Storia
Franco Della Peruta storico. Raccogliere, organizzare, fare e «far fare»
A dieci anni dalla morte di Franco Della Peruta (13 gennaio 2012), vale la pena tornare a riflettere sulla sua figura di storico.
Considero soprattutto la sua fisionomia di costruttore di luoghi per la ricerca storica, anche deputati a rinnovare profondamente la didattica della storia.
Divido questo ritratto parziale (molte altre cose si dovrebbero scrivere per dare un ritratto complessivo soddisfacente) i due quadri distinti: il primo descrive Franco Della Peruta come la biografia di un’avventura; il secondo batte una strada più tradizionale e propone alcuni temi della sua riflessione, ma anche che cosa ci sia di innovativo non solo in ciò che scrive ma, soprattutto, per ciò che promuove.
Alla morte di Franco della Peruta (13 gennaio 2012) Dino Messina, sul “Corriere della Sera” lo ricordò con affetto e con rispetto.
Scrisse che Franco Della Peruta, era stato uno dei maggiori storici del Risorgimento. Che molti avrebbero ricordato i suoi importanti contributi, a cominciare da I democratici e la rivoluzione italiana, il saggio edito da Feltrinelli e poi riedito da Franco Angeli, che lo aveva rivelato nel 1958; che aveva insegnati alla Statale di Milano negli anni in cui anche altri grandi formatori di generazioni erano passati per quelle aule (Giorgio Rumi, Enzo Paci, Ludovico Geymonat, Marino Berengo tra gli altri); che era stato uno studioso di formazione marxista, iscritto sin da giovane al partito comunista, e uno dei maggiori esperti di Carlo Pisacane, Filippo Buonarroti, Giuseppe Mazzini. Presidente dell’Istituto lombardo di Storia contemporanea, direttore o condirettore di importanti riviste come “Movimento operaio”, “Studi storici”, “Storia in Lombardia”, nella querelle sul carattere popolare o elitario del Risorgimento è stato sempre a favore della prima tesi. Con una precisazione: che il Risorgimento fu sì un movimento di massa, ma di masse urbane, in un’Italia in cui la maggioranza della popolazione abitava nelle campagne” e poi per chiudere “Franco Della Peruta aveva un tratto amabile e forse il meglio l’ha dato nel rapporto con gli studenti”.
In questo rapido schizzo ci sono molte cose, quasi tutte (manca un accenno a Carlo Cattaneo, autore importante per Della Peruta, non solo negli anni ’50, ma soprattutto nell’uso politico strumentale che ne verrà fatto dalla Lega Nord a partire dagli anni ’80 del’900, da cui muove Maurizio Bertolotti nel suo profilo critico di Della Peruta) ilsuo ritratto Eppure non si capirebbe il fascino e la capacità magnetica di Franco Della Peruta come ha ricordato Maria Luisa Betri, se non si dicesse ancora due o tre cose che parlano non solo di lui, ma dell’Italia di cui era espressione.
Franco Della Peruta (nato a Roma nel 1924), una parte ella famiglia era siciliana, era figlio di classi popolari, e come capita spesso a coloro che vivono lo studio come riscatto sociale per tutta la famiglia che non ha superato la fascia dell’obbligo scolastico, era uno che a scuola andava forte, perché quella era una chance che non si poteva sprecare. In un’Italia che appena finita la guerra e che faceva fatica, quella intelligenza poteva o sprecarsi o trovare un’opportunità.
L’opportunità arrivò nel 1949 quando fu indicato a Giangiacomo Feltrinelli come un giovane di talento che, soprattutto, “aveva voglia di fare”, che “non si tirava indietro” e che andava diretto al centro delle cose.
Giangiacomo Feltrinelli aveva due anni meno di lui. L’opportunità che si presenta lo affascina. Fare storia significa: ricercare documenti, radunarli, ordinarli, studiarli e, soprattutto, dare l’opportunità a molti di studiarli. Franco Della Peruta aveva le sue passioni: erano Carlo Pisacane, i contadini diseredati, le folle povere che nel 1848 entrano di forza nella storia.
