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Giacomo Matteotti, ovvero le derive della memoria
Non sono certo mancati, negli ultimi mesi, gli accorati omaggi a Giacomo Matteotti, brutalmente assassinato dal potere fascista il 10 giugno 1924. Evidentemente, la resistibile ascesa di Giorgia Meloni e della nutrita compagine missina transitata in Fratelli d’Italia ha contribuito a caricare di significato simbolico questo centenario. La Segretaria del PD Elly Schlein ha invocato a più riprese l’exemplum del martire politico per denunciare il clima di intimidazioni instaurato dall’Esecutivo al fine di forzare la mano su decentramento e premierato. In alternativa, il richiamo a Matteotti è servito a Schlein, piuttosto reticente sulle polemiche del deputato socialista con i comunisti, per commemorare uno “straordinario antifascista”, un “padre della democrazia”. Purtroppo, né la Segretaria né altri esponenti di spicco della frammentata, annichilita, culturalmente carente opposizione hanno concepito pensieri più elevati di questi. Sempre più tirannica e manipolata, l’immediatezza emotiva e identitaria della memoria ha ancora una volta avuto la meglio sulla storia, l’unica che, se eticamente orientata, può sfociare in prassi politica e iniziativa costruttiva.
Eppure la storiografia avrebbe compiuto sforzi non trascurabili per rivalutare la traiettoria del socialismo pragmatico matteottiano oltre la cronaca tetra e spesso voyeuristica del delitto. Penso alle eccellenti biografie di Federico Fornaro, Mimmo Franzinelli, Mirko Grasso, Maurizio Degl’Innocenti, Stefano Caretti, Marzio Breda, le quali hanno saputo raccontare e reinterpretare il Matteotti infaticabile e competente amministratore nel Polesine, il Matteotti garantista e fine giurista, il Matteotti fondatore del Partito Socialista Unitario con Turati, Modigliani e Treves, il Matteotti antimilitarista e risolutamente contrario all’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale (“abbasso la vostra patria”), il Matteotti di Un anno di dominazione fascista e irriducibile oppositore di Mussolini fuori e dentro le aule di Montecitorio. Il lavoro degli storici ha ulteriormente rafforzato la validità dell’analisi che, all’indomani dell’omicidio, Carlo Rosselli, futuro fondatore di Giustizia e Libertà, pubblicò nel 1934 nell’Almanacco socialista: Matteotti, sosteneva Rosselli, “ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava”.
Inoltre, questa riuscita operazione storiografica ha opportunamente messo in luce quanto il socialismo matteottiano, sintetizzando utopia, slancio etico e metodo riformatore senza rinunciare alla critica delle contraddizioni insite nel capitalismo agrario e industriale, avesse un respiro europeo e una consistenza non solo pratica ma anche intellettuale. È allora ingeneroso (o in cattiva fede) chi oggi accosta Matteotti al riformismo inteso quale arte del compromesso al ribasso, immobilismo democristiano ammantato di belle intenzioni, prudenza barocca à la Torquato Accetto.
Non sembra, tuttavia, che, a sinistra, la riscoperta del Matteotti storico abbia suscitato reazioni politiche degne di nota. Il deputato di Fratta Polesine (Rovigo) è stato seppellito due volte: la prima dal totalitarismo fascista, la seconda dalla coltre fumosa della celebrazione retorica e dell’apoteosi istituzionale. Queste derive della memoria, segni di un’impasse culturale preoccupante e, forse, di un regime di storicità non più progressivo, sono servite a mascherare il vuoto progettuale di chi, dalla ratio della storia, “preparante” ma “indeterminante” (Benedetto Croce), avrebbe dovuto trarre ispirazione nell’agire politico. È così che è potuta passare inosservata, ad esempio, l’articolata visione democratica di Matteotti, la sua eredità politica più preziosa nei nostri tempi di post-democrazia, egemonia neoliberista e heideggeriano predominio della tecnica. Oltre a promuovere il parlamentarismo in risposta alle soluzioni scopertamente autoritarie caldeggiate da fascisti, nazionalisti e liberali, Matteotti comprese al pari di Jean-Jacques Rousseau, Pierre-Joseph Proudhon, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu e, più tardi, Cornelius Castoriadis e Pierre Rosanvallon che la democrazia partecipativa è soprattutto un problema sociale, o di eguaglianza socioeconomica, pedagogico, o educativo e culturale, e spaziale, e cioè di prossimità territoriale tra elettori e poteri e micropoteri politici. Al populista e arrogante statalismo fascista, il socialismo municipale di Matteotti, decisamente incompatibile con la secessione dei benestanti auspicata da leghisti e meloniani, contrapponeva dunque le autonomie locali, l’amministrazione finanziaria comunale e la graduale costruzione democratica dal basso, la via verso “una maggiore civiltà” (Critica sociale, 1-15 maggio 1922). “Il Bilancio, i Conti, le Imposte”, precisò ancora Matteotti, “sono appunto gli strumenti del mestiere dell’Amministratore pubblico, che il socialismo vuole sottratto ai capitalisti per darlo ai lavoratori”.
Ma questo non è che un frammento del lascito matteottiano, che qualcuno ha perfino classificato come “riformismo rivoluzionario”. Il ricorso, da parte del PD e formazioni affini, alla santificazione di Matteotti per dissimulare un disinteresse politico evidente è l’indizio risolutivo dell’ormai completa borghesizzazione delle sinistre nazionali a detrimento delle classi più bisognose di protezione. Il centenario del delitto, insomma, compendia con rara efficacia le ambiguità della memoria, il dissolto rapporto tra storia e politica e la drammatica assenza di modelli sociali alternativi a quello sovranista, classista, accentratore e acriticamente atlantista portato avanti da Giorgia Meloni. Per la prima volta nella storia del progressismo, la linea di fondo somiglia all’ottimismo naïf deriso da Voltaire nel Candide: tutto è bene, tutto va a gonfie vele.
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