Storia
La montagna degli armeni: cent’anni dopo il genocidio
Il 24 aprile 1915 la Turchia diede il via al genocidio di questo popolo. Durante l’estate in cinquemila resistettero su un monte, il Mussa Dagh, prima di essere salvati. Reportage pubblicato dieci anni fa su Diario, in occasione del novantesimo anniversario.
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«Perseguitati dai turchi, circa cinquemila armeni, tra cui tremila donne, fanciulli, vecchi, si erano rifugiati verso la fine di luglio nel massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia di Antiochia, dove erano riusciti fino ai primi di settembre a tener testa agli aggressori; ma da allora gli approvvigionamenti e le munizioni cominciarono a venir meno, ed essi erano sul punto di soccombere inevitabilmente, quando riuscirono a segnalare a un incrociatore francese la loro grave situazione. Gli incrociatori della squadra francese, che facevano il blocco delle coste della Siria, recarono subito soccorso e poterono assicurare lo sgombero dei cinquemila armeni che vennero trasportati a Port Said, dove ricevettero la migliore accoglienza e furono installati in un accampamento provvisorio».
Leggi I quaranta giorni del Mussa Dagh e pensi: vorrei andarci lì, vorrei vedere i luoghi dove cinquemila armeni hanno resistito per oltre un mese agli attacchi dell’esercito turco. Poi prendi un atlante, lo apri, guardi e cerchi. Mussa Dagh? Non c’è? E nella versione turca, Mussa Ler? Niente. Della montagna di Mosè, questo il significato del nome, non c’è traccia. Dov’è: in Siria? In Turchia? La maniera migliore per distruggere è cancellare. Anche i nomi, anche la memoria. Il Mussa Dagh non esiste, oggi: sparito dalle carte geografiche.
Bisogna cercare in internet, consultare qualche amico armeno, e alla fine la questione si risolve: il Mussa Dagh si trova in Turchia, in una regione, la Cilicia, che un tempo apparteneva alla Siria e non lontano da una città piuttosto nota, Antiochia (l’attuale Antakya), dove san Pietro fu vescovo prima di andare a Roma (in ogni caso ti mostrano una chiesa rupestre dicendo che è quella di san Pietro) e dove nacque l’evangelista Luca. È solo un caso, ma viene da pensare a uno scherzo del destino: da questi luoghi dove nacque il cristianesimo 1915 anni più tardi gli ultimi cristiani armeni in fuga furono costretti a imbarcarsi sulle navi francesi per sfuggire al genocidio che stava decimando i loro correligionari.
La Turchia non ha soltanto cancellato la presenza armena, uccidendone un milione e mezzo sui due milioni che erano, e costringendo i superstiti alla diaspora, ma sta continuando a cancellare la memoria del genocidio. I diplomatici turchi sono pronti a scatenarsi se qualcuno «osa» citare il genocidio armeno, ufficialmente inesistente: di recente hanno tentato di far chiudere una mostra a Londra e sono riusciti a far modificare i libri di storia del Land tedesco del Brandeburgo che citavano il suddetto genocidio (poi reinserito in seguito a una furiosa campagna stampa).
Nel 1915 la Turchia ottomana, decrepita, ma religiosamente tollerante (quanti cristiani nel corso dei secoli precedenti si erano «fatti turchi» per sottrarsi al violento conformismo religioso imposto dalla Chiesa di Roma) sta ormai definitivamente lasciando il posto alla Turchia laica, ma ultranazionalista e intollerante, di Kemal Atatürk e dei suoi «giovani turchi». Il 24 aprile 1915 (giusto 90 anni fa, quindi) è il giorno più infausto per gli armeni. Gli esponenti di maggior rilievo della comunità di Costantinopoli, l’odierna Istanbul, vennero ammazzati e poi a valanga toccò a tutti gli altri. Nell’estate di quell’anno centinaia di migliaia di armeni, quelli che erano sopravvissuti ai massacri e agli stupri di massa, furono concentrati ad Aleppo (dove pure esisteva, e qui per fortuna resiste ancora, una comunità armena. Gli allora proprietari del mitico Baron’s Hotel – ci andavano Lawrence d’Arabia e Agatha Christie – Onige e Armen Mazloumian si dettero da fare e riuscirono a salvarne un po’. «Qualche centinaio, niente in confronto al milione e mezzo di morti», dice il nipote Armen Mazloumian, attuale gestore del Baron’s, «ma sempre qualcosa»).