Ma soprattutto il tema è costruire un’altra idea di Risorgimento dove centrali non sono solo le classi di governo, ma sono i miseri, gli sconfitti, i sogni, il dialogo e il confronto con i democratici europei tedeschi, polacchi, spagnoli, ungheresi, spesso esuli che cercano una propria rivincita, che provano a ricominciare. Ovvero: altre storie del Risorgimento che non fossero solo i moderati, la destra storica, casa Savoia.
In breve: Il Risorgimento che in Italia era stato raccontato per cento anni e tre generazioni.
Si trattava, invece, di contribuire e agire per provare a scrivere una nuova storia dell’Italia dove contassero le passioni, le malattie, la vita quotidiana, le professioni e i mestieri, i contadini e le plebi, i rivoluzionari che provano a mobilitare il popolo, spesso pagando di persona un’idea di domani che non trova le gambe per camminare, ma attraversa sotto traccia la storia lunga del Paese.
Quella storia lunga fatta di molti attori diversi si trattava, dunque, di iniziare a raccontare creando luoghi che radunino documenti, ma anche aiutando a crescere una nuova generazione di storici, di operatori culturali che avessero la passione di raccogliere fonti, insegnare loro a organizzarle, a «fare» e a «far fare».
Franco Della Peruta inizia nel 1949 e fino alla fine non ha mai smesso.
Oltre a «fare» e a «far fare», poi ci sono i poli tematici di studio che esprimono la personalità di Franco Della Peruta. Ne individuo due su cui ha costruito gran parte della sua produzione storiografica.
Il primo polo riguarda il «decennio di preparazione» del 1849-1859, dove è prevalente, anche in forza di una conoscenza profonda dei giornali e delle gazzette che segnano la formazione culturale e politica di quel decennio (attentamente ricostruita nel volume Il giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all’Unità), la percezione dell’Italia reale in quel torno di tempo.
È Il tema dell’Italia reale del Risorgimento che vuol dire oltrepassare il mito del Risorgimento e scavare nelle fonti per la ricostruzione delle matrici, delle origini dei percorsi organizzativi, sociali e culturali del primo movimento operaio. Indagine che mette a tema le forme di organizzazione politica che attraversano la società italiana tra Restaurazione e tempo della Destra storica. Ovvero: il confronto tra Mazzini e Bakunin; le prime forme dell’organizzazione dell’Internazionale in Italia tra anni ’60 e anni ’70 dell’Ottocento.
Sono i temi su cui sviluppa i suoi primi saggi che ne marcano la personalità di storico e in cui le fonti del patrimonio che sta contribuendo a costruire in Biblioteca Feltrinelli sono assolutamente essenziali. Mi riferisco ai due saggi che pubblica nel 1953 – I contadini nella rivoluzione lombarda del 1848 e a L’Internazionale a Roma dal 1872 al 1877 – e poi alla raccolta che in un qualche modo sistematizza il complesso di quella stagione e di quella esperienza, ovvero I democratici e la rivoluzione italiana che Feltrinelli pubblica nel 1958.
Al centro per Della Peruta, stanno le fonti che consentono di scavare e di capire l’Italia reale nonché la dimensione di realtà del farsi della storia. Nella sua attenzione al documento un ruolo particolare e privilegiato lo hanno le pubblicazioni periodiche, gli statuti, i regolamenti, i carteggi. La sua tensione è a capire caratteri, scelte, regole. Il documento per Della Peruta non è né il culto dell’inedito, né la passione per il «celato». Due dimensioni che appartengono a chi indaga le stanze del potere. Nel documento Della Peruta cerca gli uomini e le donne che testimoniano dei loro progetti, della loro voglia di fare.
Il secondo polo è in parte connesso col primo e riguarda il fatto che parlare di dimensione del reale non impediva di tenere l’occhio sulla formazione del «mito del Risorgimento» nei primi decenni dell’Italia unitaria. In questa prospettiva vengono definiti le forme e i modi in cui le forze politiche e le correnti culturali e d’opinione – sia quella espressione dei vincitori, eredi della Destra storica, sia quelle collegate ai vinti della sinistra democratica e repubblicana, sia infine quelle che cominciavano a riferirsi alle idealità socialiste – si richiamavano al processo risorgimentale.
