Storia

Il buonuomo Lenin

30 Giugno 2018

La fine del comunismo sovietico ha consentito, ad una parte intelligente dell’opinione pubblica che si dichiarava comunista e che riponeva fiducia nelle idee che presiedettero alla rivoluzione d’ottobre, di uscire fuori da un’imbarazzante ambiguità nella quale era vissuta, quella di dovere difendere, in nome dei principi e della solidarietà marxista, situazioni che facevano a pugni con gli ideali di giustizia, di eguaglianza e di democrazia che stavano alla base della loro visione del mondo.

Finalmente, liberata dalla opportunità di lavare i panni sporchi in casa, quel pezzo di società poteva infatti permettersi di elevare critiche al modo in cui si era realizzato il comunismo nell’Europa dell’est.

Naturalmente, siccome denunciare in toto quel sistema avrebbe comportato il riconoscere di avere sbagliato, per uscire indenne dall’inghippo, si era ritagliata una versione tutta propria di quanto era avvenuto dopo la rivoluzione d’ottobre individuando nelle deviazioni staliniane gli errori del comunismo, insomma si era invertita la massima cristiana che va condannato il peccato e salvato il peccatore.

Così, la versione ufficiale, accettata anche in nome del politically correct, ha fatto di Giuseppe Stalin il mostro cattivo da condannare contrapponendolo a Lenin che poteva banalmente definirsi il “buono”; in poche parole il sistema sarebbe stato diverso se Lenin non fosse precocemente morto e se Stalin non avesse preso il potere.

Versione di comodo che viene smentita da un’attenta e fredda valutazione dei fatti che, invece, ci dicono che fra Lenin e Stalin, entrambi dittatori indiscutibili, piuttosto che una soluzione di continuità ci sia stata una sostanziale convergenza di conduzione politica, naturalmente tenendo presente fatti e situazioni che negli anni sono cambiate.

A confermarlo è il profilo, oggi ripubblicata per il tipi di Adelphi  con il titolo “Il buonuomo Lenin”, che Curzio Malaparte disegna del fondatore della Russia bolscevica.

Un libro scritto all’inizio degli anni trenta, pubblicato in Francia nel ’32, che approda solo ora in una traduzione filologicamente corretta per il pubblico italiano.

Si tratta di un saggio letterario che spezza la retorica agiografica che sull’uomo Lenin si è costruita nel tempo e riporta il padre della rivoluzione alla sua nuda realtà, quello di un fanatico, piccolo borghese, estremamente sospettoso, che costruisce a tavolino l’ordito della rivoluzione socialista.

Lenin, ci dice Malaparte, è molto distante da Marx, iin quanto il primo “ha l’ambizione di interpretare la realtà” mentre il secondo “ha la presunzione di trasformare la società” di modificare la natura umana per costruire il “comunista”.

Anche se lui amava paragonarsi a Pietro il Grande, salvo Maximilien Robespierre – Trotzkij lo chiamava proprio Maximilien Lenin – e Oliver Cromwell, Malaparte non trova nella storia personaggi che possano in qualche modo essergli avvicinati.

Individuo fondamentalmente timido, si trasforma in un uomo violento, assolutamente intransigente, che lo porta a disprezzare tutti coloro che gli stavano attorno, “ li definiva batteri della rivoluzione”, il suo disprezzo riguardava soprattutto coloro che emergevano sul terreno dell’azione verso la quale non era particolarmente vocato, Lenin identificava se stesso con il progetto rivoluzionario: non è un caso che qualche volta si lasciasse sfuggire la frase “io sono la rivoluzione”.

La rivoluzione per Lenin non nasce dai fatti o dalle situazioni obiettive ma dalle sue stesse speculazioni teoriche. La sua ossessione paranoica era quella di schiacciare gli avversari, stabilire la propria dittatura personale così da fargli affermare che “tutto ciò che utile a questo scopo, è morale”.

Meraviglia, ricordare che “all’infuori del marxismo, delle dottrine dipendenti dal marxismo, le sue conoscenze erano così limitate che non esitava ad autodefinirsi ‘un ignorante nel senso borghese del termine’”. Lenin, scrive Malaparte, era un incorruttibile che, come tutti coloro che non si lasciano corrompere né dal denaro, né dall’amore, né dalla vanità, né dagli avvenimenti è capace di commettere i delitti più orribili” . E di quelle cose orribili ne fece tante.

E se qualcuno si permetteva di ricordargli quel che di tragico avveniva nell’impero comunista, lui lo allontanava stizzito gridando che, come “funzionario burocrate”, giustificava il terrore e, in quanto era impegnato a costruire lo Stato comunista, null’altro poteva interessarlo.

A Lenin, nonostante tutto, sfuggiva il senso della realtà, al punto che quando si scontrerà con essa, se ne creerà una propria, artificiale, difesa dal suo chiudere gli occhi su quanto gli stava attorno.

Un lucido paranoico il cui vero obiettivo era il potere, e solo il potere.

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