Storia
Hiroshima, basta la parola
Il 6 agosto 1945 mattina alle 8,15 la storia cambia. L’evento è il lancio della prima bomba atomica e la scena è il “day after” di Hiroshima.
Così almeno recita la retorica della commemorazione. Sui contenuti e sulle forme di questa trasformazione la realtà, ancora settantuno anni dopo, è quanto, meno più cauta, e ancora dice che ci sono molti passi da compiere, anche sul solo piano del riconoscimento.
Forse niente è più chiaro simbolicamente delle parole e dei gesti che lo scorso 27 maggio, Barak Obama è andato in visita ufficiale Hiroshima, era la prima volta per un presidente americano.
Di quella visita restano due atti simbolici: l’affermazione di Obama sugli effetti della bomba e il confronto, rapido, ma evocativo, con uno dei sopravvissuti.
Per quanto riguarda la prima questione resta un passaggio del suo discorso.
“Trovandoci nel centro di questa città, siamo costretti a immaginare il momento in cui cadde la bomba. Le parole non sono sufficienti per descrivere tanta sofferenza. Un giorno le voci [dei sopravvissuti] non saranno più fra noi per offrire la loro testimonianza, ma il loro ricordo non dovrà mai venire meno. Quei ricordi alimentano la nostra immaginazione e ci permettono di cambiare. Da quel giorno drammatico abbiamo fatto molte scelte che ci danno speranza: gli Stati Uniti e il Giappone, da allora, hanno stretto non un’alleanza ma un’amicizia”.
Il tema era dunque l’effetto politico di quel momento. Il fatto che era possibiloe stabilire un “prima” e un “poi”
Ma poi quando si è trattato di guardare in faccia quel momento – ovvero “l’ora di allora”, quello che si collocava tra “prima” e “dopo” – la scena ha cambiato registro.
Alla fine di una cerimonia che per molti aspetti era imbarazzante, perché si trattava di riconoscere la violenza fatta, ha parlato brevemente con Sunao Tsuboi, un uomo di 91 anni che sopravvisse alla bomba. Prima di allontanarsi da lui, Obama l’ha anche abbracciato, anche se con un po’ d’impaccio. Quell’abbraccio era sincero, ma non era senza problemi. La realtà materiale è sempre più complicata delle parole con cui diamo ordine alle cose.
Ma questo, paradossalmente era già chiaro nella condizione mentale immediata di quel 6 agosto.
Il 6 agosto Thomas Mann scrive nel suo diario: “Primo attacco al Giappone con bombe fondate sulla disintegrazione dell’atomo (uranio)”. Poche righe più sotto: “Andato a Westwood a comprare scarpe bianche e camicie a colori”.
Non so se facesse impressione a Thomas Mann, rileggersi a pochi giorni di distanza. A noi comunque quelle due frasi non lasciano indifferenti. Si può essere molto sensibili, avere una grande capacità narrativa, ma poi resta il distacco tra la propria funzione pubblica e le emozioni che si è in grado di trovare e di verbalizzare. Ma resta il fatto che di fronte all’evento Hiroshima Thomas Mann è colto nella sua inadeguatezza.
Diversamente per Camus.
L’8 agosto 1945, due giorni dopo lo scoppio della prima bomba atomica su Hiroshima, Albert Camus scrive un editoriale su “Combat”, in cui comunica tutta la sua angoscia d’individuo che è appena uscito fisicamente da una condizione di guerra e che percepisce la scena che non vede, ma di cui intuisce il carattere annichilente, come la sfida che condizionerà complessivamente il domani.
“La civiltà delle macchine – scrive Camus – giunge al suo livello ultimo di ferocia. Dovremo scegliere, in un futuro più o meno prossimo, tra il suicidio collettivo e l’impiego intelligente delle conquiste scientifiche.
Nell’attesa, si può pensare che vi sia una certa indecenza a celebrare in questo modo una scoperta che si pone prima di tutto al servizio del più formidabile accanimento distruttivo di cui l’uomo abbia dato prova da secoli.
Che in un mondo esposto a tutti gli strappi della violenza, incapace di controllo, indifferente alla giustizia o anche semplicemente alla felicità umana, la scienza si consacri all’omicidio organizzato, nessuno ormai, a meno che non sia affetto da idealismo impenitente, si stupirà.
Scoperte del genere dovrebbero essere registrate, commentate per quello che sono, annunciate al mondo affinché si abbia un’idea plausibile del proprio destino”.
Settanta anni dopo siamo ancora lì – se non ci distraiamo a parlare dei saldi (o per riprendere le parole di Thomas Mann “le scarpe bianche e camicie a colori”) – a discutere se il potenziale distruttivo abbia o no una funzione di deterrenza o di persuasione, se sia capace di condizionare le scelte dell’avversario e se sì in che modo. L’epoca inaugurata da Hiroshima ci colpisce o ci annichilisce se teniamo ferma l’immagine della morte, ma poi rimane il problema: che ci facciamo con quella potenza distruttrice?
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