Parlare di «mito il Risorgimento» era naturalmente visto da Franco Della Peruta come un modo per tornare a riflettere sul Risorgimento da un diverso punto di vita. Ovvero: il Risorgimento non come un’età storica conclusa e riservata ormai alla riflessione storiografica, ma come un complesso di esperienze e tradizioni ancora attuali e vive alle quali attingere per trarne orientamenti validi per l’azione politica e per incidere nella realtà della nuova Italia, con il suo assetto istituzionale e le questioni aperte e scottanti che avevano le loro radici nel recente passato.
Anche in forza di questo doppio registro, Franco Della Peruta per come è stato percepito in pubblico è stato essenzialmente questo: uno storico del Risorgimento.
Eppure senza un apprendistato e una pratica documentaria, senza un’esperienza di «organizzatore della ricerca storica» probabilmente noi non comprenderemo molti aspetti della sua personalità e forse, perderemmo uno degli aspetti del farsi della ricerca storica in Italia nel Secondo dopoguerra.
Per questo aspetto la ricostruzione di insieme che in particolare propongono Maria Grazia Meriggi e Giorgio Bigatti soprattutto riferita al lavoro di Franco Della Peruta tra fine anni ’40 e primi anni’60 all’interno della Biblioteca e poi Istituto Giangiacomo Feltrinelli – prima cioè di diventare docente di Storia del risorgimento a Pisa e poi alla Statale a Milano – costituisce una lettura indispensabile.
Quella esperienza, quella pratica e quella avventura culturale non solo segnano un “prima” e un “dopo”, ma costituiscono anche una sfida, ancora aperta per definire il «mestiere di storico».
In quel mestiere non è sufficiente anche se certamente è necessario – come pure non impropriamente molti storici ritengono si condensi l’essenza di quella pratica – la tenacia di cercare fonti, ma occorre anche qualcosa di più.
Se è indubitabile che la storia si fa attraverso le fonti, andando a vedere i documenti, studiando negli archivi, dopodiché si traggono le conclusioni che i documenti obiettivamente dimostrano e ci illustrano, è anche vero, tuttavia, che questa sola condizione non è sufficiente, perché i documenti raramente si trovano dove si ritiene naturale che stiano e spesso, anzi, si trovano dove non è ovvio che siano.
Quando questo capita, e capita spesso, anzi quasi sempre, dobbiamo sapere che lì si manifesta il mestiere di storico che consiste – come molti anni fa ha indicato Claudio Pavone – non solo nel trovare i documenti, ma anche nel domandarsi dove si trovano i documenti. Quella condizione è un aspetto della ricerca, ma è anche un indicatore essenziale per capire la storia. Vuol dire: avere consapevolezza che i documenti hanno una storia del loro “muoversi” o meglio del loro “essere mossi” e “usati” e che quella storia è parte del significato di un documento. Ovvero quel documento non è rilevante solo per che cosa contiene, ma anche per chi lo detiene, per lo sforzo – o l’astuzia – che ha impiegato per “salvarlo”, “tutelarlo”, sottrarlo”, nasconderlo. In breve: impedire che altri lo trovassero. Per cui non basta trovare il documento e pubblicarlo. Insieme bisogna chiedersi chi lo ha gestito, come lo ha gestito.
La ricerca non è solo inchiesta è anche capire che non c’è solo il documento, ma ci sono le serie documentali dove quel documento si trova o «è arrivato». Forse quelle serie a prima vista non sono coerenti. Ma la coerenza spesso non era nel tema, bensì in chi quel documento aveva conservato. Valorizzarlo o interrogarlo voleva dire (e ancora oggi vuol dire) indagare chi lo ha gestito e perché.
Ricerca dunque non è: indagare; trovare, capire il contesto; poi mettere in serie.
L’esito della ricerca non è solo “pubblicare” ma anche costruire poli documentali soprattutto in relazione a quei temi, a quegli attori, pratiche e saperi, che non hanno avuto la condizione di costruire il proprio archivio. Rispetto a quella condizione la sfida non è solo trovare i documenti, ma poi operare per radunarli, produrre cioè non solo la propria ricerca ma porre le basi, i mezzi e gli strumenti perché quel tema di ricerca abbia una sua possibilità di costruire un polo documentale. Ovvero che anche altri abbiano la possibilità di accedere ai documenti.
