Storia
“Giustizia e Libertà”. Storia senza mito di quelli che non mollano
Come combattere il fascismo? Come ripensare la politica nel vortice della crisi che sconvolse la società italiana ed europea degli anni Trenta? Come progettare un nuovo ordine post- fascista, a partire dalla cesura della Grande guerra e delle sue tragiche conseguenze? Sono queste alcune delle domande attraverso le quali Marco Bresciani prova a rispondere con Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà. Un libro che , attraverso la ricostruzione del confronto interno al movimento “Giustizia e Libertà” fondato da Carlo Rosselli, illumina anche molte questioni proprie di questo nostro tempo.
“Giustizia e Libertà”, un movimento che si origina da un punto essenziale: alla crisi dell’idea di Europa si risponde adottando un percorso inquieto fatto di molte appartenenze e, soprattutto, essendo consapevoli della propria sconfitta.
“Giustizia e Libertà” conmunque non era solo questo, Era anche una espoerienz originale di gruppo politico, un dato che occorre tener presente. Il primo a capirlo, trenta anni fa, fu Perry Anderson.
Nel 1988 Perry Anderson pubblica sulla “New Left Review” (n. 170) un lungo saggio dedicato alla filosofia politica di Norberto Bobbio. Il titolo – The affinities of Norberto Bobbio (quel saggio fu poi tradotto in italiano in occasione dell’80° compleanno del filosofo in un libretto dal titolo Socialismo libeale, comprensivo di alti testi incluso il carteggio tra Bobbio e Anderson originato dalla pubblicazione del saggio sulla “New Left Review” – come supplemento de “l’Unità”)– allude alla biblioteca culturale di Bobbio a partire dal possibile caleidoscopio effetto delle molte sollecitazioni che il suo pensiero presenterebbe, in particolare tenendo presente le molte nuances politiche presenti nella fucina del Partito d’Azione, il luogo politico dove Bobbio sperimenta il primo incontro inquieto con la politica.
E’ importante credo riprendere quella suggestione di Anderson. Che si sia d’accordo o meno con il profilo di analisi che il marxista inglese propone in quelle pagine, Anderson indica un tratto molto importante sulla cosiddetta famiglia politica azionista: appartenere e riconoscersi in quella famiglia non perché c’è accordo totale tra i suoi membri, ma perché la convergenza avviene su alcuni punti, molto ridotti e tuttavia essenziali. Sul resto, invece, si può discutere anche radicalmente e pervicacemente. Il che equivale a dire che “la famiglia azionista” non è una setta.
Se non è una setta, che cos’è allora “la famiglia azionista”? Era questo, in fondo: un insieme di linee biografiche individuali che mantengono la loro personalità d’origine, salvo tenere fermi alcuni punti essenziali su cui si converge. Del resto come spiegare che nello stesso partito militavano Ugo La Malfa, Adolfo Omodeo, Vittorio Foa, Massimo Mila, Aldo Garosci, Carlo Levi, Franco Venturi?
Dove sta dunque il punto?
Il punto alla fine è lo stesso che consente al “predecessore del Partito d’Azione”, ovvero “Giustizia e Libertà”, di stare insieme proponendo spesso le stesse divisioni interne e per certi aspetti le stesse distanze tra famiglie.
Marco Bresciani in questo suo libro – Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà, ha il merito di muovere da questa premessa e di non limitarsi a descriverla, ma a lavorarci e con ciò a darci lo spaccato culturale insieme di un mondo politico e di una generazione. Un doppio passaggio costituito da due elementi.
Il primo: “Giustizia e Libertà, scrive Marco Bresciani è una vicenda di generazione, un storia costituita da due generazioni “lunghe” e una breve” che si definiscono rispetto alla Grande guerra 1915-1918. Due generazioni lunghe che si formano tra l’ultimo decennio del XIX secolo e l’Italia giolittiana fino al 1915 (è la generazione di Salvemini, di Prezzolini, di Croce, di Francesco Ruffini e di Luigi Einaudi, tanto per citarne alcuni) e quella lunga che si forma dopo la guerra fino al consolidamento del regime fascista (Vittorio Foa, Carlo Levi, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi). In mezzo, a far da “perno” quella breve che si forma nel corso della guerra ( Carlo Rosselli, Riccardo Bauer, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, ma anche Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti, Italo Balbo, Dino Grandi).
E’ la guerra che la forma. E la guerra è vissuta da quella generazione come cesura, come trauma.
Ma non è solo un problema della guerra.
La guerra costringe tutti costoro a doversi confrontare con un paradigma finito – quello del Risorgimento – e a dover pensare a un nuovo mito della rivoluzione nazionale. La loro è una rivolta generazionale rispetto alla generazione precedente, ma anche la convinzione che ciò che accade segni una rottura irreversibile, che non ci sia alcun ordine infranto da restaurare, ma semmai la presa d’atto di una nuova condizione da cui ripartire.