Da Aleppo partirono e furono fatti marciare per giorni e giorni nel deserto, senza cibo né acqua. I pochi che ce la fecero e non morirono lungo la strada furono abbandonati nel nulla, vicino all’odierna città siriana di Dayr az Zawr, a 320 chilometri di distanza. Avevano loro raccontato che si sarebbero potuti reinsediare in quei luoghi. In realtà attorno c’era solo deserto. Ancora oggi in quelle che vengono chiamate «grotte degli armeni» si trovano ossa, oggetti, pezzi di stoffa. Ogni tanto arriva qualcuno a pregare. Normalmente da molto lontano: Francia, Stati Uniti, Canada.
La negazione continua. Il lavorio negazionista della Turchia, in ogni caso, qualche effetto lo provoca: se questo articolo parlasse di Olocausto non ci sarebbe stato bisogno di specificare luoghi e date: tutti sanno cos’è Auschwitz. Ma quasi nessuno sa delle grotte nel deserto. La lobby armena negli Stati Uniti (che c’è ed è attiva) non è tra le più potenti e non ha Hollywood dalla sua (un’eccezione è il recente Sideways dove si vede un matrimonio armeno, ma pensate un po’ a quanti film sono stati fatti sul Tibet), gli ebrei e gli armeni solidarizzano moltissimo a livello personale, ma pochissimo sul piano ufficiale. Israele ha nella Turchia l’unico Stato islamico alleato e se lo vuole tenere stretto. Con ciò si spiega perché una volta Simon Peres, da ministro degli Esteri israeliano, abbia detto che quello armeno non è un genocidio, ma «una tragedia».
Vakifli è l’unico villaggio armeno rimasto in tutta la Turchia (si noti bene questo fatto: l’unico centro interamente armeno ancora esistente in uno Stato di 68 milioni di abitanti) ed è quello che resta dei sette villaggi armeni che si trovavano alle pendici del Mussa Dagh, la montagna simbolo della resistenza al genocidio. Uno scrittore ebreo boemo, Franz Werfel (come tutti gli ebrei praghesi era di madrelingua tedesca, vedi Franz Kafka), conobbe l’epopea del Mussa Dagh, se ne interessò a fondo, e ne scrisse un memorabile romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh (Die vierzig Tage des Mussa Dagh). «Quest’opera fu abbozzata nel marzo dell’anno 1929 durante un soggiorno a Damasco. La visione pietosa di fanciulli profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno. Il libro fu composto dal luglio 1932 al marzo 1933», scrisse Franz Werfel. La prima edizione italiana è del 1935, uscita nella Medusa di Mondadori. Corbaccio l’ha ristampato nel 2003, purtroppo con la medesima datata e retorica traduzione.
Werfel ebbe anche un’intuizione tragica: «Quel che hanno fatto agli armeni un giorno lo faranno a noi». In effetti quando Hitler pianificò l’Olocausto con i suoi collaboratori commentò: «Chi si ricorda oggi degli armeni?».
Vakifli è un appellativo giuridico-burocratico ottomano, significa: «Proprietà appartenente alla minoranza», tanto per mettere le cose in chiaro. Anche lì, come ovunque in Turchia, c’è il busto di Atatürk d’ordinanza e accanto alla chiesa armena sventola la bandiera rossa con la mezzaluna bianca, come su tutti gli edifici pubblici e di culto turchi. Ma Vakifli non è un luogo qualunque: per gli armeni è un po’ come se qualcuno avesse collocato un busto di Hitler in mezzo a un ghetto, o cone se la bandiera con la croce uncinata sventolasse, oggi, accanto a una sinagoga. Nessuno lo dice, per paura, ma il pensiero corrente è questo. Ora le cose vanno un po’ meglio, Ankara ha allentato la pressione sulle minoranze per accontentare Bruxelles e aprire le trattative di adesione all’Unione europea. Ma le ferite bruciano sempre.
La difesa del silenzio. A Vakifli, 35 case e 40 famiglie, una chiesa restaurata abusivamente otto anni fa perché i permessi non arrivavano mai, un cimitero diviso in due dalla strada che attraversa il villaggio, stanno via via arrivando sempre più giornalisti. Qualcuno si ricorda dei 90 anni del genocidio. «Vengono stranieri, ma anche turchi. La gente però non parla volentieri con loro perché non sa chi sia davvero un giornalista e chi invece sia venuto per sentire come la pensano sulla Turchia e sulla questione armena». A parlare così è Elis Bisanz, 45 anni, insegnante di semiotica ed estetica all’Università di Lüneburg, vicino ad Amburgo, in Germania. La sua storia è sintomatica di come siano andate le cose da queste parti. È nata in Libano, dove suo padre era fuggito dalla natìa Vakifli. Poi è emigrata in Germania, ha sposato un tedesco, si è costruita una vita e ha due figli ormai grandi. Suo padre, ora morto, non aveva mai più messo piede a Vakifli da quando se n’era andato. Il nonno era il prete del villaggio (i sacerdoti gregoriani armeni possono sposarsi) ed è morto, vecchissimo, pochi anni fa. Lei ci è venuta per la prima volta in vita sua nel 2002. Ora ci è tornata, per qualche giorno, e la prossima estate conta di portarci i figli, per far loro vedere la casa del nonno, per conoscere i cugini che sulle pendici del Mussa Dagh sono rimasti.
