliamo.

Lentamente la forza prorompente della condizione di liberazione, chiede che trovino spazio domande intorno alle forme, alle parole, ai percorsi per dare un volto alla libertà. Se la scena rimane a guardare l’istante della liberazione, il rischio è il fascino di fermare il tempo: per qualcuno quello di poter tornare indietro e annullare di poter altro quello d’indugiare affascinati per ciò che poteva essere e che invece non è stato. Per tutti un disincanto, e un rifiuto di quel momento di rottura. In ogni caso un culto dell’eccezione, senza fare i conti con ciò che siamo, con le difficoltà e i vincoli che abbiamo, coltivando un’immagine prometeica della storia che si nutre di eroi, o di «invincibili», ma non assume gli umani, le donne e gli uomini per ciò che sono, per le difficoltà che vivono, per le incertezze che li attraversano. In una parola per la vita.

Ripreno da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli:  buon 25 aprile, con un pensiero rivolto alle sfide che si aprono il 26 aprile: quelle di allora (1945), ma anche, e forse soprattutto, quelle di ora (2021).

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