Il secondo. Dentro il cosmo per certi aspetti complesso, variegato, altamente litigioso di “Giustizia e Libertà” sta la convinzione che ciò che accade con il fascismo non sia una parentesi, ma una nuova stagione della politica, da cui occorra muovere i propri passi, nella consapevolezza che ciò che il fascismo ha inaugurato non sia una situazione rovesciabile o azzerabile, ma sia l’ingresso in una stagione politica, culturale, emozionale, che ha dato forma, parole, atti, gesti a un malessere, e che la risposta a quella condizione sia proporre una risposta a quella sintesi. In breve che indietro non si torna e che uscire dal fascismo è possibile solo con la consapevolezza di andare “oltre” non di tornare “alle origini”.
Conseguente a questa visione, l’idea che l’esperienza del fuoriuscitismo, il vivere in esilio non descriva una condizione dimessa. Al centro sta la consapevolezza e la coscienza della sconfitta. Come scrive Salvemini nell’agosto 1927 il fatto che Mussolini è a Roma al potere e noi in esilio,, in carcere, al confino, comunque ridotti al silenzio e “collocati in un angolo” non indica la nostra risolutezza, ma la nostra sconfitta.
E tuttavia quella condizione può anche essere il segno iniziale del riscatto. Essenziale e non lasciarsi vincere dalla condizione della sconfitta (un tema su cui con acutezza, nel 1949 scrive Vittorio Foa in un testo pubblicato sul mensile “Il Ponte”, dal titolo Psicologia carceraria e che forse è una delle pagine più lucide sulla condizione fuori tempo in cui vive il carcerato nei regini dittatoriali).
L’esilio, è una condizione “marginalizzata” (in termini di luogo, ma anche di tempo). Ma può essere un modo di “rientrare nella storia”. Può non essere solo inazione. E’ anche una condizione che corrisponde a una fase della vita cui si approda perché sconfitti, ma poi, soprattutto, è una condizione in cui ci si misura con una decisione: se si è o non si è proni.
L’esperienza del carcere, come quella dell’esilio, si nutre di molti sentimenti: di nostalgia, di senso della solitudine, di ricerca, talora ossessiva, di un filo. Ma soprattutto allorché essa coinvolge figure che hanno vissuto l’esperienza politica come analisi e canale per interpretare e comprendere il reale, la riflessione che li accompagna è quella di interrogarsi sui modelli, di capire dove il proprio modello non ha funzionato interrogandosi non sui singoli comparti, ma sulla struttura, analizzandolo nel suo complesso.
Il fine è scavare nel passato per costruire qualcosa che sia radicalmente diverso.
Conseguenza, e per certi aspetti anche premessa a questa osservazione è l’idea che la propria sconfitta sia una di naturale epocale, verticale e che non ci sia risorse da recuperare, in ciò che preesisteva e dunque che tutta la scommessa politica sia prendere atto non solo della propria sc0onfitta ma anche della necessità di rinnovare e trasformare radicalmente, in breve di rifondare, il proprio bagaglio concettuale, la cassetta dei propri strumenti culturali e politici, il proprio scaffale di referenze culturali, librarie, concettuali. Ancora più radicalmente che il futuro sia possibile se si dà forma a un nuovo linguaggio.
E’ il profilo del percorso che Marcio Bresciani propone ripercorrendo la storia di “Giustizia e Libertà” dalla origini fino al momento in cui con la Seconda guerra mondiale, la costruzione dell’”Europa Nera” il movimento si scompone in molti percorsi in cui contano soprattutto quelle personalità che si sono confrontate nel corsi degli anni ’30 per poi ritrovarsi tra il 1942 e il 1943 e dare vita all’esperienza del Partito d’Azione.
Che cosa è dunque questa storia?
Marco Bresciani la presenta essenzialmente in alcuni momenti chiave che lasciano intravvedere il confronto interno serrato tra le varie anime che compongono quell’istanza di movimento. Li possiamo riconscere nell’irdine di quatrro.
Il primo. La preoccupazione per dare vita a una forma ricostruita di mondo socialista concentrato sulla scorta delle esperienze governative socialdemocratiche degli anni ’20 (Germania, Austria, Belgio, Regno Unito, soprattutto).I temi sono le possibili politiche anticicliche e di intervento statale; le politiche di piano e di governance dall’alto per fronteggiare la crisi. E’ una questione che immediatamente entra in conflitto con le istanze più radicali e soprattutto confligge con coloro che dentro GL mettono in guardia dal fascismo per le esperienze di pianificazione economica che significano “contrazione della capacità di mobilitazione politica. E’ una discussione che inizia almeno marginalmente nel 1931, ma che in area socialdemocratica e giellista è rilevante tra 1933 e 1934. Il tema è da una parte quale diagnosi si propone per uscire dalla crisi e, insieme, quale proposta politica si accompagna alla riflessione economica.
