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Quando la Spagna era (ancora) una superpotenza… Dialogo con Aurelio Musi

31 Maggio 2021

Il 1621 fu un anno decisivo per l’Europa. Mentre il continente sprofondava nella Guerra dei trent’anni, e tra la Spagna e le Province Unite scadeva la Tregua dei dodici anni, a Madrid Filippo III moriva. Gli succedeva suo figlio Filippo IV, che a soli sedici anni si ritrovava signore di un impero colossale, una superpotenza che si estendeva dal Perù e dal Messico alle Filippine, passando per il Brasile, i possedimenti in Africa, Asia e Oceania, il Portogallo, la Spagna, l’Italia e, naturalmente, i Paesi Bassi.

E proprio nei Paesi Bassi, sotto Filippo IV, si sarebbe consumato l’ultimo atto di un conflitto iniziato sotto il nonno, Filippo II: quello con i ribelli olandesi, repubblicani e protestanti. Uno scontro che fece trattenere il fiato all’Europa: da un lato i tercios della Spagna e il talento del condottiero genovese Ambrogio Spinola, la produzione (declinante) d’argento dalle Americhe e il sostegno della finanza di Genova; dall’altro il genio militare di Maurizio di Nassau, corsari e mercanti spregiudicati, un sistema finanziario – imperniato su Amsterdam – che avrebbe imposto la sua supremazia all’Europa.

Filippo IV, el rey planeta come venne soprannominato allora, fu uno dei sovrani più potenti del XVII secolo. Fu a capo di un impero (meglio: di un sistema imperiale) che, grazie anche agli sforzi del suo valido, l’instancabile conte-duca di Olivares, sembrò sul punto di tornare agli antichi fasti, quando la Spagna di Filippo II poteva davvero ambire all’egemonia globale. Un impero dove le arti fiorivano, e uomini quali Lope de Vega, Calderón e Velázquez davano alla luce alcuni tra i massimi capolavori del Barocco.

Ma alla fine il miraggio di una rinnovata egemonia di Madrid si rivelò essere, appunto, solo un miraggio. La resistenza degli olandesi, le vittorie francesi di Rocroi e della Battaglia delle Dune, la grave situazione finanziaria, lo scoppio delle “rivoluzioni periferiche” in Portogallo, Catalogna, Napoli, Sicilia furono troppo anche per la superpotenza spagnola. Tra il 1648 e il 1659 era evidente a tutte le cancellerie europee come il continente fosse ormai multipolare: non c’era più soltanto la Spagna con cui dover fare i conti, ma anche le vitalissime Province Unite, la Francia di Luigi XIV e Mazzarino, la Svezia, l’Inghilterra, il Sacro Romano Impero; e all’orizzonte iniziava a profilarsi la potenza del Brandeburgo-Prussia, che nel XVIII secolo avrebbe cambiato gli equilibri militari in Europa centrale.

E a Filippo IV, e a questa Spagna sospesa tra un nuovo apogeo e il declino (ma ancora lontana dalla decadenza, che si sarebbe verificata solo con la Guerra di successione spagnola, iniziata nel 1701) Aurelio Musi ha dedicato una poderosa opera, per i tipi di Salerno Editrice. Classe 1947, nato in provincia di Avellino ma residente a Napoli ormai da molto tempo, Musi è un grande esperto di storia spagnola nella prima età moderna, e del Mezzogiorno italiano sotto la Spagna. Allievo di uno tra i maggiori storici italiani del XX secolo, il napoletano Giuseppe Galasso, Musi ha insegnato storia moderna all’Università di Salerno, prima presso la facoltà di giurisprudenza e poi presso quella di scienze politiche, dove è stato pure preside.

Anche se è da quattro anni in pensione, la sua attività scientifica non si ferma, anzi. Il testo su Filippo IV (il cui sottotitolo, eloquente, è “La malinconia dell’impero”) è un Lebenswerk a tutti gli effetti. Torrenziale e innovativo, è una lettura preziosa per conoscere meglio uno dei protagonisti del XVII secolo. Un monarca traboccante di energie animali ma malinconico, libertino però poi devotissimo, di una certa cultura e tuttavia spesso incline alla superficialità; un re che permise per anni al suo valido, l’Olivares, di governare col pugno di ferro la Spagna, ma che alla fine rimosse il suo vecchio amico e favorito per riprendere le redini del governo.

