Storia

I disuniti uniti – Gioie e dolori dell’Italia unita

4 Gennaio 2016

L’ultima sparata è di Eugenio Scalfari  che a margine della presentazione di un libro di Umberto Eco s’è lasciato sfuggire una vecchia bubbola che ha inorgoglito i neo-borbonici ma non me che sono un siciliano unitario cresciuto nel culto di Cavour grazie all’etneo Rosario Romeo che più di ogni altro l’ha studiato. La dichiarazione sesquipedale del “senile” Scalfari, che ormai strologando a ruota libera su tutto e non avendo letto probabilmente l’ultimo libro sull’argomento di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro” ove le sue affermazioni sono smentite, ha dichiarato che  “Non fu unità,  fu occupazione piemontese, e se l’avesse fatta il Regno di Napoli, che era molto più ricco e potente, sarebbe andata diversamente. La mentalità savoiarda non era italiana. Cavour parlava francese. E gli italiani quel nuovo Stato l’hanno detestato”.

Ora, leggendo Felice  (si veda anche il suo recente “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”) e gli studi ormai millimetrici sulla ricostruzione storica del PIL italiano all’atto dell’Unità d’Italia si scoprirà che non è affatto vero che il Regno di Napoli fosse più ricco in termini di reddito razionale. Anche solo a prendere il dato bruto della crescita economica del Prodotto interno lordo  e trascurando tutti gli altri indicatori della modernità che vedono il Sud soccombente – il grado di scolarizzazione, di istruzione, di aspettative di vita, di statura,  ecc. ecc. – si appurerà ben presto  che la questione non sta nei termini prospettati da Scalfari.  «Contrariamente a quanto un certo revisionismo si ostina a riproporre, il regno sabaudo era già allora ben più avanzato del suo vicino meridionale, pressoché da ogni punto di vista: le istituzioni, le infrastrutture, gli indicatori sociali, con ogni probabilità anche il reddito», conclude Felice.

Ma lungi dall’entrare in una controversistica sterile Nord –Sud che lascia il tempo che trova, occorre fare alcune considerazioni ricognitive sull’argomento. Il processo unitario fu sicuramente rapido (1848- 1866)  e di natura militare. “Conquista regia” fu la dicitura utilizzata da Alfredo Oriani e ripresa da Antonio Gramsci. Piemontesizzazione? Certamente. Il dato è storico e incontrovertibile. Ma intervenendo tardi il processo di unificazione della Penisola, rispetto agli Stati europei di vecchia formazione – mi riferisco soprattutto all’Inghilterra e alla Spagna, non alla Francia dove lo Stato fortemente centripeto  dai tempi di Colbert “inventò” praticamente la Nazione-, si vedrà che gli elementi divaricanti sia in Spagna che in Inghilterra sono terribilmente presenti tuttora più che nello Stivale: è in quegli Stati europei infatti, non in Italia,  che le tensioni scissionistiche si sono manifestate in maniera virulenta tanto da determinare a distanza di circa cinquecento anni dal processo di unificazione di quegli stati – che anche lì avvenne per “conquista regia” –    l’indizione dei referendum separatistici della Scozia e della Catalogna.

Paradossalmente anche da noi lo Stato unitario inventò la Nazione.  Tardi ma lo fece, e non fu del tutto un male il ritardo, anzi. Il “plebiscito di ogni giorno” con cui secondo Ernest Renan si “vota” a favore della Nazione, ebbe dei momenti centrali successivi alla “conquista regia”. Quindi non solo il processo unitario in sé e per sé, che ebbe degli spunti di vera epopea popolare con l’Impresa dei Mille (il nostro Western, se fossimo stati in grado di saperne cogliere gli aspetti filmici, anche drammatici, delle camicie rosse), ma furono gli eventi che seguirono a manifestarsi decisivi. Mi riferisco alla unificazione amministrativa crispina (certo con le sue assurdità burocratiche – separazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi –  che ci trasciniamo ancora oggi), all’industrializzazione e modernizzazione giolittiana, alla Grande Guerra con il suo tributo di sangue pagato da tutti i Peninsulari; tutti fatti che cementarono il nascente Stato Unitario sotto il profilo statuale; ma fu soprattutto con  i maestri elementari, la riforma Gentile (istituzione dei licei che formarono la classe dirigente del Paese), il nascente cinema  (gli straordinari doppiatori!) e infine la televisione, che intervenendo tardi sulla risorsa prima unitaria – la lingua – paradossalmente contribuirono a formare una scena comune coesa e  linguisticamente forte,  inesistente prima di allora. Nonostante i ritardi e gli analfabetismi di ritorno, la lingua italiana è parlata da tutti, mentre prima era quasi solo scritta da pochi.