Il secondo polo di questioni è rappresentato dalla questione del fascismo e da che cosa significhi opporsi ad esso. Non solo in termini di strategia politica, ma anche come stato d’animo, come dimensione “morale”. In alcune pagine che valgono il libro Marco Bresciani si sofferma su un testo di Leone Ginzburg dal titolo Viatico ai nuovi fascisti e in cui il tema è costituito dalle scelte, dall’atteggiamento mentale e insieme politico che si matura nella solitudine quando il consenso diventa massimo, quando appoggiare il regine, significa essere consapevoli del ricatto che si subisce ma non avere strumenti, la forza, le condizioni per opporsi.
In quelle brevi pagine, giustamente Bresciani sottolinea come senza arrendersi, Leone Ginzburg consegni ai suoi contemporanei, ai suoi compagni di lotta, ma anche a noi che molti decenni dopo torniamo a rileggere quelle pagine un manuale di sopravvivenza , di compostezza e soprattutto di opposizione quale raramente sono state scritte e dichiarate.
Il terzo tema è costituito dalle spinte che a partire dalla metà degli anni ‘30 e nel periodo febbrile della seconda metà di quel decennio che immette alla guerra svolge l’indagine sul passato, il recupero e la rilettura del pensiero illuminista, dell’esperienza culturale e politica del giacobinismo e dei rivoluzionari in Francia tra Convenzione e Direttorio, nell’autunno del processo rivoluzionario quando diviene più forte e radicale l’elemento della solitudine, ma anche quello dell’intransigenza.
E’ un tema che appassionerà Franco Venturi, ma anche affascina anche Leo Valiani, ancora eretico comunista in quegli anni, segnato dalle vicende della guerra civile spagnola e poi dal patto Hitler-Stalin, ma che, soprattutto, è proprio di un altro eretico e solitario di GL dal profilo culturale politico molto particolare, Andrea Caffi, figura che Bresciani ha studiato a fondo e con attenzione e su cui anni fa ha consegnato un ritratto di grande qualità (La rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell’Europa del Novecento) E’ alla riflesione di Andrea Caffi che si devono molte cose di qudello scaffale di idee e di immagini che accompagnano e costruiscono il vissuto culturale azionista: il giudizio sull’espoerienza sovietica oppure la riflessione sulla dimensione federalista e europeista così come emerge nel corso della guerra.
Il quarto tema, infine, è quello di come si giudichi il quadro italiano, di che cosa significhi ripensare e riflettere sul profilo della storia italiana che dal Risorgimento attraverso l’esperienza dell’Italia liberale giunge al fascismo.
Esiste un vizio italiano, una dimensione del carattere nazionale che spiegherebbe e fonderebbe il fascismo come sbocco coerente (che non significa obbligato) del processo costitutivo del diventare nazionale dell’Italia e della costruzione del sentimento nazionale? Nella discussione che proprio sul Risorgimento avviene sulle pagine di “Giustizia e Libertà” nella primavera del 1935, e in cui si confrontano le molte anime del movimento, il tema alla fine è quello appunto se sia possibile allontanarsi da un destino o, invece, se l’epilogo del fascismo non rappresenti uno sbocco obbligato.
E’ un tema che non si ferma in quegli anni, su cui in anni più vicini a noi è venuto scrivendo – forse ultimo classico di una stagione – Giulio Bollati nel suo L’Italiano. E’ il tema che spesso viene facilmente spiegato ricorrendo al fatalismo, ma che nella sua essenza presenta il carattere esattamente opposto.
Ha scritto una volta Beniamino Placido [L’Italiano di sempre, in “la Repubblica”, 14 agosto 1984, p. 6.] che “ chi fa questo discorso sulla continuità, per non dire della immutabilità del carattere italiano, lo fa per dire: non c’ è nulla da fare, non c’ è nulla da cambiare. Rischia[ndo] di non capire tutte quelle persone che non hanno nessuna indulgenza di nessun tipo per il qualunquismo. E che tuttavia i discorsi sul carattere nazionale se li fanno, li rifanno, magari se li reinventano pure qualche volta. Un po’ per celia, un po’ per non morire. Ma anche e soprattutto per cambiare. Perché i difetti del “carattere nazionale” si possono emendare, neutralizzare, magari utilizzare persino: se si conoscono, se si riconoscono per quello che sono, dove sono”.
E’ il punto mi sembra della discussione sul Risorgimento che attraversa le pagine di “Giustizia e Libertà” nel 1935 e che dice di un aspetto profondo di quella discussione: l’assenza di fatalismo e il richiamo costante alla capacità di fare, di trasformare che quel gruppo riconosce alla politica e che resta, come grande eredità anche di un’esperienza sconfitta, di minoranza in cui tratto essenziale era già presente nella esperienza e nella pratica delle origini: non mollare.
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