Dato che l’epidemia ancora tiene banco, la conversazione con Aurelio Musi ha avuto luogo in videoconferenza: alle sue spalle lo storico ha una foto del figlio, di se stesso a ventiquattro anni, di Marx e di Engels (non per motivi politici, ma «perché sono un caro ricordo di un viaggio a Treviri, e le due immagini mi piacquero molto» precisa ridendo).

Uno scatto durante la conversazione tra Catania e Musi

Prima di parlare del “rey planeta” Filippo IV, parliamo del Seicento, professore, questo “secolo di ferro” che ancora oggi gode di una terribile fama…

Prima di tutto, mi consenta una nota personale. Il Seicento è il mio secolo prediletto, sin dai tempi della tesi, che feci con Giuseppe Galasso. “Momenti del dibattito politico a Napoli nella prima metà del Seicento”, era questo il titolo; e ovviamente per scriverla avevo approfondito il dibattito storiografico internazionale sul secolo. In quegli anni era in atto, da parte di storici autorevoli, il tentativo non di rivalutare il Seicento, badi bene, ma di mettere in discussione lo stereotipo del secolo buio e decadente; del secolo che, per l’Italia, era stato – come scriveva il de Sanctis – epoca di allontanamento del paese dal solco della storia europea. Insomma, il secolo della Spagna “impero del male”, di Madrid come braccio armato della Controriforma. Il secolo del formalismo e del parassitismo, con un grave impatto sull’Italia.

In realtà basta studiare con più attenzione i rapporti tra la Spagna e l’Italia, e in particolare tra la Spagna e il Mezzogiorno, per capire come questo stereotipo del sistema imperiale spagnolo come “impero del male” valga ben poco, da un punto di vista scientifico. È ciò che ho capito anche io con la mia tesi. E dato che all’inizio volevo laurearmi in filosofia, partii dalla cultura, e cioè dal dibattito giuridico, filosofico e politico nel Mezzogiorno spagnolo…

Perdoni l’interruzione, ma come mai partì filosofo, e finì storico?

Io volevo laurearmi in filosofia, ma in quel periodo i filosofi, a Napoli, erano tutti o marxisti di estrazione gentiliana, o cattolici di strettissima osservanza, neotomisti quasi. [ride] Ahimè, ero disperato, e chiesi di potermi laureare in storia anziché in filosofia. Avevo già fatto degli esami con Galasso, due di storia moderna, e fu lui appunto ad assegnarmi la tesi. Lessi quindi giuristi, economici, politici. Una storia dimenticata da molti studiosi, che si erano occupati prevalentemente di illuminismo e di pre-illuminismo, e avevano trascurato questa riflessione giuridica molto importante della prima metà del Seicento, tendente a esaltare il valore della sovranità statale, della dimensione pubblica dello Stato rispetto al privato feudale. E proprio con la mia tesi avviai questo percorso scientifico che mi portò a concentrare sempre di più la mia attenzione di storico su diversi aspetti del Seicento, fino ad arrivare alle rivolte, che sono l’evento centrale per il Mezzogiorno, a livello cronologico (dato che si sviluppano grosso modo tra il 1647 e il 1648 a Napoli e in Sicilia), ma non solo.

Il Seicento fu anche un secolo di rivolte, rivoluzioni in tutta Europa…

Certo. Le “sei rivoluzioni contemporanee”, come sono state chiamate. Da quella in Catalogna (1640-1659) sino alla rivolta della Fronda, passando per quella rivoluzione riuscita che fu la rivoluzione inglese, tra il 1642 e il 1649…

Carlo I

Che sfociò nella decapitazione di Carlo I. E a proposito di rivolte e rivoluzioni: lei sulla rivolta di Napoli, e sulla prima repubblica napoletana, ha scritto tanto. Penso ad esempio a “La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca”.