Dentro di lei si dibattono sentimenti complessi e contraddittori, come spesso accade nell’intimo degli oppressi, degli sradicati. «Come armena del Mussa Dagh», osserva, «sono contenta che la Turchia entri nell’Unione europea perché finalmente sarò libera di andare e venire dalla mia terra. Come armena tedesca sono fermamente contraria perché Ankara non rispetta i diritti umani. Io avevo paura dei turchi, sono stata allevata con un’educazione antiturca, la prima volta che mi sono trovata in mezzo ai turchi, in aeroporto e nell’aereo, avevo paura. Ora che sono qui è diverso, mi è passata. Stando qui abbiamo una sensazione di pace che sgorga dall’intimo. Anche la diaspora è schizofrenica: molti armeni della diaspora sognano le terre da dove provengono, ma gli armeni che abitano qui non amano parlare della diaspora, ne hanno paura e hanno paura delle conseguenze».
(Foto di copertina tratta dal film “Ravished Armenia”, 1919)
Una strada tra i monti. In effetti la sensazione che dà oggi Vakifli è di pace assoluta. Per arrivarci bisogna avere una buona carta e un’altrettanto buona dose di fortuna: le indicazioni stradali sono un’opinione tra questi viottoli di montagna. Si prende la strada che da Antakya va al mare e a un certo punto si devia verso l’interno. Da lì in poi è tutto un chiedere e un provare e riprovare, esultando quell’unica volta (unica!) in cui si scorge un cartello con scritto che Vakifli è a quattro chilometri. Nel paesino non si vede quasi nessuno. Verso mezzogiorno passa un pullmino di ragazzini: è il secondo turno della scuola elementare (ci sono 15 bambini e quattro ragazzi in paese, ora il nemico è lo spopolamento: i giovani vanno a studiare a Istanbul e non tornano più). Si intravvede qualche anziana affaccendata nell’orto di casa e qualche anziano sulle panchine sotto gli alberi accanto a un’edificio con uno squallido stanzone che dev’essere una specie di centro di ritrovo. Qualcuno passa a cavallo, un mezzo di trasporto ancora comune. Tutt’attorno al paese, splendidi aranceti, con frutti grossi come un pugno: è l’unica fonte di sostentamento per gli abitanti. Vivono portando le arance al mercato, con qualche problema perché la terra non è loro, nel corso degli anni se la sono accaparrata ricchi proprietari turchi e arabi (questa era Siria, come detto, e la maggior parte della popolazione è araba, non turca; così accade che minoranza armena e minoranza araba in Turchia vadano abbastanza d’accordo, soprattutto per proteggersi da Ankara).
E poi c’è la chiesa, come detto. Non è antichissima, e si vede. Risale al 1929. «Dei sette villaggi armeni attorno al Mussa Dagh», spiega Bisanz, «questo era il più piccolo, non aveva chiesa. Gli altri avevano chiese del IX e X secolo. Oggi alcune sono rovine, altre sono state trasformate in moschea». Nella chiesa di Vakifli, però, si officia solo di rado. Il vecchio prete è morto un paio d’anni fa, quasi novantenne. Da allora la parrocchia è vacante. Il sacerdote deve venire da Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli, e arriva a Natale, Pasqua, per la festa della Madre di Dio a cui la chiesa è dedicata, e per i funerali. La chiesa armena condivide con quella ortodossa turca un ulteriore problema: ci sono sempre meno preti. Il governo di Ankara ha chiuso il seminario e non permette che officino i riti sacerdoti provenienti dall’estero, dalla Repubblica d’Armenia, o dai Paesi della diaspora. Se non cambierà qualcosa, i patriarcati cristiani di Costantinopoli saranno costretti a chiudere per consunzione.
Quando agli armeni del Mussa Dagh venne ingiunto di abbandonare le proprie case, decisero di non farlo e di resistere.
