Costume
Gli aztechi e noi
Dal principio della guerra e per tutto il corso del suo svolgimento – fino a ieri – mi hanno fatto compagnia due libri dello stesso autore: La conquista del Messico e La conquista del Perù, di William Hickling Prescott. Non si è trattato di una scelta intenzionalmente legata all’evento. E’ stato un caso. Ma il caso sembra manifestare talvolta, e anzi più spesso di quanto si creda, una misteriosa intenzionalità… si tratta solo di farci caso… e in questo caso, per di più, non l’avrei mai degnato di una scommessa.
Non mi sarebbe mai venuto in mente infatti di leggere quei due volumi – peraltro piuttosto corposi – se non fosse stato per un altro libro che avevo letto poco tempo prima, un volume intitolato “Sulla tirannide” che raccoglie scritti di Leo Strauss e di Aleksandre Kojève, oltre al carteggio intercorso tra i due.
Va detto che, per quanto ammiri Kojeve, non posso annoverarmi invece tra gli estimatori sfegatati di Strauss. Però si dà il caso che i due libri di Prescott siano citati proprio da quest’ultimo, in una lettera in cui definisce la loro lettura “favolosa” e la consiglia a Kojève. Questi però non risponde nel merito e non vi fa nemmeno più cenno per cui, per quanto ne so, potrebbe anche non averli mai letti o, magari, averli detestati.
La loro lettura dunque, deriva da un consiglio indiretto e del tutto improbabile fornitomi da un autore, per me, ugualmente improbabile.
E a questa doppia improbabilità ne aggiungerei un’altra: che in genere tendo ad evitare i libri che mi vengono consigliati. Chiunque sia a consigliarmeli. Per varie ragioni, ma prima di tutto perché, in ambito librario, amo il gusto dell’avventura e mi piace credere, o illudermi, di sbagliare in proprio.
Anzi, devo ammettere che, se sbaglio in proprio, sbagliare può perfino piacermi… ma sbagliare conto terzi non mi piace mai.
E così, in conseguenza di questo doppio colpo di dadi – e poi di un terzo colpo, dovuto al fatto che disponevo da una ventina d’anni di quei due libri senza averli mai neppure sfogliati – eccomi a Prescott e ai suoi due grandi libri.
Ho cominciato con “La conquista del Messico” e poi, in preda a ipnosi da lettura, ho letto anche l’altro senza soluzione di continuità.
Con Cortés, il “conquistador” del Messico, e con i Pizarro, che si appropriarono negli stessi anni del Perù, il mondo vede per la prima volta manifestarsi la devastante potenza di un massacro epocale condotto, è vero, da un pugno di tagliagole ma con l’altissima benedizione delle istituzioni ecclesiastiche e di quelle temporali; nel nome della civiltà e dei suoi imprescindibili valori. Siamo, in quel tempo, alla svolta finale di quello che oggi definiamo “Rinascimento”. Forse mai, come in quegli anni, la civiltà europea nel suo complesso ha potuto vantare una così prestigiosa koiné culturale. Non potevano esservi discussioni: i “nostri” valori, morali e culturali erano (e lo rimarranno) i soli valori degni di questo nome e nulla avrebbe potuto contestarne, neppure lontanamente, la superiorità.
Ma è proprio allora (con quattro secoli di anticipo, rispetto alle guerre mondiali cui di solito si accredita vagamente la rivelazione…) che diventa chiaro, al di là di qualsiasi dubbio e una volta per tutte, che una guerra condotta nel nome di una civiltà superiore e dei valori che essa rappresenta non può che essere guerra di sterminio.
Due straordinarie civiltà precolombiane: l’azteca e l’inca vengono letteralmente annientate, cancellate dalla faccia della terra nel nome della cristianità e dei valori della “nostra” civiltà.
Certo, si può convenire sul fatto che, da allora, siano cambiate molte cose.
Ma non è cambiato l’essenziale.
Ancora oggi è “l’Occidente” – che allora era l’Europa – il portatore di Valori Supremi.
Chiunque osi dubitarne o opporvisi è, oggi come allora, un indemoniato, un folle, un barbaro oppure tutte e tre le cose e altre ancora, in funzione della fantasia di chi lo insulta.
Ma oggi c’è di peggio. Non solo perché il danno che potevano fare sciabole, alabarde e archibugi fa ormai sorridere, ma soprattutto perché ipocrisia e avidità non hanno termini di paragone (in sé né in quanto ai mezzi con cui sono messe in atto) con quelle dei conquistadores.
In più e in peggio, rispetto ad allora c’è poi un’altra cosa.
La vigliaccheria e l’infingardaggine con cui si può, senza neppure un’ombra di vergogna, combattere per procura guerre dagli esiti spaventosi, esaltarsi con eroismi da fiction televisiva e contribuire dal divano alla devastazione.
Sempre nel nome di quelli che, quattro secoli fa, si chiamavano “valori cristiani” poi presero il sembiante imperialista del “Destino Manifesto” e infine hanno indossato il tutù rosa e celeste (per via della parità di genere) dei VALORI DELL’OCCIDENTE.
C’è ancora una differenza, come dicevo.
La “CIVILTÀ INFERIORE” non è quella azteca e non è quella inca, i cui armamenti erano fionde e asce di rame. Stavolta quei barbari possiedono un arsenale nucleare in grado di cancellare dalla faccia della terra se stessi, la CIVILTA’ SUPERIORE e ogni traccia di quei VALORI DELL’OCCIDENTE sbandierati come carta igienica da quegli imbecilli semi analfabeti che se ne proclamano tronfiamente gli eredi.
Non più i Cortès e i Pizarro – feroci avventurieri, certo, ma uomini, almeno, che rischiavano in proprio mettendosi personalmente in gioco.
Niente del genere.
Solo grotteschi pagliacci incravattati, solo piccole bagasce cotonate che puntano irresponsabilmente, dalle loro scrivanie, dai loro salotti televisivi e dai loro bunker già predisposti, sulla roulette della storia. Come se fossero al casinò.
Sono sempre i ricchi a dichiarare le guerre in nome delle nazioni e sono sempre i poveri a perderle. Sono sempre i colpevoli a caldeggiare quelle guerre ma sono sempre gli innocenti a morirne. Perché se pure qualche colpevole dovesse incidentalmente crepare, se ci saranno superstiti è sempre e solo tra loro che bisogna cercarli.
Per cui, come diceva Benjamin: “…un giorno ci sarà la morte dell’umanità – o anche mai. Le due ipotesi sono ugualmente sconfortanti”.
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