Storia

Il declino della “Giornata della memoria” e il calendario civico che verrà

20 Dicembre 2023

La “Giornata della memoria” ha ancora un futuro?

Forse occorre una ridiscussione di alcune parole chiave che hanno accompagnato la riflessione pubblica nel tempo della “Giornata della memoria” (ovvero dal 2001 in poi).

Tra queste parole, in relazione alla “Giornata della memoria”, una ha la sua centralità: “genocidio”. Insieme non sarebbe improprio aggiornare contenuti, temi e riflessioni intorno a: “crimini di guerra”, “pogrom”, “colonialismo”, “crimini contro l’umanità”, “pulizia etnica” “apartheid”, “diritti umani”.

Una costruzione di percorsi di formazione sugli statuti di quei lemmi (come si formano, di quali esempi, immagini e avvenimenti si servono per definirsi;….) sarebbe un intervento necessario.

Ripeto la domanda: la “Giornata della memoria” ha ancora un futuro?

Non penso.

Almeno per tre diversi motivi. Nell’ordine: storico-strutturali; culturali; congiunturali. Tutti, in modo diverso concorrono a definire un passato ricordato, rivissuto nel presente in funzione di un futuro auspicato e non inquieto rispetto alla propria identità.

 

Motivi storico-strutturali

La “Giornata della memoria” ha fatto il suo tempo (altra questione, non di minore rilevanza è se abbia soddisfatto le attese, ma su questo ci tornerò nel paragrafo dedicato ai  motivi culturali).

Individuo due questioni: la prima riguarda la dimensione pubblica; la seconda riguarda le pratiche, a cominciare da quella apparentemente «ultima nata», ovvero i “viaggi di memoria”.

La prima.

La “Giornata della memoria” ha fatto il suo tempo. Non lo dico io. L’ha scritto, molto meglio di me, anni fa Tony Judt nel suo Dopoguerra Per la cronaca era il 2005 (la traduzione italiana è di anni dopo; ma per i curiosi, e soprattutto per chi pensa che leggere un libro di mille pagine sia una perdita di tempo,  è importante rileggere, almeno,  le ultime pagine dell’“Epilogo” di quel libro).

L’istituzione della “Giornata della Memoria” inaugura un tempo in cui l’Europa è alla ricerca di un suo calendario civile che prescinda dalle singole storie nazionali che alluda a principi. La data del 27 gennaio ha questa valenza.

La crisi del progetto europeo, cui stiamo assistendo da anni, implicitamente è connessa con la sua messa in discussione.

La “Giornata della memoria” – deliberata nel gennaio 2000 a Stoccolma alla conferenza internazionale sull’antisemitismo – è statuita in funzione di dare una data per la definizione di un calendario civile dell’Europa in costruzione che abbia a funzione di dialogare con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Al di là della data scelta, il criterio ha un senso: nessuna collettività nasce e ha consapevolezza di sé se non costruisce un calendario civile volto a rendere simboli i valori su cui dice di essere nata.

E allora mi chiedo: è ancora questo il profilo che sottostà alla decisione di varare la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa? Non credo.

Non discuto la legittimità di quella data, discuto l’impianto culturale e politico con cui si è imboccata quella strada.

Nella scelta del 27 gennaio stava il principio che una data europea non corrispondeva ad una storia nazionale, ma alla definizione di un principio culturale. Nella scelta del 23 agosto 1939 sta un elemento nazionalistico.

In altre parole: l’Europa che si voleva costruire nel 2001 mirava a dotarsi di un profilo universalistico; quella che sottintende la scelta del 23 agosto 1939 ha un impianto sovranistico. Entrambe vogliono esprimere il rifiuto e la critica del totalitarismo: la prima verso una piattaforma che riguarda “chiunque”; la seconda esalta l’identità del proprio gruppo di appartenenza.

La prevalenza oggi di questo secondo criterio è quello che spiega il silenzio che circonda la ripresa dell’antisemitismo in Europa in nome dell’identità europea (per esempio in Polonia) e soprattutto la velocità del fenomeno.

La seconda.

Se la memoria è un atto e non un fatto, il “viaggio di memoria” (come attività di didattica civica e di didattica attiva) è un atto generativo di cui ancora ci sfuggono le molte possibili risorse e i “documenti” che esso è in grado di generare.

Una possibilità di futuro, dunque, starà qui e si raffigurerà in due operazioni distinte.

1): costruzione delle procedure del viaggio che non siano solo concentrate sulla mèta, ma che prendano in considerazione il tempo antecedente, quello del viaggio vero e proprio, ma anche quello della preparazione al viaggio, così come pure il tempo successivo, il tempo del ritorno e poi quello della ripresa della propria quotidianità.

