Storia
Foibe, tra storiografia e propaganda. Intervista a J. Venier
Intervista a Jacopo Venier
Nel Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime delle foibe, si sprecano celebrazioni e polemiche, mentre scarseggiano i tentativi di ricostruire in modo circostanziato un episodio della storia italiana ancora controverso e oggetto di violente polemiche politiche. E’ sempre difficile comprendere un fenomeno storico complesso senza collocare i fatti all’interno di un contesto e meno che mai affrontandone la ricostruzione in termini moralistici o cercando di piegare i fatti a esigenze propagandistiche. Come ha osservato David Bidussa qui su GliStatiGenerali050220 ‘La storia è coerente solo nella testa di chi vuol raccontare solo la “sua versione” della storia’. A contestualizzare la vicenda delle foibe ci ha provato tre anni fa Internazionale pubblicando un lungo dossier (Internazionale100217) a cura del gruppo contro il revisionismo storiografico ‘Nicoletta Bourbaki’, in cui gli autori, a proposito della legge istitutiva del 10 febbraio, sottolineano che essa ‘allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni’. Una tesi confermata dalle parole di Jacopo Venier nell’intervista che segue. Venier, triestino, giornalista con una lunga militanza politica prima nel PCI poi in Rifondazione Comunista e nel PdCI, conoscitore ‘dall’interno’ delle dinamiche interne al movimento comunista internazionale, nazionale e locale che tanto peso ebbero in questa vicenda, esprime una posizione che cerca un punto di equilibrio tra negazionismo e sostenitori del genocidio. Poiché è citata nell’intervista segnaliamo come fonte anche la Relazione della Commissione mista italo-slovena (1993-2001). Il documento, pur condizionato dall’intento ‘politico’ di chiudere un capitolo difficile delle relazioni tra i due paesi, ha il pregio di dipingerne un affresco complessivo a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo fino al ritorno di Trieste sotto la giurisdizione italiana.
Cominciamo a spiegare di cosa stiamo parlando cercando di contestualizzare la vicenda.
Per prima cosa va detto che siamo in un territorio dove il confine negli ultimi 150 anni si è spostato molte volte. Qui si sono scontrati diversi nazionalismi e il nazionalismo italiano in particolare è stato molto aggressivo, razzista e particolarmente segnato da una volontà di conquista. E tra le ragioni di questa aggressività c’è il fatto che avendo un’identità nazionale debole, di confine, l’Italia è stata incline ad affermarsi per contrapposizione. Qui lo ha fatto tentando di annientare l’identità di Trieste, per sua natura cosmopolita e con una tradizione commerciale di porto costruito da identità di provenienze diverse e in parte non autoctone. Trieste e l’Istria sono luoghi dove nei secoli si sono confrontate diverse culture e identità nazionali e col passare del tempo il confronto è diventato più violento. Una realtà storica che in Italia non si racconta, perché l’Italia preferisce recitare la parte della vittima.
In che modo si è manifestata questo atteggiamento?
L’aggressività colonialista e imperialista nei confronti dei popoli slavi ha segnato tutto il primo dopoguerra arrivando all’apogeo con la proclamazione delle leggi razziali proprio aTrieste, durante un comizio di Mussolini a Piazza Unità d’Italia. L’Italia ha occupato e tentato di cambiare profondamente la realtà di queste terre ed è a partire da questa constatazione che andrebbe affrontato il Giorno del Ricordo. Le foibe sono cavità carsiche che per secoli sono state utilizzate come una sorta di discarica in cui gettare i rifiuti. Evocare le foibe come luogo dove far finire i propri avversari è un’abitudine introdotta dai fascisti e dalle forze di occupazione italiana in Istria. Furono scritti persino dei sonetti in cui si diceva in versi che ‘chi parla slavo finirà nelle foibe’. Per capire di cosa stiamo parlando però dobbiamo dividere la storia in due fasi: la prima è quella che riguarda il vuoto di potere creatosi dopo l’8 settembre in Istria a seguito dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati. La seconda invece è la cosiddetta occupazione titina di Trieste.
