Storia

I nomi degli altri

Una risposta a Ernesto Galli della Loggia

29 Marzo 2025

Dopo aver insultato (in Insegnare l’Italia, scritto con Loredana Perla), gli autori delle attuali Indicazioni Nazionali, dando loro degli “scervellati”, Ernesto Galli della Loggia riesce a ricorrere al più classico vittimismo quale risposta alle dure, e giustificatissime, critiche fatte al lavoro svolto da lui ed altri per le nuove Indicazioni Nazionali, nelle quali si legge, tra l’altro, che “Solo l’Occidente conosce la Storia”.

“In Italia è rarissimo che si possa discutere nel merito: meglio denigrare l’interlocutore. Parlo per esperienza personale”, scrive sulle colonne del Corriere della Sera. Un’affermazione peraltro in gran parte vera ma anche grazie a, e per colpa di,  persone come Galli della Loggia. Che precisa di non aver mai voluto dire che solo l’Occidente ha creato storia, e si offende perché pensarlo vuol dire, evidentemente, considerarlo un idiota. Intendeva invece dire, spiega, che solo in Occidente s’è creata “una dimensione culturale particolarissima nella quale il realismo analitico più crudo si è mischiato al profetismo sociale più estremo”. Il che significa che solo in Occidente è nato il senso occidentale della storia: che è una tesi che si potrebbe commentare con una colorita esclamazione in romanesco che risparmio al lettore.

Non gli risparmio, invece, una risposta a una provocazione – ma mi piace considerarla un’invocazione: spiegatemi, vi prego, quello che non so! – di Galli della Loggia:

“Fuori i nomi di qualcosa di simile al dialogo riportato da Tucidide tra gli ambasciatori ateniesi e i Meli o alle pagine del Principe, che non abbia visto la luce da queste parti! Fuori i nomi di qualcosa di analogo all’idea cristiana circa l’autonomia della politica dalla religione, di qualcosa che somigli alla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino che non porti il marchio della civiltà occidentale! Fuori i nomi dei luoghi della terra dove prima che in Europa ci sia stato qualcosa di simile alla decapitazione di un re decretata dal Parlamento o di paragonabile al suffragio universale!”

Bene, facciamo i nomi. Toccherà mettersi comodi.

Kauṭilya

Cominciamo dal Principe: il famoso realismo politico occidentale. Un italiano può laurearsi in Storia o in Filosofia con la convinzione che non vi sia effettivamente nulla di simile fuori dall’Europa. Può essere che si salvi uno studente di Sociologia, se gli è capitato sotto mano La politica come professione di Max Weber, uno dei grandi classici della sociologia. In cui si legge:

“Nella letteratura indiana il “machiavellismo” davvero radicale, nel senso popolare di questo termine, è rappresentato in modo classico nell’Arthaśāstra di Kauṭilya (di molto anteriore all’era cristiana, probabilmente dell’epoca di Candragupta); al confronto, il Principe di Machiavelli è un testo del tutto innocente.”1

Il termine artha in sanscrito indica il successo, la ricchezza, il potere, ed è uno dei fini della vita umana (puruṣārtha). Gli altri sono il desiderio sensuale (kama), la moralità (dharma) e la liberazione (mokṣa). Ora, anche se la liberazione è il fine ultimo, gli altri fini o scopi sono indipendenti da essa; ciò ha consentito all’India di sviluppare una raffinatissima arte erotica, di cui è espressione il noto Kāmasūtra, ma anche una non meno raffinata arte del governo, la cui massima espressione è appunto l’Arthaśāstra. Un trattato che, ad esempio, comprende una compiuta teoria dei servizi segreti e del controspionaggio – con indicazioni sui diversi tipi di copertura da usare, ma anche sulla particolare formazione da dare agli assassini al servizio dello Stato, che dovranno essere selezionati tra gli orfani – e una teoria delle alleanze militari, il Rajamandala, che molti considerano ancora attuale.