«Poco dopo il tramonto, il popolo dei sette villaggi s’era messo in cammino, diviso per schiatte e per famiglie, carico di fardelli, per salire sul monte dalle diverse strade più vicine a seconda del punto di partenza. Quantunque gli abitanti di questa valle non fossero poveri, solo la minor parte delle famiglie possedeva un asino da sella o da soma. Spesso due famiglie tenevano un animale in comune. Già la luna aveva sorpassato la metà del cielo e le tribù ansanti continuavano a sfilare. Sempre lo stesso quadro: alla testa, piantando cupo il bastone innanzi a sé, il padre di famiglia col suo fardello. Le donne barcollavano sotto carichi che piegavano le loro spalle fin quasi a terra. E intanto dovevano badare continuamente alle capre, che non si smarrissero», scriveva Werfel.
Gli armeni resistettero in cima al Mussa Dagh. Erano male armati: solo una cinquantina di fucili moderni, il resto vecchiume vario e armi da caccia. Ma, grazie ai trinceramenti e alla consapevolezza che la sconfitta avrebbe significato la morte, riuscirono a respingere vari attacchi da parte delle truppe turche, dotate sì di un’inarrivabile superiorità tecnica, ma assolutamente svogliate nello svolgere il compito di stanare quasi uomo per uomo i combattenti armeni.
La lunga attesa. I giorni passavano e nel golfo di Antiochia non si vedevano navi. Finché una buona volta un’unità francese di base nella vicina Cipro, attirata da un incendio, si avvicinò alla costa e vide lo striscione bianco che gli armeni avevano issato sulla cima del monte. «Aiuto, cristiani in pericolo», c’era scritto. Venne l’incrociatore Guichen, poi arrivò una squadra navale. I francesi aiutarono gli armeni cannoneggiando le posizione turche e quindi fu presa una decisione insolita per delle unità da guerra: caricare tutti e portarli in salvo. I cinquemila del Mussa Dagh furono sistemati a Port Said, in Egitto. Nessuno tornò, con un’eccezione: quelli di Vakifli. I primi rientrarono nel 1926, gli ultimi tre anni più tardi e nel 1929 la chiesa era ormai terminata.
Visto dal mare, dalla spiaggia su cui sbarcarono i francesi, il Mussa Dagh non è una gran montagna: un panettone di 1.281 metri che sovrasta placido il Mediterraneo proprio nel punto in cui i romani fondarono Seleucia Pieria, ovvero la città che sarebbe dovuta essere la capitale della Cilicia e invece, a causa della difficoltà a difenderla, fu degradata al rango di porto di Antiochia. A mezza costa si vede chiaramente un centro abitato, con il suo minareto che svetta tra le case. Elis Bisanz aveva detto che nei sette villaggi armeni i più ricchi abitavano in quelli vista mare, i poveracci si accontentavano del versante interno, come a Vakifli.
Da Kapisuyu, questo il nome, del villaggio a mezza costa (Kapusyé in armeno), il mare si vede, eccome. In certi punti sembra di stare in una cartolina per quanto è bello il paesaggio delle verdi pendici del Mussa Dagh che digradano verso il celeste del mare. La strada (da quelle parti il concetto di strada diverge parecchio da quello a cui siamo abituati) si ferma su uno slargo a fianco della moschea. Si vede chiaramente che era una chiesa, il minareto – quello che si scorgeva dalla spiaggia – è un campanile mozzato con la sommità rifatta. Adem Coskun, 15 anni, e Onder Aksel, 18, prendono in consegna il visitatore. Il primo è uno studente, indossa ancora la divisa della scuola, pantaloni carta da zucchero e maglioncino bordeaux, il secondo fa il contadino. Adem corre a casa a depositare lo zainetto e lo scambia con un vocabolario turco-inglese. Comincia il tour. I due sembrano sapere perfettamente cosa sta cercando il visitatore. Mostrano vecchie abitazioni in pietra. Il più anziano spiega: «Ermeni house». Non c’è bisogno di vocabolario.
Le vecchie case armene sono per lo più o vuote o trasformate in stalle accanto alle quali i subentrati abitanti turchi hanno costruito delle nuove case in mattoni. Gli armeni usavano fango e paglia per tenere insieme le pietre e l’impasto continua a resistere, dopo tanti anni. Ci sono ancora molte finestre con la grata di legno, tipica delle case ottomane, e i ragazzi le indicano quando dicono: «Ermeni house».
Ciò che impressiona più di tutto è una bellissima ex cappelletta da cui sgorga uno zampillo d’acqua. Un tempo era oggetto di culto, ora c’è una vacca che si abbevera. Onder strappa delle piante che nascondono una lapide in armeno, datata 1824. Sarà poi Baykar Sivazliyan, docente di armeno all’Università di Milano e di turco in quella di Lecce, a chiarire di cosa si tratti. È una cappella per i viandanti, dove si poteva prendere acqua e recitare una preghiera prima di proseguire il cammino. La lapide è dedicata a un tale che nel 1824 l’ha fatta restaurare. La cappelletta, infatti, appare costruita in epoca precedente.