Partiamo dalla prima fase.
Dopo l’8 settembre, col collasso dell’esercito italiano, c’è quasi un mese in cui le popolazioni istriane si ribellano e si innesca un processo che ha in sé elementi di lotta antifascista, di jacquerie contadina e anche di reazione contro gli italiani identificati coi fascisti, ma anche come artefici di una forma di oppressione sociale. E’ un atteggiamento che per essere compreso va storicizzato. L’Istria all’epoca ha una popolazione prevalentemente contadina, tenuta sotto scacco da possidenti spesso italiani, con una differenziazione di classe molto marcata. Nel momento in cui crolla lo status quo una parte della popolazione addirittura aiuta i militari italiani di stanza nella zona a trovare una via di fuga, una parte invece si ribella e prende il potere. Il movimento partigiano all’epoca è già presente ma non è ancora abbastanza strutturato per poter prendere il controllo di una situazione così caotica. Qualche settimana dopo arrivano i nazisti a rioccupare tutta la zona. Nel frattempo c’è un vuoto di potere in cui si manifestano anche episodi di violenza cieca, non circoscritta a padroni, latifondisti e gerarchi fascisti. La situazione esplode e avvengono anche uccisioni che sono frutto di vendette personali e beghe di paese, che la struttura partigiana non riesce a controllare. Sono i nazisti che appena arrivati in zona stigmatizzano questi episodi di violenza nei confronti della popolazione italiana e ne fanno una vera e propria campagna propagandistica. La propaganda della destra, che oggi parla di genocidio, inizia all’epoca.
Contare i morti può apparire sterile, ma quando si parla di genocidio, è opportuno capire anche i numeri.
In questo campo è stato fatto un lavoro importante da parte del Gruppo di Resistenza Storica, grazie a storiche bravissime come Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi, spesso accusate di ‘negazionismo’, come ha fatto nel discorso di ieri, pur senza citarle, lo stesso Mattarella. In realtà si tratta di due storiche di cui possiamo non condividere i giudizi politici, ma di grande attendibilità storiografica nella verifica delle fonti e per la precisione delle ricostruzioni. Fare delle stime è difficile perché parliamo di una situazione caotica, ma probabilmente siamo intorno a un migliaio di vittime. In ogni caso va detto che già nel ’43 già il fronte di liberazione yugoslavo e il partito comunista ammisero e condannarono alcuni episodi di violenza e si adoperarono per far sì che i processi si svolgessero in modo meno sommario.
Poi c’è la seconda parte.
Cioè i 40 giorni in cui i partigiani yugoslavi guidati da Tito entrano a Trieste, la liberano dai nazisti e prendono il controllo della città. La vulgata della destra dice che sparirono migliaia di persone e in questo caso il lavoro del Gruppo di Resistenza Storica è molto preciso sia per quanto riguarda i numeri sia per quanto riguarda le modalità del fenomeno. Secondo la sua ricostruzione in realtà scomparvero poco più di 500 persone, in larga misura funzionari in combutta coi nazisti, delatori della polizia, persone strettamente legate al regime fascista.
Oltre alla condanna da parte dei comunisti yugoslavi vi fu l’ammissione degli eccessi da parte del PCI.
