Storia

I «giochi pericolosi» di noi europei. Ciò che dobbiamo a Clara Gallini

23 Gennaio 2017

Ci sono libri che non si dimenticano e che oggi si cercherebbero invano perché introvabili. Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista (Manifestolibri) libro che Clara Gallini, l’antropologa scomparsa sabato scorso, pubblica nel 1996 è uno di questi.

Quali sono i «giochi pericolosi» cui allude il titolo del libro di Clara Gallini?

Sono le simulazioni di innocenza al di sotto delle quali si collocano molti non detti e molti sottintesi della nostra mentalità quotidiana. Dietro dolci degustati; figure e fantocci contro cui scagliamo con violenza palle di stracci in un qualsiasi baraccone di Luna park, o immagini virtuali dei videogames che riproducono una gerarchia del mondo e dei gruppi umani; oltre la sfera delle immagini magnetiche e accattivanti della pubblicità del businness turistico esotico; nel sottofondo del messaggio televisivo sospeso tra la apparente asettticità della notizia del telegiornale e le immagini che contemporaneamente scorrono sul video e si consegnano ai milioni di spettatori che guardano una notizia, prima ancora di riflettervi, si nacondo messaggi, si codificano e si confermano molti pregiudizi che al di là dell’ innocenza oggettuale non sono affatto rassicuranti. Comunque, significati che non lasciano trasparire niente di pacifico.

Quest’ indagine all’ interno del nostro immaginario profondo, sarebbe soggetta a discussioni e a distinguo se Clara Gallini sovraccaricasse le fonti di cui si serve e il corpo documentale che utilizza come delle singole prove. Così invece non è.

Clara Gallini si serve e concentra la sua attenzione su un tipo di documentazione che potremmo anche considerare banale: i depliant delle agenze turistiche, le immagini di copertine di alcune settimanali, la sovrapposizione tra testo verbale e testo iconografico di un telegiornale o di un servizio d’ inchiesta televisivo. Documenti perdono la loro presunta o rivendicata «innocenza» una volta che li si considerino in serie, ovvero una volta che essi da singoli documenti si trasformino in monumenti.

In modi diversi e per vie non sovrapponibili le indagini di Clara Gallini proposte in questo libro – sia che essa si soffermi su un’ analisi dei fumetti, oppure decodifichi di uno spot pubblicitario – convergono intorno a un’ unica matrice generativa: l’ immagine di un mondo «altro», geograficamente lontano, in cui ciò che predomina è l’ idea di un ordine del mondo e, soprattutto, di una gerarchia del mondo in cui al massimo l’ indigeno è simpatico, o accettabile, solo se subordinato e, comunque, nel sistema scalare sopra/sotto è sottinteso che resta «un animale», forse «carino», ma in ogni caso il suo cosmo è quello della bestia.

Questo aspetto, in cui il fascino dell’ esotico si combina con il disgusto per l’ indigeno ha radici lontane nella storia della cultura italiana e non  limita i suoi effetti al solo ambito dell’ immaginario sociale.

La sua codifica avviene e si struttura già all’ interno della letteratura coloniale per poi trapassare e articolarsi più compiutamente con il fascismo.

Non solo. Dietro i codici antropologici che si celano nei materiali e nei messaggi che Clara Gallini pazientemente smonta – non ultimi quelli che si condensano nell’ immaginario filmico che ha per oggetto il mondo medioorientale e arabo in particolare – non ritorna solo un vecchio paradigma tra fascino e terrore nei confronti di un mondo spesso reclamizzato per la sua naturalezza e ridotto a spot nella ua realtà o, al più, estetizzato e vagheggiato dai cultori di un “oriente” tanto sognato quanto irreale, si ripresenta un consolidato costrutto mentale che riscopre o ripropone la virtù del «giusto mezzo» come giusta misura del viver bene.

Il mondo ex-coloniale, una volta giunto alle nostre coste inquieta e spaventa non solo e non tanto perché improvvisamente si affaccia alle nostre porte e invade i nostri spazi, ma più semplicemente e più profondamente perché ci ributta davanti e di fronte i nostri codici, li usa come strumenti, e con ciò dimostra che il sapere non è solo il risultato di una civiltà millenaria, attraverso la quale accampare diritti di supremazia.

Accanto al razzismo subliminale nei confronti del terzo mondo che bussa alle nostre porte e che noi esorcizziamo rimettendolo accanto a gorilla o a dorso di cammello nelle immagini pubblicitarie che riempiono gli spot di improbabili whiskey o di vagheggiate vacanze su spiagge inviolate, ma visitate da milioni di parvenus come noi, e fotografate sempre vuote, per offrirsi vergini a noi, si avanza un altro razzismo: quello della civiltà violata e sussunta come mera macchina nei cui confronti assumiamo un atteggiamento non meno preoccupante. E’ quello che noi rivolgiamo nei confronti degli Stati Uniti. Un’ altra realtà assunta come esotica, ma questa volta non per improbabili cammelli, ma per fantasmagorici grattacieli, che scrutiamo come la prova di magnificenza di spietati autocrati, identici in questo ai faraoni di Egitto. Un termitaio in cui l’ esotico non è più materializzato in un totem o in uno strano sgabello, o in pugnale dalla forma ricurva, ma è popolato di oggetti «disumani», dove le donne sono uomini, dove il comfort sembra farsi beffe del «naturale».

Dietro il nostro sguardo nei confronti degli Stati Uniti, una realtà assunta come un individuo storico e dunque ridotta alla sua icona inquietante di regno della tecnica e dell’ «incivile benessere»  e al di sotto del nostro immaginario nei confronti del terzomondiale, intravisto come lo stadio intermedio tra gli animali e noi, al massimo addomesticabile, ma non emancipabile, a ben vedere si cela e si conferma la nostalgia per l’idea di Europa come creatore della civilizzazione, come impero che fu e che vorrebbe tornare a essere.

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