Storia

I GAP, quei “terroristi” che riuscirono a “restare umani”

15 Novembre 2014

Con Storie di Gap (Einaudi) uscito in questi giorni in libreria, lo storico Santo Peli dimostra che si può affrontare con pacatezza, la storia di questioni controversie e spinose che suscitano reazioni emotive anche profonde. Pacatezza che discende dall’avere il  mestiere.di storico. Significa: trovare le fonti, saperle mettere in serie, saperle comparare.

La materia è sicuramente difficile. I GAP (Gruppi di azione patriottica) formazioni che come precisa Peli all’inizio del suo libro “combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, cioè sia con uccisioni mirate di singoli individui sia con attentati dinamitardi” (p. 4) non hanno occupato un gran posto nella ricostruzione storica mentre, invece, l’hanno avuto nella memoria collettiva nell’Italia degli anni ’70 quando l’agire terroristico ha ripreso denominazioni, stilemi, modalità e spesso direttamente richiamandosi a quella vicenda. Con ciò perpetuando una condizione di non luogo interessante di ricerca storica perché tutta nei risolta nei simboli a cui la memoria la riduceva.

Quella dei GAP è vicenda in gran parte urbana che ha avuto i suoi momenti alti nella prima fase della Resistenza, tra novembre 1943 e giugno 1944 e che ha segnato alcune delle azioni rimaste nella memoria pubblica: l’attentato a Via Rasella a Roma, l’uccisione di Giovanni Gentile a Firenze, gli atti contro singoli esponenti dell’esercito occupante e dei comandanti repubblichini a Torino e a Milano.

Santo Peli ha la chiarezza di analizzare la dinamica delle azioni concrete, ma anche la memoria costruita dopo, a Resistenza chiusa, memoria che spesso si fissa in scene che trasformano quella lotta in mito, in culto dell’azione, in descrizione della morte eroica. Un aspetto che in alcuni momenti rischia di assimilare quelle scelte di vita e quelle azioni al nemico repubblichino, segnato dalla ricerca della “bella morte”, convinto che quella possibilità, la morte in battaglia, esprima il riscatto.

Spiega e dimostra Peli che, a differenza dell’ansia per la “bella morte”, l’azione dei Gap – azioni clamorose, in pieno centro città, a viso scoperto – è soprattutto la ricerca di comunicare alla massa degli indecisi, che non solo scegliere è possibile, ma che: 1) la scelta non consiste in un gesto eroico e, soprattutto, 2) che il nemico, al di là dall’ostentazione della propria forza, è fragile. E il nemico è rappresentato non da figure metaforiche, ma da concrete funzioni e livelli alti del fronte avversario: sono i comandanti locali, i livelli politici alti locali della RSI, i quadri dell’esercito tedesco.

Negli anni ’70 gli obiettivi da colpire saranno invece molti fino ad assumere le regole del convinto miliziano rivoluzionario per il quale il primo nemico è rappresentato dal proprio compagno incerto, o non fermamente convinto dell’azione da compiere Insieme, a differenza dei gappisti tra 1943 e 1944.

Santo Peli insiste, per esempio, sul fatto che a Roma e, a Torino, ma anche a Milano, pur consci delle regole di clandestinità, i gappisti le violarono più volte. La necessità di socializzare, di ritrovarsi, di sentirsi vivi, era più forte di quelle regole, perché erano giovani e volevano vivere e non solo uccidere o al più essere eroicamente uccisi. In breve non si autocandidavano a divenire martiri, né pensavano di essere “i migliori” cui tutti gli altri dovessero assoggettarsi.

Così non avverrà da parte di chi, nell’Italia degli anni ’70, sceglierà di intraprendere il percorso della lotta armata. Per quella generazione lotta armata è “catechismo del rivoluzionario”. Generazione convinta che il rivoluzionario è figura votata a non dare mai mostra integrale della propria personalità, a giocare con gli avversari, a servirsi e a sfruttare le debolezze dei propri compagni.

Il terrorista che “imita” il gappista è convinto che la rivoluzione sia il bene da proteggere anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche, e talora soprattutto, contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito. Soprattutto si dissolve il vincolo di protezione reciproca che non solo aveva salvato i partigiani ma che non li aveva trasformati in “eroi”. Anche per questo, molti di loro, riuscirono a “restare umani”.

 

 

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