Le parti più crude dell’opera possono impressionare, ma lo scopo generale dello Stato è quello di promuovere la ricchezza e la prosperità del popolo, sul quale sarà importante non pesare troppo con un sistema fiscale vessatorio; e per questo forse possiamo considerare eccessivo il giudizio di Weber.

Il Signore di Shang

Quasi innocente appare invece Machiavelli se paragonato a Shang Yang, il Signore di Shang, nel cui trattato si trova il più feroce, violento realismo politico della storia. Vissuto nel IV secolo a.C., il Signore di Shang è stato l’artefice della travolgente ascesa dello stato di Ch’in, prima di cadere in disgrazia ed essere condannato a morte per squartamento. Il suo nome e il suo libro sono stati maledetti in Cina per secoli, esattamente come è accaduto a Machiavelli in Occidente. Cosa diceva di così sconvolgente? Che chi governa non deve essere mosso da alcuna preoccupazione etica, ma deve mirare solo all’espansione dello Stato. Che fondamento del potere sono la paura e la punizione ferocissima (frequente il ricorso alla pena di morte con pratiche particolarmente crudeli) di chiunque non rispetti le regole. E che bisogna fare in modo che il potere sia in mano alle persone più crudeli, affinché incutano paura al popolo. Lo Stato sarà impegnato in una guerra perenne; il popolo sarà dedito all’agricoltura, attività pesante che rende desiderabile la vita del soldato, unica alternativa al lavoro nei campi. Va contrastato invece il commercio e apertamente combattuta ogni forma di cultura, considerata null’altro che parassitismo. La politica, nel Signore di Shang, è del tutto autonoma non solo dalla religione, ma anche della morale.

Si dirà che stiamo dimostrando che c’è ferocia anche fuori dall’Occidente, e non è una gran cosa. È vero. Vediamo allora se c’è qualcosa sul piano opposto.

Aśoka

Mentre Roma era impegnata nelle guerre puniche in India fioriva l’impero Mauriya, uno dei più vasti della storia. Dal 268 e il 232 a.C circa fu retto dall’imperatore Aśoka che, abile generale, aveva piegato lo stato confinante di Kalinga con una guerra sanguinosissima. Secondo la tradizione il sangue versato causò in lui una grave crisi di coscienza, che lo trasformò profondamente. Da allora cercò di mettere il suo potere al servizio del bene in un modo che ha pochi eguali nella storia mondiale, come testimoniano i suoi editti. In uno di essi si legge:

“Il progresso reale ha forme diverse, ma la sua radice è la moderazione nell’esaltare la propria religione come nel criticare l’altrui religione; e il parlarne sia ben meditato, e vi sia rispetto. Si deve sempre rispetto alle religioni altrui. Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre; agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione e alle altre.”2

Mentre afferma così il rispetto per ogni forma di religione, Aśoka difende una sorta di religione laica, centrata sulla cerimonia della Pietà, che consiste nel mostrare liberalità verso gli schiavi e i domestici e astenersi dalla violenza verso gli animali. L’editto II annuncia che l’imperatore ha promosso l’istituzione di ospedali per gli uomini, ma anche per gli animali e ovunque ha fatto piantare alberi. Su una colonna scrive un avvertimento per i popoli confinanti: siano liberi da ogni paura, perché l’imperatore non vuole fare la guerra a nessuno, e “da me possono ricevere soltanto beneficio, non mai danno”3. In un editto scrive:

“È un dovere per me adoperarmi per il bene di tutto il mondo. E questa ne è la radice: lavoro assiduo e risoluzione degli affari. E non c’è opera più importante per il bene di tutto il mondo.”4

Dirà Galli della Loggia quali testi occidentali meritino di stare accanto a queste pietre miliari dell’umanità.

