Storia
Gilles Kepel: chiamare le cose con il loro nome
Olocausti, aggiornato o meno nei particolari non è solo la ripresa del laboratorio sul destino dell’Occidente su cui Kepel aveva scritto nel suo Il ritorno del Profeta, ma è, soprattutto, lo sforzo più radicale per proporre la riflessione sulla metamorfosi del sistema di relazioni internazionali a partire dallo scenario aperto dal 7 ottobre 2023.
Tre sono i temi che Gilles Kepel mette al centro di Olocausti:
1) lo scontro tra due radicalismi, sia politici che religiosi, e i meccanismi di una spirale di guerra;
2) le strategie degli attori che temono l’estensione del conflitto o, al contrario, sfruttano l’instabilità regionale;
3) la strumentalizzazione del concetto di genocidio a vantaggio di una lotta contro l’Occidente e i suoi valori.
7 ottobre 2023, inizio di un’operazione denominata da Hamas “diluvio di Al-Aqsa” precisa Kepel, si iscrive nella figura della «razzia benedetta, una figura e uno slogan che trasformano la guerra di liberazione della Palestina nella sua islamizzazione, ovvero la sua identificazione con la jihad [p. 34].
Questo non toglie che tra Israele di Benjamin Netanyahu e Hamas di Haniyeh ci sia stata a lungo una pratica di confidenza costruita negli anni ’10 del XXI secolo e segnata dalle garanzie e dalla copertura che Israele ha fornito ai finanziamenti, in gran parte provenienti dal Qatar, ma garantiti sdalla protezione sia di Netanyahu che di Al-Sisi.
“Per entrambi [ovvero Netanyahu e Al-Sisi] – scrive Kepel – l’obiettivo era evitare l’implosione dell’«enclave» [ovvero di Gaza] «comprando» una relativa pace sociale che avrebbe dovuto garantire i due paesi confinanti” [p. 52].
Di diverso avviso era un’altra linea espressa invece da Yahya Sinwar, più legata ai pasdaran, che di fatto mette in atto l’azione del 7 ottobre e che si ispira all’azione delle brigate Ezzedin – El Qassam e legate a Qasem Soleimani, generale iraniano, dal 1998 alla morte (7 gennaio 2020) capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica.
È il primo cardine della condizione aperta il 7 ottobre su cui invita a riflettere Kepel: quello segnato dallo scontro interno a Hamas sulla linea strategica e sulle alleanze, ovvero sullo schieramento politico, da tenere nel quadro mediorientale. Il tema è quale sponsor riconoscere.
L’altro cardine, per certi aspetti simmetrico e parallelo, è il quadro israeliano che ruota intorno ai progetti e alla fisionomia politica e ai caratteri dei due attori principali del governo – ovvero Otzma Yehudit di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza, e il partito sionista religioso di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze – che consentono a Netanyahu, di tenere in carica il governo, e dunque di evitare che l’attuale primo ministro subisca una procedura giudiziaria per frode, corruzione e favoritismo (accuse per le quali, se condannato, Netanyahu rischia sedici anni di carcere), hanno un programma politico, scrive Kepel, simile a quello dei Fratelli musulmani [p. 65].
Il dato politico, in questo caso è che la forza di penetrazione di quel progetto, più che su una politica della convinzione, spiega Kepel, si tiene, sulla radicalità della replica all’azione genocidaria del 7 ottobre: quanto più la guerra è proposta come azione di soluzione definitiva, tanto più è costretta a prolungarsi nel tempo, consentendo che la procedura giudiziaria si insabbi. Contemporaneamente il dato è la progressiva politica di conquista e di giudaizzazione nei territori occupati della Cisgiordania che segna l’identità politica di un governo che trova analogie nelle politiche in atto in Medio Oriente, per esempio, nel profilo politico della Turchia di Erdogan.
Da questo lato il conflitto e la sua fisionomia, proprio in relazione all’instabilità regionale, rappresenta un’opportunità per molti attori, sia geograficamente prossimi all’area interessata dal confronto militare, sia lontani. Riguarda l’Arabia saudita e la sua ricerca di un ruolo non solo regionale, ma anche internazionale (in un tempo che aperto dal suo ingresso nei Brics); riguarda la Cina; riguarda non ultima la Russia intenzionata a riavere un ruolo che non si limiti a quello di massacratore in Siria (e comunque a non essere identificata come espansionista, un ritratto che la metterebbe in coppia con l’immagine dell’«occupante sionista»).
Qui si innesta un ulteriore elemento su cui invita a riflettere Gilles Kepel: la conseguenza politica della vicenda aperta il 7 ottobre 2023 volta a riscrivere complessivamente non solo i rapporti tra Nord e Sud del mondo, ma anche a condizionare fortemente il sistema delle relazioni internazionali [p. 147 e sgg.]. Il tema così non è entrare nello specifico dell’accusa, ma definire un quadro che riscrive principi, criteri, strategie, valori su cui si costruisce la mappa dei punti di frizione (culturali, geografici, etnici, identitari) dei pezzi di mondo in opposizione una volta chiaro che si sono disintegrate le due opposizioni con cui abbiamo «pensato mondo» dopo la Seconda guerra mondiale: quella tra Occidente e Oriente e quella Nord contro Sud.
Non vuol dire che sono scomparse le categorie, ma che ciò che abbiamo identificato con quelle categorie non è più la stessa cosa E dunque che occorre riprendere le misure.
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