Questa è un’altra questione interessante che ve inquadrata nella storia dei comunisti triestini. Durante la guerra di Liberazione il gruppo dirigente comunista in città fu azzerato due volte a seguito di delazioni e arresti che ne decimarono il gruppo dirigente. Tieni presente anche che prima di tornare italiana la città e il suo circondario assumono fino al ‘54 lo status di Territorio libero di Trieste, diviso in due zone – A e B – rispettivamente sotto il controllo degli Alleati e degli yugoslavi. Le organizzazioni comuniste e partigiane in città nel ‘45 sono strettamente legate al partito comunista yugoslavo ed i rapporti con il CLN di Trieste sono molto tesi proprio sulla questione della futura appartenenza della città alla Jugoslavia o all’Italia. Questa situazione si ribalta nel ’48 a seguito della rottura tra il Comintern e il Partito Comunista yugoslavo. La maggioranza dei comunisti triestini si schiera con Stalin e contro Tito e a Trieste ritorna Vittorio Vidali, il ‘comandante Carlos’, che diventa segretario del Partito Comunista di Trieste, che si relaziona principalmente col PCI, appoggiato in questa scelta dalla comunità slovena di Trieste, fatto abbastanza singolare e interessante. In altre parole il PCI a Trieste non è mai stato un partito benevolo nei confronti di Tito, almeno fino a quando Kruscev non ristabilisce le relazioni con la Yugoslavia a metà degli anni ’50, per cui non ha mai avuto interesse a coprire gli eccessi dei partigiani comunisti slavi.
Quale fu la posizione ufficiale del PCI?
Una posizione ufficiale viene formalizzata molto più tardi, nel 1981, quando a Cascina, un piccolo centro della Toscana, sotto l’auspicio della Direzione Nazionale si tiene un seminario sulla storia dei comunisti a Trieste con l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine su questa complicatissima vicenda. Da questa riflessione, che avviene quando nel mondo c’è ancora il cosiddetto campo socialista, emerge una lettura del fenomeno delle foibe, che personalmente condivido. In sostanza si ammette che in quei momenti particolarmente concitati, ci furono eccessi e vittime innocenti, ma si afferma che le vittime erano in larga misura collaborazionisti e responsabili di crimini contro la popolazione e gli antifascisti, e che in quel momento non c’erano le condizioni per garantire quello che oggi chiameremmo un ‘giusto processo’. Ma soprattutto si dice che non c’è stato alcun genocidio né un tentativo di alterare la fisionomia etnica della regione. E, in ultimo, che l’esodo istriano-dalmata fu un fenomeno complesso, che non può essere spiegato in modo lineare come effetto delle foibe. Certo la campagna fondata sullo spauracchio che gli slavi avrebbero fatto pulizia degli italiani ebbe un effetto e fu in qualche modo legittimata dagli errori commessi. Ma pesarono anche altri fattori, tra cui la scelta tra il ‘campo socialista’ e il ‘campo capitalista’ e spinte economiche. Nel ’46-’47 c’è una crisi economica gravissima e molti triestini partono addirittura per l’Australia e altre parti del mondo in cerca di fortuna. Insomma c’è un intreccio tra tutti questi motivi, non una concatenazione lineare tra foibe ed esodo.
Per quale ragione un tradizionale cavallo di battaglia della destra è stato abbracciato anche dalle istituzioni?
Perché è un modo per dipingere l’Italia che un paese non ha mai avuto la forza di essere razzista, aggressivo e imperialista. Sul confine orientale invece l’Italia fu tutte queste cose e in modo esemplare. Ci furono le fucilazioni decise dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato fascista e la snazionalizzazione forzata, con la chiusura delle scuole di lingua non italiana, l’italianizzazione dei nomi, le aggressioni fisiche alla popolazione di origine slovena. Decine di migliaia di coloni italiani arrivarono in queste terre e furono aiutati dal fisco e dalle norme di pubblica sicurezza a strappare risorse, terreni e patrimoni alla popolazione non italiana. Col mito del genocidio ai danni degli italiani si vuol cancellare questa pagina della storia italiana. La realtà è che qui ci furono violenze inaccettabili, come del resto sul confine orientale tedesco e altrove, ma non una pulizia etnica. Negli anni ’90, tra l’altro, una commissione di storici italiani e sloveni voluta dai due governi scrisse una ricostruzione condivisa abbastanza equilibrata dei fatti, di cui lo Stato italiano, dopo averla commissionata, sembra essersi scordato.
La questione è tornata a galla negli anni ’90, quando la fine della Guerra Fredda e lo sgretolamento della Yugoslavia spinsero la destra prima addirittura a cercare di rimettere in discussione i confini, poi a ripiegare sul tema dei risarcimenti.