In breve non solo trovare documenti – ma anche costruire archivi.
Trovare documenti” e “costruire archivi” non sono due operazioni “naturali”. Discendono entrambe da farsi domande; capire che trovare risposte occorre costruire delle serie; poi verificare che quelle serie funzionino o siano in grado di dare risposte o magari di darle – ancora meglio – generando nuove domande, ovvero chiedendo che altre fonti siano messe in relazione con quelle, o che altre tecniche di indagine, metodologie, serie (testuali e numeriche) entrino in gioco.
Questo fa Franco Della Peruta in quei primi anni ’50 come testimoniano i primi saggi che scrive e che sono rintracciabili nelle prime annate di “Movimento operaio” – la rivista che codirige insieme a Gianni Bosio – tra la fine del 1949 e 1952. Nel momento in cui la Biblioteca Feltrinelli inizia la sua avventura e si tratta prima di tutto di andare a cercarli i documenti, i fogli periodici, i bollettini, gli statuti delle casse di previdenza e delle società di mutuo soccorso.
E lo fa seguendo una logica e una procedura che tra anni’40 e anni ’50 che segue regole precise secondo un sistema di costruzione di patrimoni documentari secondo uno schema di costruzione che tra anni ’70 e anni ’80 hanno raccontato con attenzione Michel de Certeau, Umberto Eco, Krzysztof Pomian e, soprattutto, Gérard Namer che insiste proprio su questo dato nella sua ricerca sulla nascita delle raccolte e delle biblioteche e la costruzione della memoria.
Risultato di una sedimentazione di materiali che è frutto della sovrapposizione nel tempo di diversi criteri di raccolta e catalogazione (di diverse volontà di memoria in altre parole) la biblioteca, secondo Namer, è un’istituzione di memoria. Essa conserva e rende accessibili tracce del passato. In linea di principio questo insieme di tracce è accessibile a chiunque, e del resto, proprio per la sedimentazione che l’ha costituita essa non corrisponde a nessuna memoria collettiva in particolare. La massa di informazioni che contiene sarebbe comunque difficilmente incorporabile interamente in una memoria vivente. Ma, mute in se stesse, le tracce del passato conservate nella biblioteca attendono di essere rivitalizzate da domande e da pratiche che trasformino la memoria sociale che vi è contenuta in memoria effettiva, a volte collettiva, a volte individuale.
Si tratta perciò di dare un senso, un ordine, a quelle fonti, raccolte, ma «mute», oppure disperse e che si tratta di tracciare una trama che le raduni e le faccia percepire come una traccia, un percorso non unico, ma ricco di bivii, di percorsi culturali, organizzativi, interpretativi e di “vissuti” diversi tra loro. Comunque non “unici”, ma “polisemici”.
Franco Della Peruta in quegli anni sembra dedicarsi a un lavoro sterile, fatto di elenchi di fonti. Una attività che sembra priva del fascino dell’interpretazione.
È vero esattamente l’opposto.
Le bibliografie non sono solo una lista di fonti. Sono spesso una ricognizione sui luoghi di conservazione, sono una loro lettura, sia del singolo testo o della serie che del luogo in cui si trovano. In breve sono contemporaneamente una geografia e una scheda descrittiva. In questa scheda di analisi sono rintracciabili: temi, collaboratori, competenze. Da cui sono ricavabili linguaggi, sistemi diffusivi, frequenze.
Tutti aspetti che non si limitano a un dato formale ma che riguardano la formazione di un archivio, ovvero un repertorio di occorrenze che costituisce il dizionario storico (ovvero l’insieme del lessico usato) e l’enciclopedia culturale (ovvero l’organizzazione gerarchica e semantica di quel dizionario) di un quadro sociale e ambientale, di un ceto lavorativo e professionale, di un ciclo politico di un paese o di un territorio definito.
In breve dati e indizi per un quadro delle forme di sociabilità storicamente definite e, al tempo stesso, le loro diverse genealogie e distinte fisiologie.