Mencio

Resta la questione della decapitazione del re. Nella tradizione confuciana, naturalmente opposta a quella del Signore di Shang (vicino piuttosto alla scuola dei legisti), compito del sovrano è prendersi cura del popolo, favorendone il benessere e ispirando la propria pratica al principio del ren, che include reciprocità, benevolenza e rispetto dell’altro. Solo agendo in questo modo il sovrano può contare sul mandato celeste (tianming), che è il fondamento e la legittimazione del suo potere. Un sovrano che si comporti in modo crudele e tirannico, che opprima il popolo e faccia prevalere il suo interesse personale sul bene comune non ha alcun diritto di essere riconosciuto come sovrano. La questione è chiarita da Mengzi (Mencio), uno dei più importanti pensatori confuciani:

“Mencio disse: ‘Colui che oltraggia la benevolenza propria della natura umana è detto un ladro; colui che oltraggia la rettitudine è detto un bandito. Chi è insieme ladro e bandito, lo chiamiamo semplicemente ‘un tale’, ‘un individuo qualunque’. Ho sentito dire che Zhou fu eliminato come ‘un tale’, ma non ho mai sentito dire che fu messo a morte un sovrano, nel suo caso.”5

Zhou, l’ultimo sovrano della dinastia Shang, morto suicida dopo aver dato fuoco al suo palazzo, è diventato nella Cina antica il paradigma del tiranno. E per Mencio, contemporaneo di Aristotele, un tiranno non ha più alcuna dignità regale, è in tutto e per tutto paragonabile a un ladro o a un bandito.

In un altro classico del pensiero e della letteratura cinese, questa volta della tradizione taoista, il Zhuangzi, si legge: “Il ladruncolo viene arrestato; il grande ladro diventa feudatario”6. E ancora: “Chi ruba un fermaglio è punito con la morte; chi ruba un principato ne diventa il signore”7.

La mancanza della concezione di un Dio personale legato alla figura del sovrano – lo stesso Cristo diventa presto un re celeste: il Cristo Re così poco evangelico di tante parrocchie – consente in Cina di avere fin dall’antichità una visione disincantata del potere, che è giustificato solo dall’esercizio delle virtù etiche e politiche ed è dunque revocabile quando queste vengono a mancare.

Una comune umanità

Non è infrequente che dal male venga qualcosa di bene. Anche prese di posizione come quelle di Galli della Loggia e delle improbabili nuove Indicazioni Nazionali – viziate da una chiusura identitaria che mutila il sapere – possono essere occasione per riflettere sul nostro provincialismo culturale. Perché anche chi reagisce d’istinto, indignandosi perfino, a simili affermazioni dovrà riconoscere d’aver incontrato raramente, a scuola, un punto di vista che non fosse occidentale; e che le vecchie Indicazioni Nazionali, che certo non erano zeppe di uscite imbarazzanti come quelle che ora vorrebbero sostituirle, non sono riuscite a dare alcun respiro reale alla nostra scuola. Esistono mondi culturali, là fuori. Esistono opere straordinarie, la cui lettura può renderci migliori, perché dimostra che c’è, nonostante tutto, una comune umanità, e fin dai tempi più antichi.

C’è un principio che possa guidare tutta la nostra vita?, chiedono a Confucio. E lui risponde: “Non imporre agli altri quello che non desidereresti per te stesso”8. Così lontano, così vicino. E se questo pensiero è nato dall’altra parte del mondo, tra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo, forse c’è qualcosa di radicato in noi, in grado di opporsi all’attuale ondata apparentemente inarrestabile della stupidità e della ferocia.

 


1 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, a cura e con un’Introduzione di Massimo Cacciari, traduzioni di Pietro Rossi e Francesco Tuccari, Mondadori, Milano 2018 (ebook).
2 Gli editti di Aśoka, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Adelphi, Milano 2003, p. 64 (RE XII).
3 Ivi, p. 78 (SepR II)
4 Ivi, p. 52 (RE VI).
5 Mengzi, Liang Hui Wang II, 15, in Chinese Text Progect, url: https://ctext.org/mengzi/liang-hui-wang-ii#n15
6 Zhuang-zi [Chuang-tzu], a cura di Liou Kia-Hway, Adelphi, Milano 1982, XXIX, p. 280.
7 Ivi, X, p. 86.
8 Confucio, ialoghi, a cura di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006, 15, 24, p. 189.
In copertina: Aśoka con le sue regine. Stupa di Sanchi. Foto di Anandajoti. Licenza Creative Commons BY 2.0.
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