Storia

I tormenti di Montanelli

21 Giugno 2020

La statua di Montanelli è stata per l’ennesima volta imbrattata e sono stati riaperti i processi postumi non già al giornalista, cui è dedicata la statua, ma al militare Montanelli, per quanto fatto nella guerra in Etiopia. Si tratta di un processo poco sensato, soprattutto se condotto senza regole.

Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza / Indro Montanelli / giornalista / prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito” questo è il necrologio per sé stesso che Montanelli avrebbe dettato alla nipote, secondo la prefazione di Paolo Di Paolo al libro da lui curato “Nella mia lunga e tormentata esistenza – Lettere da una vita”, Rizzoli, 2012.

L’esistenza è terminata, almeno in senso biologico, ma il tormento no. Si sono sprecate nei giorni scorsi le accuse di pedofilia, schiavismo, razzismo, financo stupro.

Le regole per un dibattito ragionevole si trovano lì, nella prefazione di Di Paolo al volume da lui curato, dove viene citata una risposta di Montanelli a un gruppo di giovani che gli chiedevano conto del suo entusiasmo giovanile per la campagna d’Etiopia: “Vissi quell’avventura storicamente sbagliata (ma di questo mi accorsi dopo, a cose fatte) … Se potessi darvi un consiglio… vi darei quello di guardarvi dal giudicare col senno di oggi, cioè con quello del poi, i fatti che si svolsero in un contesto del tutto diverso, e i loro protagonisti”. Giova anche riportare la risposta che Montanelli scrisse a Di Paolo: “Credi forse che gli uomini, e specialmente quelli di forte personalità, siano riassumibili in un giudizio solo? Se così fosse, ti sfiderei a formulare quello su Giulio Cesare. Cosa fu Cesare: il più grande generale e statista, o la più grande canaglia di tutti i tempi? Fu, credi a me, entrambe le cose. Gli uomini, te ne accorgerai, sono, anzi, siamo sempre un coacervo di contraddizioni.”

Montanelli in Etiopia fece non già quello che facevano tutti, ma quello che si doveva fare per prendere moglie (a tempo, con il madamato, poi vietato dall’Italia fascista per motivi razziali) secondo gli usi e le norme vigenti in Etiopia.

In Rome do like the Romans, dicono gli inglesi e gli italiani in attesa di dare ai locali “un’altra legge e un altro Re” si dovevano adeguare.

Nel 1935 il ventiseienne Montanelli prese sì moglie, ma quella che gli proposero gli etiopi e con un contratto redatto dal capo paese in amarico (lingua ufficiale dell’Etiopia) con i genitori, che dovette pagare secondo la logica dei matrimoni combinati, costume imperante anche in Italia sino a pochi anni prima e che sarebbe comunque sopravvissuto sino agli anni ’70. Elvira Banotti in occasione della celebre intervista televisiva di Gianni Bisiach sostenne si trattasse di una prepotenza coloniale: legittimo sostenerlo e c’è ampia letteratura in merito. Da quello che è noto della storia di Montanelli però non lo si ricava.

Quanti anni avesse la sposa di Montanelli probabilmente non lo sapeva neppure lui: 12 disse in una prima intervista, 14 (età minima per la liceità dei rapporti sessuali secondo il Codice Rocco) si corresse in una seconda occasione. Di certo l’anagrafe Etiope dei primi del ‘900 non era particolarmente efficiente e i genitori che volevano collocare la figlia per guadagnare un po’ di soldi non erano incentivati a dire la verità: la gioventù era un pregio perché sinonimo di sanità in un paese infestato dalla sifilide, morbo spaventoso senza antibiotici.

A quell’età “quelle lì sono già donne” pensava Montanelli, ma probabilmente erano già donne perché avevano un’età diversa da quella che gli avevano detto. Ancora oggi, nel 2020, si dice che in Africa ogni calciatore abbia una doppia età: una ufficiale sul passaporto e una biologica, conosciuta giusto dai parenti più stretti. Non c’è ragione per pensare che fosse diverso per le donne da maritare (rectius, ahimè, vendere).

Per il resto, che ne poteva sapere allora Montanelli che l’Italia con una brusca virata sarebbe passata in brevissimo tempo a vietare il madamato per motivi razziali (il mabruchismo, lo avrebbe chiamato Graziani) dopo aver propagandato la guerra in Abissinia inneggiando all’inclusione: “Faccetta nera, piccola abissina/ ti porteremo a Roma liberata/ dal sole nostro tu sarai baciata/ sarai in camicia nera pure tu.”? L’alleanza con il nazismo nel 1938 imponeva agli italiani di abbandonare la piccola abissina, censurare una canzone che parlava di liberazione dalla schiavitù e introdurre l’apartheid nelle colonie.

Nel 1944, interrogato nel carcere di Gallarate, dopo essere stato arrestato per attività antifascista, Montanelli rispose: “Dal 1938 non appartengo più al Partito fascista”.

Espulsione dal partito fascista e dall’ordine dei giornalisti, carcere nazista, licenziamento dal Corriere, pallottole delle Brigate Rosse, addio a Il Giornale. Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza, sì: che il processo però sia equo, tenga conto delle leggi del tempo ed eviti di riassumere in un giudizio solo una lunga e tormentata esistenza.

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