2): capacità di costruire repository di documenti in grado di far interloquire linguaggi e codici diversi, ovvero di guardare come si compone il rapporto tra elaborazione della memoria, costruzione della narrazione della storia e riflessione su ciò che ereditiamo dal passato e, soprattutto, che cosa tratteniamo e in quale ordine lo comunichiamo, come lo rendiamo fruibile e utilizzabile.

Se i “viaggi di memoria” sono immersioni in un altro tempo segnato dalla ripresa delle intolleranze, allora la loro funzione è solo quella dell’“intervallo”. Come lo sono le vacanze, per intenderci.

 

 

Motivi culturali

L’atto di memoria da una parte implica che si facciano cose e non che ci si limiti a commemorare scene e, dall’altra, lavora perché, nel tempo, ciò che si fa corrisponda anche alle emozioni che si hanno. L’atto di memoria non è solo un gesto concreto, ma rinvia anche a una storia culturale che contiene variazioni e modifiche nel tempo.

Questa doppia dimensione ha avuto corso in Italia? Ne dubito.

Per due dati molto essenziali che qui provo a riassumere.

Il primo: al centro della “Giornata della memoria” non stanno le vittime o i sopravvissuti. Al centro della “Giornata della memoria” stanno i carnefici e ancora meglio la “zona grigia”. In breve, sta il corpo grosso della società di allora e degli eredi della società di allora, ovvero le società civili e politiche di ora.

In quel momento di riflessione i momenti forti ed essenziali non sono dati dai sopravvissuti ma dai percorsi di educazione alla cittadinanza, di sensibilità alle discriminazioni che quelle realtà sociali e politiche che hanno messo in pratica i genocidi o li hanno sostenuti, e dunque resi possibili. Quel giorno avrebbe avuto un senso se avesse posto al centro questa dinamica.

Si potrebbe anche osservare che quel tema era all’ordine del giorno da molto tempo. Una delle prime voci a proporlo è stato Albert Camus nel marzo 1946 (l’occasione è la conferenza – dal titolo La crisi dell’uomo – che tiene a New York e poi ripete in molte altre città degli Stati Uniti tra marzo e giugno 1946) quando dice, a proposito del genocidio (il testo è compreso in Albert Camus, Conferenze e discorsi, Bompiani):

“La comunicazione è ciò che oggi dobbiamo tenere vivo per difenderci dall’omicidio. Per questo, ora lo sappiamo, dobbiamo lottare contro l’ingiustizia, contro l’oppressione, contro il terrore, perché sono questi tre flagelli a far regnare il silenzio tra gli uomini e alzare tra di loro barriere. Abbiamo passato una lunga notte, adesso sappiamo cosa fare di fronte al mondo dilaniato dalla crisi”.

E dunque si chiede: “che cosa dobbiamo fare?” almeno cinque cose, risponde. Ma soprattutto “Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome e renderci conto che uccidiamo milioni di uomini ogni volta che accettiamo di pensare certi pensieri: un uomo non pensa male perché è un assassino, è un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente avere mai ucciso ed è così che siamo più o meno tutti degli assassini. La prima cosa è quindi il rifiuto puro e semplice con i pensieri e con l’azione di qualunque pensiero realista e fatalista”.

Ma non è questo ciò che è stato al centro nelle pratiche della “Giornata della memoria.

Al centro sono rimaste le voci delle vittime. Il risultato è stato una dinamica in cui stava al centro il dolore, ma non era intrapreso nessun percorso di riflessione sulla crisi dell’uomo come appunto richiamava Camus.

Chi avesse dei dubbi chieda a Jan T. Gross.

 

Il secondo. la questione della memoria è stata soprattutto la questione della possibilità che storia e memoria collaborassero. Un culto acritico della memoria produce solo omelia, ma non determina crescita culturale. È stata questa la grande lezione di riflessione che ci ha lasciato Anna Rossi-Doria volta a riflettere sul valore universalistico della Shoah.

È proprio questo termine – universalistico – a costituire la questione dirimente e problematica fin dall’origine della “Giornata della memoria”.

E questa mancanza di universalismo è quella più a rischio oggi. In chi oggi si prepara a prendersi il prossimo 27 gennaio la rivincita sugli ebrei vivi, salvo rendere un omaggio di rievocazione agli ebrei morti, perché la scena di Gaza avrebbe dimostrato l’inganno, la doppiezza e alla fine l’ennesima truffa ebraica, non farà che rimettere in circolo lemmi, concetti e immagini di un linguaggio che ha avuto molta fortuna nel secondo millennio.

