Storia
Gli Stati generali dal 1789 ad oggi: da dove nasce il cambiamento?
Dalla crisi economica e dalla pessima gestione delle risorse nella Francia di fine ‘700 nacque l’occasione per liberare idee ed energie che cambiarono il mondo e che determinano tuttora buona parte del nostro universo politico.
La rivoluzione francese incominciò con l’apertura degli Stati generali: convocati nel 1788 dal re su suggerimento del ministro de Brienne, essi destarono grande interesse e partecipazione.
Le comunità civiche di tutta la nazione furono chiamate ad eleggere i rappresentanti dei tre stati in cui era divisa la popolazione ed a redigere documenti nei quali rivolgere al re richieste e indicazioni in vista dei lavori. Ne nascono i Cahiers de doléances, documento eccezionale che rispecchia la varietà della società del tempo: troviamo testi semplici e ingenui redatti, ad esempio, in villaggi rurali che presentano problemi concreti da risolvere, così come lucide teorizzazioni dello stato di diritto redatte da intellettuali parigini.
In ogni caso, dai salotti della capitale fino alle campagne bretoni, la Francia fu attraversata da un fremito che scosse, appassionò e coinvolse: diversi storici (l’esempio più noto è Furet) ritengono che in quell’occasione nacque la politica moderna. Improvvisamente e per la prima volta i francesi erano chiamati a dir la loro, a discutere e a votare chi li rappresentasse per affrontare la grave crisi in cui la nazione si trovava. Se fino a quel momento erano stati sudditi, ecco che allora cominciarono a diventare cittadini.
Certo, non era la prima volta che gli stati venivano convocati, ma le circostanze, le problematiche, la coscienza collettiva e le prospettive di cambiamento erano imparagonabili rispetto alle occasioni precedenti.
Già a partire dai mesi successivi alla convocazione nacquero, soprattutto a Parigi, pamphlet, giornali, manifesti, volantini e poi i club, i primi “partiti” politici; luoghi dedicati prima al divertimento o alla speculazione teorica divennero allora centri di dibattito politico, di aggregazione, di pianificazione delle azioni rivoluzionarie.
Da dove nasce tutto questo fermento? Certamente la crisi e le assurdità del sistema politico francese suscitarono rabbia, desiderio di rivalsa, urgenza di cambiamento. Tuttavia ciò non è sufficiente per spiegare il fenomeno: tante società in tempi e luoghi disparati hanno vissuto ingiustizie e povertà peggiori, così come tanti sommovimenti rivoluzionari non hanno generato cambiamenti paragonabili per radicalità e portata a quelli della rivoluzione del 1789.
I rivoluzionari francesi hanno alle spalle l’illuminismo e quindi un’antropologia che sprona l’uomo a dare una forma razionale alla propria vita e alla società; hanno alle spalle la riflessione sul potere di Montesquieu, la teorizzazione dello stato liberale con Locke, una concezione completamente nuova del rapporto tra stato e cittadini espressa da Rousseau, solo per indicare gli esempi più noti.
La nascita della politica moderna, il fervore di cambiamento che anima gli stati generali del 1789 poggiano i propri piedi su una cultura che era stata capace di esprimere ideali condividi pur dentro una vivace e tagliente dialettica in grado di generare modelli antropologici e politici radicalmente nuovi (e ovviamente problematici, discutibili).
Le radici del cambiamento sono profonde e pescano da un lungo e paziente lavoro culturale in grado di generare una mentalità nuova, diversa da quella promossa dal potere. Quali indicazioni offrono queste vicende per il nostro presente?
La crisi politica ed economica che oggi stiamo vivendo è alimentata dalla carenza culturale che ci caratterizza, dalla mancanza di progetti o modelli politici condivisi di ampio respiro, dalla difficoltà di elaborare un cammino verso una meta comune desiderabile.
È stato ripetuto fino alla noia che viviamo un’epoca post-ideologica, che abbiamo assistito alla tragica fine delle ideologie degli ultimi due secoli e che per questo siamo sfiduciati e cinici. Il giovane Malraux lo diceva già 90 anni fa, prima di vedere i peggiori orrori che quest’epoca avrebbe prodotto: “Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità.” (La Tentation de l’Occident, 1926.)
Sarebbe ingenuo tuttavia pensare che viviamo allora in una mentalità “neutra” o “naturale”: laddove è carente un lavoro culturale libero, domina la mentalità promossa dal potere. Che questo sia oggi in atto è stato ampiamente mostrato dagli intellettuali più acuti degli ultimi decenni, da Pasolini a Testori.
La speranza che si possa combattere la crisi, che ci si possa non arrendere ai poteri che la determinano, che si possa generare un reale cambiamento, passa allora da un lavoro culturale paziente, personale e condiviso. Paziente, perché di ricette istantanee che curano ogni male ce ne vendono già ogni giorno, ma pare non funzionino; personale, perché nessuno può essere libero in mia vece; condiviso, perché le scoperte di uno possano essere per tutti e perché solo da una dialettica costruttiva si può generare una cultura vitale.
Tale lavoro consiste, per quel che capisco, in una ricerca e comunicazione della verità. Verità, scriveva Pasolini nel ’68, non anzitutto “affermativa: si tratta piuttosto di un atteggiamento, di un sentimento, di una dinamica, di una prassi, quasi di una gestualità: essa dunque non può non essere piena di errori, e magari anche di qualche stupidità.” (Il caos, ed. l’Unità/Editori Riuniti, p. 18)
Il mio augurio è che i nostri Stati generali contribuiscano a questo cammino, oggi più che mai urgente.
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