Fu l’Italia a creare gli italiani? Non esageriamo. La battuta di d’Azeglio è solo parzialmente  vera. Gli italiani esistevano da prima: la loro base morale era stata formata, in precedenza, dalla Controriforma e dalla Chiesa Cattolica. Ai tempi dei “Promessi sposi”, ossia ai tempi del Grande Romanzo Nazionale. Ma anche la loro base culinaria era già preesistente: se si trascura la divaricazione tra la “linea dell’olio di oliva” che riguarda tutta la Penisola (ivi comprese le regioni Liguria e Toscana) contrapposta alla “linea del burro” (la Pianura Padana e la fascia pedemontana e Alpina) c’è tuttavia un elemento unificante preesistente: il soffritto. Esistente in tutta la Penisola, come la pasta. Si aggiunga il fenomeno del calcio che da più di cento anni unifica la Penisola più di qualsiasi altro collante, e della canzone popolare irradiata da Sanremo che si aggiunge alla tradizione canora del melodramma.

Certo, il Risorgimento lasciò scontenti entrambi i versanti. Riprendendo in mano il vecchio testo di Walter Maturi (“Interpretazioni del risorgimento”) o anche il romanzo di Alberto Arbasino “Fratelli d’Italia” si vedrà che tensioni, sospetti  e scetticismi striscianti accompagnarono, e non sono del tutto scomparsi,  il processo unitario, sia nella coscienza degli intellettuali che in quella popolare. C’è tutto un filone di narrativa siciliana che va dai “Vicerè” di De Roberto ai “Vecchi e giovani” di Pirandello al “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (non Verga che pur narrò la repressione cruenta di Bixio a Bronte, ma che rimase sempre “unitario”) ove lo scontento si bilancia con quello del Nord che forse mai ha digerito del tutto l’inaspettato “dono” del Mezzogiorno con i suoi eterni problemi di arretratezza economica e di delinquenza organizzata.

Ma si diceva “base morale”.  Ah quella sì. Esiste da sempre o meglio dai tempi della Controriforma e ha dato luogo all’Alberto Sordi che c’è in tutti noi: il familismo amorale, la raccomandazione (come forma cattolica di “salvezza vicaria”), il particulare  guicciardiniano (che Carlo Tullio-Altan amava definire “morale albertiana”, dal libro “Della famiglia” di Leon Battista Alberti), il disordine amministrativo perenne, la giurisprudenza policroma, l’et ab hic e l’et ab hoc inconcludente dello “Stato introvabile” (Sabino Cassese), la prevalenza degli organigrammi informali (massonerie e consorterie varie) su quelli formali, e tanti altri vizi e difetti che ci fanno tuttora bellamente compagnia e che ci fanno tanto “Nazione” e “carattere nazionale”.

Ma “una d’arme, di lingua e di altare” come cantava il nostro grande Alessandro Manzoni, l’Italia disunitamente unita persiste e resiste. E qui va riconosciuto il ruolo unificante, precedente la conquista regia di Camillo Benso Conte di Cavour, svolto dalla Chiesa Cattolica. Non siamo papisti a caso. Benedetto Croce, il laico Benedetto Croce, nella “Storia dell’età barocca in Italia” (1929) esprimeva motivi di gratitudine alla Chiesa e ai gesuiti i quali  preservarono l’unità spirituale e l’unità nazionale del Paese, e che, spegnendo «le faville delle divisioni religiose qua  e là accese anche nella nostra terra, impedirono che ad altri contrasti e dissensi si aggiungessero tra gli italiani anche quelli di religione (per esempio di un Settentrione protestante e di un Mezzogiorno cattolico) e consegnarono l’Italia ai nuovi tempi, tutta cattolica e disposta a convertirsi tutta, reagendo al clericume, in illuministica, razionalistica e liberale». A parte l’allucinazione finale di un’Italia pronta a convertirsi al razionalismo e al liberalismo che era solo nei voti di Croce  e altre considerazioni che si potrebbero aggiungere  (per esempio un cattolicesimo più esteriorizzato e cerimoniale, “padrepiesco”, al Sud e più raccolto e borromaico al Nord) resta il dato di fatto della coesione nazionale garantita dalla Chiesa cattolica. È un bene? È un male? È l’Italia!.

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Nell’immagine di copertina: Piazza Unità d’Italia a Trieste

 

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