E tuttavia per pensare e comporre quelle liste, occorre che ci sia la curiosità di scavare e che, insieme, molte domande si presentino sul tavolo dello storico documentalista in quella fase di «accumulazione originaria» che è la storia di tutte le imprese culturali nel momento magmatico della loro formazione. Quelle domande tuttavia non si generano da sole, nascono anche dagli indizi suggeriti da laboratori di ricerca che sono stati al centro della ricerca intensa di Nello Rosselli sulla fisionomia e sulle conseguenze del Risorgimento italiano e che nel 1946, nel momento in cui Franco Della Peruta avvia il suo apprendistato, sono proposti nell’antologia Saggi sul Risorgimento che Salvemini cura per Einaudi (il volume esce nel 1946).
Quei temi che Franco Della Peruta trova davanti a sé alla fine degli anni 40 e che in quel momento non hanno eredi si possono ricompattare intorno a tre grossi assi che Della Peruta fa propri in quegli anni e che non abbandonerà più.
Nel complesso della ricerca di Nello Rosselli sul Risorgimento si possono essenzialmente individuare due filoni che saranno al centro della ricerca storica tra anni ’40 e anni ’50 e che individuano anche la fisionomia di una nuova generazione di storici che in quegli anni si formano e di cui Della Peruta è espressione canonica.
il primo che non fa parte dell’antologia, ma che è ben presente nella discussione pubblica riguarda la figura e l’opera di Carlo Pisacane, cui Rosselli nel 1932 ha dedicato una monografia che ha un grande valore non solo storiografico, ma formativo per quella generazione, Della Peruta compreso.
Il secondo riguarda è l’insieme degli studi che guardano al tema del primo movimento operaio e che vanno oltre le riflessioni che Nello Rosselli ha sviluppato nella monografia Mazzini e Bakunin. Gli studi che in gran parte stanno nella sezione “Varie” di Saggi sul Risorgimento hanno una importanza rilevante per capire il laboratorio che affascina Franco Della Peruta e che per certi aspetti lo forma. U laboratorio che è sicuramente attivo negli anni di costruzione della Feltrinelli.
Ne considero solo uno. Si intitola Alle fonti del giornalismo operaio italiano. Nello Rosselli lo pubblica nel 1927 e nell’antologia del 1946 si trova a pagina 407-414 (nella versione ridotta di Saggi sul Risorgimento che Alessandro Galante Garrone cura per Einaudi nel 1980, quel piccolo testo verrà scartato).
In quel testo del 1927 sta l’intuizione sulla funzione e il ruolo di una fonte seriale che segnerà profondamente la ricerca storica e l’organizzazione delle fonti nella storiografia del secondo dopoguerra. In quel testo perduto, si condensano gran parte delle preoccupazioni di chi nel secondo dopoguerra (Franco Della Peruta tra gli altri) è stato tra i grandi organizzatori di fonti per la storia.
Scrive Nello Rosselli:
«Chi avesse la fortuna di rintracciare le collezioni degli innumerevoli giornali operai che si sono stampati in Italia negli ultimi sessanta o settant’anni, e li scorresse con curiosità, rendendosi ragione delle passioni e degli interessi cui gli scrittori di quei giornali e la crescente falange dei lettori s’ispiravano; e poi, scartando quanto v’è di caduco, di accessorio, di sorpassato nelle migliaia di colonne di stampa, riuscisse a dettare una storia di questo ramo del giornalismo italiano, scriverebbe, non v’è dubbio, un’opera di grande utilità e molta importanza. Un’opera che saprebbe darci la sensazione viva del succedersi dei problemi che si presentarono e si presentano alle classi operaie, del loro superarsi e riaffacciarsi, del sempre maggior rilievo che, tutti insieme, hanno assunto nella vita della Nazione, e insomma del progressivo ascendere del ceto lavoratore a centro, a perno della intera vita sociale.»
La convinzione era che quella possibilità avrebbe potuto avere un esito positivo se contemporaneamente si batteva la strada dei centri piccoli e delle biblioteche dei paesi della provincia più che concentrarsi sulle grandi biblioteche, perché la storia di un movimento che aveva avuto molte espressioni locali, poteva prodursi solo ritornando sui suoi luoghi e dunque impegnandosi a definire una geografia del soggetto in relazione anche alla geografia delle fonti.
Gran parte della passione e della tenacia di raccoglitore di fonti e organizzatori di centri di documentazione della ricerca, di lettore appassionato di fonti che è stato Franco Della Peruta non è già ritratta qui?
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