Storia

Giorni della memoria. Per fare che?

12 Gennaio 2025

Anni fa, lo storico Giovanni De Luna nel suo La Repubblica del dolore (Feltrinelli) ha ricordato come a partire dal 2000 sull’Italia si sia abbattuta una valanga di date. Oltre al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo. Poi abbiamo il 4 ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d’Italia San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena», dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»; il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni; poi il 12 novembre giornata del ricordo dedicata ai Caduti, militari e civili, nelle missioni internazionali per la pace. Tutto questo nel primo decennio di questo nuovo secolo. Poi il processo si è fermato. Avevamo esagerato? Non lo so.

La domanda vera comunque è un’altra: tutto questo ha contribuito a dare un valore civile allo studio della storia?

La mia risposta è: no.

Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma la domanda è se questa sovrabbondanza di date memoriali abbia un rapporto con il nostro presente e con il nostro futuro oppure no. Io penso che non ne abbia o, comunque quel rapporto sia molto problematico. E penso anche che quella memoria sia consolativa e non elaborativa rispetto al passato. Ovvero non abbia alcuna funzione volta alla crescita civile. E non ne abbia perché il tema è soddisfare le identità ma non produrre un patto di futuro tra contraenti. E aggiungo: quel calendario di date è commemorativo, ma non è un calendario civile.

La funzione di un calendario di date consiste nel ricordare o nel costruire una dimensione civica pubblica? Forse entrambe, ma le due logiche non sono sovrapponibili, se non in pochi casi.

Un calendario di date nazionali individua e riordina il passato di un gruppo umano e dunque il suo proposito è fissarne nel tempo un’identità a cui concorrono sia la memoria che l’oblio, come ci metteva in guardia più di un secolo fa Ernest Renan nel suo Che cos’è una nazione? (Donzelli) e su cui opportunamente ha richiamato l’attenzione Tzvetan Todorov (Gli abusi della memoria (Meltemi).

Un calendario civile, come anni fa ha sottolineato Alessandro Portelli, si costruisce a partire dallo scarto rispetto alla memoria condivisa, ne critica l’impianto e propone di far entrare nello spazio della riflessione pubblica temi, problemi, scene, voci, luoghi, contesti, …. che non trovano spazio.

Non è né un controcalendario. Nasce dalle sensibilità di alcuni attori culturali, politici, sociali che avvertono sia l’insufficienza del discorso pubblico, sia il conformismo della memoria pubblica. La scelta di una data che spesso è la scelta di mettere al centro una scena, una voce, o le parole non usate, quella scelta è l’indicatore di un problema pubblico che sintetizzerei così: un calendario civile è fatto di date, di emozioni, di parole, che si vanno a pescare nel passato lontano, o nei fatti di cronaca per mettere in discussione il linguaggio comune del presente e proporre un’idea possibile di futuro.

Qui sta la differenza strutturale – meglio verticale. tra calendario nazionale e calendario civile.

Il primo – ovvero il calendario nazionale – ha come tema la continuità con il passato cui si riconosce l’origine dell’identità collettiva che si vuol mantenere.

Il secondo – ovvero il calendario civile – prende atto di ciò che si è e contrappone a quello percorsi e proposte al centro delle quali sta la dichiarazione di ciò che si vorrebbe essere. Per farlo opera in due direzioni.

Prima direzione: sceglie date diverse dal calendario nazionale, date che in quel calendario sono mute. Le date mute qualche volta, proprio per la forza e per l’ineludibilità che hanno, diventano date non sono marginalizzabili o silenziabili. Quelle date hanno la caratteristica di essere inquietanti sia per chi le assume sia per chi è costretto ad assumerle. È, per esempio il caso del 12 dicembre che non vuol dire solo bomba a Piazza Fontana, ma anche cortile della questura di Milano, ovvero corpo di Giuseppe Pinelli.

Seconda direzione: indica date di tema, ovvero date che valgono per ciò che esprimono, non solo per l’evento che contengono, ma soprattutto per il significato che si attribuisce a quell’evento. Le date di tema richiedono la costruzione di un contenuto che è anche la definizione di una nuova sensibilità, di un nuovo modo per raccontare contenuti, di una dotazione di parole chiave di hashtag che ne esprimano la forza. Qui sta la capacità di costruire percorsi di public history, di dare forma e configurazione a processi di comunicazione culturale e di svolgimento dei contenuti che sono funzionali alla valorizzazione di quella sollecitazione. La problematicità del 27 gennaio, ma anche del 10 febbraio sta esattamente qui: nella sfida a non farne una giornata per riparare i torti.

Al centro della costruzione di un calendario civile sta un proposito: dichiarare che ciò che si è, la storia passata che si ha, i simboli o le memorie che si hanno non sono il massimo, in breve che si auspica migliorarsi, oppure – e qui sta il problema – che nella data di tema che si sceglie si indica un giudizio di valore: esprime ciò che non si vuole più essere.

Il calendario civile in breve non riguarda la memoria, chiama in causa il progetto per domani. Ed ha una preoccupazione: individuare un profilo che accrediti la cittadinanza, soprattutto di quegli attori che il discorso pubblico attualmente vigente non include.

Il suo fine è dunque la prefigurazione di un mondo più largo.

Ma questo avviene in un tempo in cui, invece, la preoccupazione è definire una riga di confine tra «noi» e «non noi». Forse è qui che la funzione dei giorni di memoria non funziona: perché è volta a definire riscrittura dell’identità nazionale avendo come primo obiettivo chi non includere. In quel caso rispondono al principio di scrivere l’identità della nazione così come al tempo dei nazionalismi di fine XIX secolo e prima metà del XX secolo. Questo, forse, spiega perché i calendari civili con le date memoriali tendono sempre più a essere vissuti come calendari nazionali.

 

Riepilogo.

Un calendario civile è la salvaguardia di temi da associare a immagini o a eventi che fanno in modo che di una storia si conservi il senso. Oppure anche, si rovesci e si stravolga una consuetudine perché gli avvenimenti della storia hanno sconvolto il senso dell’agire, la costruzione del valore della tradizione e impongono che un nuovo ordine si dia.

In questo secondo caso cambia il vocabolario, ma in realtà nell’abbandono o nella messa da parte di parole che fino a quel momento esprimevano il nostro “io”, individuale e collettivo, ciò che cambia è l’enciclopedia, ovvero il valore che si dà alle parole, e anche l’ordine gerarchico dei significati delle singole parole, tutti insieme in un sistema di relazione complesso e che sta nel tempo (e dunque sottoposto anche al suo esaurimento nel tempo).

In breve: il proposito di costruire di un calendario civile ha come presupposto l’abbandono dell’identità con cui ci siamo raccontati fino a quel momento, la fine del patto che quell’identità fondava e l’impegno a scriverne uno nuovo. Un’operazione di rifondazione culturale che non ha come presupposto la nostalgia o il chiudersi a casa propria.

Quelle date indicano un luogo, un tempo, una cultura, un patto politico che a un certo punto hanno prodotto non solo storture, ma profonde disuguaglianze, laceranti sofferenze e spaccature che chiedono di ripensare un patto di futuro per ricucirle.

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