La memoria cancellata, la memoria oltraggiata. I tremila abitani di Kapisuyu sanno che prima di loro c’erano gli armeni, ma nessuno ha spiegato loro perché se ne siano andati. La storiografia ufficiale turca afferma che c’era la guerra, che gli armeni guardavano con speranza alla Russia (in parte vero, ma la stragrande maggioranza degli armeni serviva fedelmente nell’esercito turco; un po’ come gli italiani di Trieste: il 10 per cento passò le linee, il restante 90 combattè con gli austroungarici) e che quindi si trattava di nemici che poi se ne sono andati. Punto. Ed è già tanto che qualcuno sappia che c’erano dei villaggi armeni poi svuotati.
Aden e Onder continuano nel loro tour. Ora ci si lascia il paese alle spalle e ci si inoltra nel bosco. Arrivati alle pendici di una parete rocciosa si sale in cima a una scala di ferro e si giunge su una terrazza a una quindicina di metri di altezza. C’è una rientranza, che i ragazzi spiegano essere un altare, c’è una specie di pozzo e, accanto, un rialzo nella pietra con una canaletta. Sotto questo rialzo rivoli bruni di sangue rappreso indicano che in quel punto si fanno dei sacrifici. Sull’orlo del pozzo e all’interno dell’altare si vedono dei carboni spenti e granelli di incenso ancora incombusti. Sugli spuntoni della roccia all’interno dell’altare sono legati decine e decine di nastrini di stoffa. Chi venga qui a fare sacrifici e accendere incenso non è chiaro. I ragazzi dicono: «Turisti, dall’Inghilterra, dalla Francia». Ovviamente è improbabile che si tratti di turisti come li intendiamo noi.
Una casa armena più grande delle altre (doveva essere della famiglia più ricca del paese) ha una data sul montante in pietra del portone che dà accesso al cortile, 1834, e un nome: Garabet (Carlo), probabilmente la persona che l’ha fatta costruire. Dentro ci sono gli attuali abitanti e un’atmosfera di rovina che stringe il cuore. Troppo grande e troppo costosa per due anziani contadini, la casa armena ha conservato la struttura originaria. Soltanto che cade a pezzi. Al primo piano, entrando nelle stanze vuote dopo aver passato un ballatoio di legno dall’aspetto molto poco rassicurante, si vedono le finestre a grata riprodotte come mensole e vecchie cose abbandonate. Due anfore di terracotta appaiono piuttosto vecchie. Abbastanza per essere appartenute agli scomparsi abitanti armeni? Chissà dove saranno oggi i discendenti di quella famiglia. Se gli antichi inquilini sono andati in cima al monte, con ogni probabilità saranno sopravvissuti. I loro nipoti oggi potrebbero vivere nei grandi centri della diaspora armena: Chicago, Marsiglia, Buenos Aires.
Eppure potrebbe essere diverso. È bello pensare che se il governo turco avesse un atteggiamento diverso nei confronti del genocidio armeno, e si decidesse una buona volta di chiedere scusa, invece di negarlo, qui potrebbero arrivare i soldi della diaspora e queste vecchie case essere recuperate. Vakifli potrebbe essere un punto di riferimento per gli armeni di tutto il mondo e il Mussa Dagh essere quello che dovrebbe essere: meta di silenzioso pellegrinaggio.
Invece, se non si va a cercarne le tracce in mezzo alla montagna, non c’è niente, qui, che parli di armeni. Sulla costa è di recente sorto un paesino, Çevlik, che è tutto un susseguirsi di ristorantini e alberghetti. «Viene un sacco di gente qui d’estate», spiega il proprietario di uno di questi locali, «arrivano dalla Germania, dalla Francia, anche dall’Italia». Turisti che arrostiscono al sole esattamente sulla spiaggia dove ai primi di settembre di 90 anni fa sbarcarono i francesci, angeli salvatori di cinquemila che resistevano lassù, sulla cima di quella montagna che basta alzare gli occhi dalla sabbia scura della spiaggia per vedere.
Nulla, nessuno, spiega a questi turisti che cosa accadde lì dove oggi vanno in vacanza. Un cartello, una corona di fiori, un minimo di pietà umana per le vittime del genocidio e di rispetto per chi a quel genocidio seppe sottrarsi resistendo con le armi. Niente. Solo oblio e bandiere turche.
Reportage pubblicato dieci anni fa su Diario, in occasione del novantesimo anniversario.
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