Storia
Goffredo Mameli, il figliastro d’Italia
Il fatto che l’inno di Mameli sia diventato ufficialmente l’inno nazionale da ieri ha destato stupore. La convinzione era infatti che noi italiani avessimo un inno nazionale. Due giorni fa abbiamo scoperto che avevamo un “inno in prova”.
Dato ancor più sorprendente è che tutte le pagine web, compresa quella della Presidenza della Repubblica, indicano (ancora oggi, 17 novembre 2017) la data 14 ottobre 1946 come il momento della adozione del Canto degli italiani (il testo che tutti siamo soliti chiamare Fratelli d’Italia) come “Inno nazionale”.
E tuttavia il fatto che solo ieri l’altro quel testo sia diventato ufficialmente l’inno nazionale non è l’effetto di una distrazione, o di una bizzarria. Quel testo è stato nel limbo per molto tempo non per distrazione, ma “per imbarazzo”. Anche per questo vale la pena ripercorrere il lungo viaggio di quel testo.
Nella seconda metà dell’800 e oltre, «Fratelli d’Italia» rimase molto popolare, anche se osteggiato dai Savoia: per il Regno l’inno ufficiale era la Marcia Reale. Ma già nella guerra libica del 1911-12 le parole di Mameli erano di gran lunga quelle più diffuse fra tutti i canti patriottici vecchi e nuovi. E la stessa cosa accadde durante la Prima Guerra Mondiale.
Dopo la Marcia su Roma assunsero grande importanza i canti fascisti. Quelli risorgimentali furono tollerati fino al 1932, quando il segretario del partito Achille Starace vietò qualunque canto che non facesse riferimento al Duce o alla Rivoluzione fascista. In seguito, nelle cerimonie ufficiali della Repubblica Sociale, però, venne intonato assieme a «Giovinezza».
Il governo italiano, dopo l’8 settembre, aveva adottato come inno La leggenda del Piave. Finita la guerra, il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei Ministri acconsentì all’uso «provvisorio» dell’inno di Mameli come inno nazionale, anche se alcuni volevano confermare La leggenda del Piave, e altri avrebbero preferito Va’, pensiero. Quella decisione non diventò, però, mai definitiva.
Nel 2006 è stato discusso nella Commissione affari costituzionali del Senato un disegno di legge che prevede l’adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell’inno “Fratelli d’Italia”. Lo stesso anno, con la nuova legislatura, è stato presentato al Senato un disegno di legge costituzionale che prevede la modifica dell’art.12 della Costituzione Italiana (fino ad allora il testo dell’art.12 della Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, recitava: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni) con l’aggiunta del comma «L’inno della Repubblica è Fratelli d’Italia».
Ma il provvedimento si è fermato in commissione e ancora lì si trovava fino a due giorni fa.
Un destino del resto che ha accompagnato Goffredo Mameli in morte.
La storia italiana è piena di figure che nella parabola di una breve stagione consumano la loro vita e allo stesso tempo rimangono come icone senza storia e senza fisionomia perché nella vicenda che improvvisamente li proietta alla ribalta, nella scena che li inonda di luce, si perdono molti particolari e anche il dopo rimane in ombra, azzerato e annichilito dalla forza dell’evento.
Goffredo Mameli non sfugge a questa regola. Non solo in vita, ma soprattutto in morte.
Del corpo di Mameli si potrebbe discutere come di altri corpi nella storia italiana per sottolineare come nel suo caso – a differenza di quelli di Mussolini e Matteotti, di Moro e Padre Pio, di Pio IX e Vittorio Emanuele II – non si siano prodotte emozioni, ma spesso scene meste: da quella della sua lunga agonia al destino del suo corpo dopo la morte. Un corpo che a lungo costituisce imbarazzo.
Lungi dall’essere un padre della patria, Mameli è stato a lungo un “clandestino” nella storia italiana: oggetto di più cerimonie funebri, tutte contrassegnate dall’imbarazzo, comunque dall’assenza del potere pubblico, al più accompagnato dai suoi amici in una condizione di solitudine, comunque di “sconfitta”. Con una città, Genova, che nel momento della morte impedisce alla famiglia di prendersi il corpo e sotterrarlo nella sua città. E una città, Roma, che ospita quel corpo, ma non lo vuole, comunque si sente imbarazzata, dalla memoria di una figura, che ricorda l’esperienza della Repubblica Romana del 1849 e i suoi protagonisti come “un “affronto al Papa” fatto proprio nella “Città del Papa”. Che poi Pio IX sia scappato e non espulso conta poco. Nella memoria collettiva conta e pesa il fatto di aver tentato (così come nella Repubblica giacobina del 1798-1799) di costruire una nuova identità, fatta di riti, di simboli, di parole e di gesti verticalmente alternativi a quelli propri della “città del Papa”.
Quello del corpo di Mameli è un lungo viaggio di cui vale la pena di riportare le tappe principali, anche perché costituisce un “manuale” dell’uso politico del Risorgimento su cui è bene riflettere e che ci riguarda da vicino.
Appena morto (6 luglio 1849), Goffredo Mameli viene imbalsamato da Agostinio Bertani e poi deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimmate, a Roma. Nel 1871 le autorità ecclesiastiche autorizzano la riesumazione del corpo, ma il nuovo governo italiano non è favorevole a una cerimonia pubblica. Mazzini è ancora un braccato in Italia (ricordiamoci che muore sotto falso nome a Pisa nel marzo 1872). Infatti solo dopo la morte di Mazzini si autorizza un funerale pubblico e la sepoltura al cimitero del Verano, a Roma. Ma quella cerimonia è strana: ci sono molti vecchi compagni d’arme, Garibaldi è assente, la famiglia non assiste. Il funerale è civile. Qualcuno intona il Canto degli Italiani, cui segue la lettura di alcuni scritti di Mameli. Quelle parole suscitano il disappunto dei rappresentanti del governo presenti e dunque il corpo viene sepolto in un loculo del cimitero, in attesa di un posto dignitoso.
Nel 1891, in occasione della decisione di erigere al Gianicolo un monumento a Giuseppe Garibaldi, la giunta comunale di Roma chiede che sia deciso dal governo ciò che il parlamento aveva deliberato, ovvero che sia edificato un sacrario accanto al monumento dedicato ai caduti per l’unione di Roma all’Italia. Il governo risponde negativamente. Così nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre la costruzione di un monumento funebre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli vengono sepolte lì. Ma il corpo di Mameli crea ancora imbarazzo. In nome dei buoni rapporti con l’Austria, in quell’occasione nessuno esegue il Canto degli Italiani.
La vicenda sembra così chiusa. E infatti nessuno pensa più a Mameli finché, nel 1941, a guerra iniziata, Mussolini rievoca la morte di Mameli per colpa delle armi francesi. Quindi, in piena guerra, per celebrare l’italianità, Mameli torna di nuovo utile. Viene allora deciso di costruire quel sacrario votato dal parlamento, mai deciso del governo italiano e che era stato al centro delle polemiche settant’anni prima. Così, prima ancora della fine dei lavori, le spoglie di Mameli vengono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere, poco sopra la fossa nella quale erano stati collocati i resti dei caduti per la Repubblica Romana. Come molte cose nella storia italiana, niente è più definitivo di una decisione transitoria, e infatti è lì che ancora oggi si trovano.
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