La destra fascista, che qui è ancora presente e ha contribuito alla stagione del terrorismo nero italiano, ha sempre fatto di tutto per rimettere in discussione tutti accordi e equilibri creatisi negli anni tra Yugoslavia e Italia, ma anche di delegittimare l’epopea partigiana yugoslava. Non bisogna dimenticare che la Yugoslavia fu l’unico paese europeo che si liberò di fatto con le proprie mani dall’oppressione fascista e nazista, un fatto straordinario con cui non si vogliono fare i conti. Quando ci fu il collasso della Yugoslavia alcuni esponenti della destra tentarono di approfittarne per rilanciare una loro battaglia storica. Addirittura alcuni deputati di AN spedirono oltre confine delle bandiere italiane promettendo di tornare e riprendersi l’Istria.
La sinistra come reagì?
Legittimando la destra. Violante venne a Trieste a fare un’iniziativa insieme a Fini sulla ‘storia condivisa’. Per entrambi fu un modo per suggellare la chiusura di una fase storica e presentarsi come nuova classe dirigente in una sorta di legittimazione reciproca. All’epoca AN cercava di rilanciarsi entrando nel nuovo arcipelago berlusconiano, mentre l’allora PDS tentava di far dimenticare il proprio passato comunista. Per il gruppo dirigente ex PCI quale argomento migliore delle foibe, dove si poteva dire che il PCI c’entrava poco e che la responsabilità pesava su un movimento di liberazione yugoslavo mai particolarmente amato? E così è nata la storia del genocidio, che neppure fior fiore di governi conservatori nei decenni precedenti erano riusciti ad avallare. Le stesse istituzioni si sono messe a raccontare la storia del genocidio. La foiba di Basovizza è un esempio di quanto i fatti e la verità ufficiale divergano. Ogni anno in questa ex miniera viene celebrata solennemente la Giornata del ricordo, con la presenza della massime cariche dello Stato a fianco degli striscioni della X Mas. Nel ’48 gli Alleati e il Comune di Trieste fecero degli scavi per verificare chi e cosa contenesse e scoprirono che i cadaveri più recenti al suo interno appartenevano a soldati tedeschi fucilati sicuramente prima dell’occupazione titina. Tant’è che fino agli anni ’50 le amministrazioni comunali triestine, perlopiù conservatrici, hanno continuato a usarla come discarica. Insomma si celebrano le vittime delle foibe in un luogo in cui è certo che non venne ‘infoibato’ nessuno.
A Trieste la questione rappresenta una ferita ancora aperta ed è ancora oggetto di scontro politico…
Certo, sia per le ragioni che dicevo, sia perché qui c’è l’unico campo di sterminio in territorio italiano, la risiera di San Sabba, dove sono morte e sono state bruciate 5.000-6.000 persone tra ebrei, antifascisti, slavi e nemici del Reich. Questo territorio dal ’43 al ’45 venne abbandonato ai nazisti dalla Repubblica Salò. Non c’erano le autorità italiane, ma un Gauleiter tedesco. Per una qualsiasi delazione si finiva bruciati in un forno e la città in qualche misura era complice. Alcuni triestini non sapevano che cosa succedeva nella risiera, tanti alti sì. Quando si parla di quei giorni dunque bisogna tener conto di tutti questi aspetti e non ha senso giudicare con le categorie giuridiche di oggi. Altrimenti quello che per noi certo rappresenta un problema etico da non rimuovere lascia spazio alla propaganda aggressiva della destra, che lo usa per rimuovere il ricordo di ciò che qui fecero fascisti e nazisti. In città oggi abbiamo una giunta di destra che ha appena installato in pieno centro una statua di D’Annunzio, fautore del razzismo antislavo, di cui la stessa impresa di Fiume fu espressione. E’ una vera e propria provocazione, che avviene a poca distanza dai Balcani, dove fino a pochi decenni fa l’aggressività a sfondo etnico ha prodotto guerre e morti.
L’intervista è tratta dalle newsletter di PuntoCritico.info dell’11 febbraio.
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