Storia

Il ’68 come storia globale

12 Settembre 2018

Tradizionalmente si parla di ’68 secondo due modalità uguali e contrarie.

Da una parte sta la commemorazione per opera dei testimoni e dei protagonisti. Dall’altra sta la liquidazione dichiarata da parte dei loro critici. E’ una doppia celebrazione che ha scandito tutti i decenni seguiti al ’68. Entrambi, hanno una memoria  molto possessiva con quella stagione. Presumono che la loro parola sia imprescindibile.

Forse si tratta ora di inaugurare una diversa modalità.

Marcello Flores e Giovanni Gozzini con 1968. Un anno spartiacque (il Mulino) ci hanno provato riuscendo a centrare l’obbiettivo cogliendo e mettendo insieme del ’68 la dimensione globale e i molti linguaggi che lo connotano.

Dimensione globale. Non significa uniformità si manifestazione e omogeneità di durata.

La dimensione globale del ’68 significa descriverlo nei tempi che ciascun contesto di area geografica presenta. Il ’68 negli Usa, comincia molto prima di quell’anno e si chiude a metà degli anni ’70; in Germania comincia nel ’67 e si chiude nel ’77; in Italia comincia nel ’66 e termina più o meno nel ’78.

In Europa orientale, ovvero nel «blocco sovietico» inizia intorno alla fine del ’67 e si chiude in tempi rapidissimi, salvo poi aprire una nuova stagione a partire dal ’77 con Charta ’77, con le prime forme aggregative alternative in Polonia,..), in Cina il ’68, si apre nel ’66 si chiude nel ’68 e in America Latina ha tempi diversi tra anni ’60 e primi anni ’70 In Giappone nasce nel ’68 e muore nel ’72.

Linguaggi. Significa cogliere i molti segni, diversi, talora opposti che connotano quel ciclo temporale: le pratiche e le culture di neo-marxismo o la nascita delle cultura alternative, dei linguaggi di controcultura (dai giornali, ai fogli murali, alle forme di comunicazione visuale , l’innovazione nella grafica, nella musica, nell’arte.

La prima condizione che consente di inquadrare come fenomeno globale il ’68 significa dunque avere la consapevolezza di trattare linguaggi diversi, e sensibilità diverse.

Il problema dunque non è che cosa rimane nella memoria pubblica oggi, nel 2018, di quella esperienza, ma che tempo si inaugura, se quel complesso di eventi, di sensibilità, di linguaggi contribuiscono a generare un nuovo tempo. Quel temo si chiude con il ciclo delle insorgenze sociali, con i diversi riflussi (temporalmente dislocati in momenti distinti) o apre a nuove forme del conflitto? E quelle nuove forme che cosa coinvolgono. Flores e Gozzini insistono giustamente a indicare nelle forme in cui si organizza il lavoro, il carattere di ultimo momento del ’68, rispetto a fenomeni che inaugurano un nuovo tempo (per esempio il tema della delocalizzazione) , ma anche segnano un passaggio verso il tema delle risorse che la cultura del ’68 non propone e che complessivamente lascia irrisolta.

In questo senso Lo shock petrolifero e le politiche di Austerity che si inaugurano negli anni ’70 indicano che quel passaggio di generazione che siamo soliti far coincidere con le culture dell’anticonsumo del ’68 non coincidono né generano nuova idea di sviluppo.

Quando si propone la discussione sulla crisi del modello energetico , al’indomani della decisione dei paesi Opec di innalzare il prezzo del greggio (novembre 1973), ciò che si registra è un risposta che non tiene conto delle sollecitazioni che pure tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 hanno iniziato a manifestarsi.

La discussione sulla necessità di un diverso modo di intendere e perseguire sviluppo, in realtà non parte mai e resta confinata in una dimensione tra il folclorico (come realizzare un’idea alternativa della domenica) e la convinzione che quella condizione sia passeggera.

Tutti ignorano, comunque nessuno vuole prendere in carica le avvertenze delineate già nel marzo 1972 nel Rapporto del Club di Roma. Quel testo inaugura alcune tendenze che vengono esperite nell’area dell’alimentazione alternativa, di un modello di alimentazione e di stile di vita postmateriale.

E’ la prima avvisaglia del tema della sostenibilità che proverà a farsi spazio nella discussione pubblica 40 anni dopo, e ancora oggi stenta a ad essere riconosciuta come legittima (per esempio nella discussione pubblica in Italia questo tema è di fatto scomparso da almeno 6 mesi, con il nuuovo senso comune inaugurato lo scorso 4 marzo).

Da questo punto di vista il ’68 non inaugura un tempo nuovo. Non lo inaugura sulle donne, dove in effetti, e in questo senso il caso italiano è molto significativo proprio in relazione alla sfasatura temporale; non lo inaugura sulle pratiche dei consumi, o in relazione ai modelli politici della rappresentanza, perché se è vero che in gran parte si producono i movimenti è anche vero che l’idea della fine del modello del partito politico di massa come l’abbiamo conosciuto dagli anni ’20 del ‘900 in poi è l’effetto di una stagione politica in cui ciò che entra in gioco è una partita dell’identità che si inaugura con gli anni ’80.

Il ’68 dunque, sostengono a ragione Flores e Gozzini, non è quello che immaginiamo o che si è congelato nella memoria pubblica. E’ un fenomeno complesso, contraddittorio, multiforme. Testimonia della globalizzazione (che non inaugura, ma che contribuisce a rendere percepibile nella coscienza pubblica.

Ma soprattutto, insistono Flores e Gozzini a ragione, il ’68 non è riducibile a un solo volto come vorrebbero molti detrattori e forse anche molti nostalgici.

Scrivono nelle pagine conclusive Flores e Gozzini:

“La grande maggioranza delle persone che nel Sessantotto condividono l’idea di un cambiamento radicale non la traduce nella scelta della lotta armata. È quella stessa grande maggioranza a trasformare nei decenni successivi, una volta abbandonata la politica attiva, gli equilibri demografici, culturali, sociali ed economici delle società nelle quali vive. Schiacciare il Sessantotto sulla fuorviante metafora artistica degli «anni di piombo», come anche ridurlo a evento straordinario e separato dal resto della storia, significa perdere di vista quelle trasformazioni e quindi continuare a non capire la realtà in movimento di oggi. Nemmeno quella dei terroristi, tra l’altro”. [p. 238]

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