La lingua non è un territorio innocente. Soprattutto non è un territorio vergine o privo di allusioni. La lingua ha una storia, fatta di immagini, di fobie introiettate, di timori che il tempo deposita nelle parole che usiamo, nelle espressioni colorite del nostro linguaggio. Il nostro modo di parlare, in altri termini, è la nostra memoria. Quella memoria si è risvegliata dopo il 7 ottobre.

 

Motivi congiunturali

Poche settimane fa, Stefano Levi della Torre ha pubblicato una lunga riflessione che correva in parallelo con le scene a gaza tra fine ottobre e fine novembre 2023. Alla data del 15 novembre 2023, scrive:

«Quale messaggio daremo dalle “giornate della Memoria”, quando saremo chiamati a testimoniare delle deportazioni e del genocidio nei lager, sullo sfondo dei trasferimenti forzati, delle cacciate di palestinesi e delle stragi di Gaza? Perché questa è una domanda, implicita o esplicita, che graverà sulla Memoria. Ci ripareremo dietro l’usbergo metafisico del male assoluto, inconfrontabile con ogni male relativo, specie se fatto in nostro nome? Come declineremo la memoria della Shoah, su questo sfondo attuale? O la memoria della Shoah ricadrà su di noi, si ritorcerà su di noi in una misura mai successa prima?»

Se lo chiedono in molti pensando che la guerra di Gaza costituisca oggi l’ostacolo maggiore a uno svolgimento riflessioni in cui la cronaca di questo nostro tempo non travolga complessivamente la scena trasformando gli eredi delle vittime nei progenitori degli sterminatori.

A mio avviso la crisi della “Giornata della memoria” è in atto da molto tempo, forse dall’inizio della sua istituzione. Riguarda la dinamica stessa di quel percorso pubblico come ho cercato di scrivere sopra.

In ogni caso la domanda che pone Stefano Levi della Torre è ineludibile

Non voglio evitare di riflettere però sull’urgenza e l’attualità e dunque torno sulla domanda.

 

A Gaza sta avvenendo un genocidio?

Per una parte dell’opinione pubblica è così.

Personalmente ritengo che la risposta sia negativa. Ritengo pertinente e, dunque, non solo legittimo, chiedersi e discutere su:

·         come Israele abbia risposto all’aggressione del 7 ottobre;

·         quale sia il passato remoto e recente di questo conflitto;

·         violazioni del diritto di guerra da parte di Israele

Allo stesso tempo quella prima serie di domande ha la stessa legittimità di questa seconda serie:

·         come affrontare lo scontro con un movimento politico che si presenta come l’avanguardia armata di un popolo, ma poi si fa scudo del popolo;

·         Come valutare un movimento la cui gestione politica del territorio ha analogie profonde con l’instaurazione di un sistema politico fondato su regole proprie del totalitarismo (eliminazione degli oppositori; imposizione senza libero confronto della propria pratica di governo)

·         Come giudicare un movimento che si qualifica «di resistenza» e che adotta misure di terrorismo, ma nella gestione del confronto armato col nemico non assume la responsabilità in prima persona delle proprie azioni e, soprattutto, non distingue il nemico tra civili e militari. Ricordo che nelle storie e nelle pratiche dei movimenti di resistenza e di liberazione contro le occupazioni del proprio territorio questa distinzione ha sempre avuto una centralità e il giudizio sulla natura politica di quei movimenti aveva in questa distinzione un cardine ineludibile.

Non credo che ci sia il tempo, prima del 27 gennaio per chiarire tutte queste partite. Per cui alla fine sul campo resterà un fastidio nella convinzione che quella data sia un omaggio a quelli che una parte dell’opinione pubblica identifica con i massacratori e che trova conseguente che siano oggi assunti come esempio da quelle stesse destre che con difficoltà e con riluttanza avevano condiviso in precedenza il 27 gennaio.

In ogni caso, al di là di portare a casa il risultato politico, anche alla destra sovranista e conservatrice, per quei motivi storico-strutturali e per quelli culturali che ho provato a riassumere, interessa poco “impegnarsi” il 27 gennaio. In Italia, per esempio, come è facile capire dagli annunci, il loro sforzo sarà impegnarsi per la “Giornata del ricordo”. Ovvero intraprendere e marcare un rinnovamento profondo della memoria pubblica.

Anche per questo il 27 gennaio sarà “figlio di un dio minore” e alla fine archiviato.

Come il coppiere del faraone che “non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò” [Genesi, § 40, 23].

Diversamente: l’oblio non è mai solo l’effetto di un processo naturale (“lo dimenticò”), ma anche di un atto volontario (“non si ricordò”). Così anche per la memoria: non è solo ciò che non dimentichiamo, ma anche ciò che decidiamo di ricordare.

È iniziato un altro tempo, anche per il calendario civile. È bene prendere le misure.

 

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