Russia
Guido Carpi, Russia 1917
Un’altra storia della rivoluzione russa approfittando del centesimo anniversario, un libro per raccontare quelli che, parafrasando il titolo di una famosa opera di John Reed, furono i giorni che sconvolsero il mondo o, piuttosto, un’interpretazione ragionata degli eventi ma, anche, delle sensibilità e delle aspirazioni che videro affermarsi, forse contro ogni previsione, il regime bolscevico?
La domanda viene spontanea di fronte a “Russia 1917. Un anno rivoluzionario” di Guido Carpi, Carocci editore. Il libro è infatti fortemente segnato dagli studi specifici del suo autore, Carpi è, infatti, uno storico della letteratura, uno studioso della letteratura russa che offre una chiave di lettura, sicuramente originale di quel momento storico. Grazie anche ai riferimenti letterari, ai quali attinge a piene mani, Carpi riesce infatti a dare una rappresentazione plastica del clima caotico in cui maturò la rivoluzione. A cominciare dalla guerra, in assenza della quale, forse, quel disfacimento generale non ci sarebbe stato. La guerra aveva mostrato i limiti dell’arretratezza dell’impero, in molti casi fermo alle riforme di Pietro il Grande. Le armate zariste erano state sbaragliate dall’offensiva tedesca, ormai senza una guida certa – in molti casi erano saltate le gerarchie sociali – ed in preda ad uno scoramento generale, erano ridotte in condizioni pietose. Poi il problema della disgregazione delle classi dirigenti, incapaci di trovare una via d’uscita coerente in grado di salvare l’impero. Quindi il riemergere prepotente dei grandi problemi con i quali l’enorme impero non si era voluto razionalmente confrontare. Tema dei temi, quello della proprietà della terra e della necessità di una riforma complessiva. Ma anche quello dei rapporti di lavoro, quelli della condizione operaia, soprattutto nella grande concentrazione industriale di San Pietroburgo. E, non ultimo, anche il grande tema delle nazionalità che componevano l’impero e che pretendevano il riconoscimento e la relativa autonomia.
In tutto questo, ciliegina sulla torta, la impermeabilità della corte e dello zar a qualsiasi idea di cambiamento, che non riuscivano a rendersi conto della insostenibilità dell’autocrazia. Insostenibilità, quest’ultima che è stata la vera causa, nel febbraio del 1917, del crollo dello zarismo accusato di avere mandato al macello milioni di uomini e, nello stesso tempo, di avere tenuto nel corso degli eventi un comportamento ambiguo. L’accusa d’intelligence con il nemico riguardava soprattutto la zarina, la tedesca. Su tutto e soprattutto la divaricazione degli interessi delle classi sociali, ormai libere dagli antichi vincoli, che coltivavano e praticavano, ciascuna, obiettivi e orizzonti diversi e spesso fra loro conflittuali tali da sboccare in episodi di violenza collettiva e individuale.
Il governo nato dopo la caduta dello zarismo mostrava immediatamente i propri limiti, non riesciva a comporre gli interessi in un quadro unitario. C’era già una contraddizione, si trattava di un governo borghese che si reggeva sulla forza dei soviet. Insomma, un quadro devastante che frustava ogni espressione di buona volontà diretta a dare una soluzione alla crisi complessiva.
Proprio in questo contesto incerto irrompeva Vladimir Lenin, capo riconosciuto del partito bolscevico. Lenin aveva le idee chiare, considerava la collaborazione con i partiti borghesi, che una parte dei bolscevichi si era assegnata a praticare, senza senso, e per questo rilanciava, fin dal suo ritorno in Russia, la linea del tutto il potere ai soviet. Lenin, grazie al suo carisma, riusciva così ad incanalare la forza sovversiva delle masse facendone strumento di trasformazione in senso socialista dello Stato russo. Lenin, dunque, rifiutava ogni accordo con le forze socialiste e istaurava con la forza la dittatura del partito.
La vittoria, conquistata con la violenza, diciamo noi, ebbe però l’effetto di soffocare la possibilità della nascita della democrazia in Russia – avviando un meccanismo che, poi, con Stalin sarebbe sfociato nel totalitarismo pieno e nel Gulag – ma ebbe anche il demerito di accreditare il nuovo Stato sovietico come modello unico del socialismo, in fin dei conti, danneggiando la stessa spinta egualitaria che ne motivavano la concezione ideale.
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