Le racconto un aneddoto. Come sa Salerno ha questa collana, Profili, fondata da Luigi Firpo, e diretta per molto tempo da Galasso, e ora da Andrea Giardina. Una volta Galasso mi invitò a scrivere per Profili la biografia di Masaniello. Io però ebbi forti dubbi a riguardo, perché come ho scritto in un saggio per i tipi di Rubettino qualche anno fa, “Masaniello. Il ‘masaniellismo’ e la degradazione di un mito”, Masaniello resta ancora un enigma, perché di lui conosciamo quella parte della sua vita che coincide con i dieci giorni che sconvolsero Napoli, però ciò che riguarda la sua famiglia, la sua formazione, no. Ecco quindi che a Galasso risposi che potevo scrivere una biografia di massimo cento pagine, mettendoci dentro proprio tutto, perché le fonti erano molto esigue. La cosa sarebbe stata ben diversa se avessi dovuto scrivere del mito di Masaniello, come ha fatto una mia allieva, Silvana D’Alessio. Sul mito e sulla fortuna del personaggio più popolare e internazionale di Napoli si potrebbe scrivere un’enciclopedia, non c’è archivio al mondo che non possegga qualche narrazione della rivolta.

Anziché la biografia di Masaniello, lei ha scritto quella di Filippo IV. Perché?

Perché come ho scritto nel libro, Filippo IV è il microcosmo che riproduce il macrocosmo del Seicento europeo. Ed è così che ho cercato di scriverne la biografia: non scrivendo solo del contesto, e quindi la Guerra dei Trent’Anni, la politica interna e internazionale, i rapporti tra lui e il suo valido, il conte-duca d’Olivares, ma approfondendo il carattere e la personalità di Filippo IV. A tale scopo è stato per me molto importante un lavoro di Walter Benjamin, “Il dramma barocco tedesco”, un libro eccezionale. Quando Benjamin scrive che il personaggio melanconico per eccellenza sta nelle corti, sono andato a scavare nella corte di Filippo IV, e ho cercato di ricostruire ciò che ruotava attorno alla figura malinconica del re. Non a caso il sottotitolo del libro è “La malinconia dell’impero”, ed è questo il cuore dell’opera.

Ho cercato di stabilire un parallelo tra le tre fasi della vita di Filippo IV e quelle della storia imperiale spagnola, che arriva a toccare un suo acme tra la metà degli anni ‘20 e i primissimi anni ‘30 del Seicento e poi inizia a disegnare questa parabola discendente, di declino, fino alle pagine di metà secolo. Il Seicento non è il secolo della decadenza, ma il secolo dell’ascesa e del declino del sistema imperiale spagnolo. E la decadenza, badi Catania, non inizia certo nel 1588 come alcuni vorrebbero, in coincidenza con la sconfitta dell’armada [la cosiddetta Invincibile Armata, Armada Invencible]. La Spagna rimane la prima potenza mondiale per lo meno sino al 1648.

Quindi fino alla Pace di Vestfalia, e la consacrazione di un’Europa più multipolare.

Esatto. Con Vestfalia prende l’avvio una fase di multipolarismo, e il baricentro, come dice Fernand Braudel, passa dagli stati grandi agli stati, per così dire, medi.

E a proposito di Braudel. Se non ricordo male fu il grande storico francese a dire che l’Italia e la Spagna si appoggiavano l’una all’altra, nel XVI secolo. La prima era ancora una potenza economica, molto fragile da un punto di vista politico e militare, la seconda era una grande potenza militare ma lontana dalle capacità finanziarie e tecnologiche italiane. E del resto bisogna ricordare che l’Italia del XVI secolo è un paese che teme gli ottomani, le incursioni barbaresche. Non dimentichiamo che nel 1480 Otranto fu presa proprio dagli ottomani, che nel 1522 fu conquistata Rodi, Tolone tra il 1543 e il 1544 fu una base navale ottomana, nel 1565 fu assediata Malta… La paura di un’invasione era quindi reale. E l’Italia aveva bisogno della Spagna per mettere le sue coste in sicurezza. Lei cosa ne pensa?

Per rispondere alla sua domanda dobbiamo fare un passo indietro, e vedere cos’era l’Italia alla metà del Quattrocento. Cosa resta della pace di Lodi del 1454 a fine Quattrocento? Come sappiamo, l’Italia si ritrova in una condizione di vulnerabilità. Il sistema politico-diplomatico che reggeva la penisola, non era affatto “ad orologeria precisa” come scriveva il Guicciardini; era un equilibrio fragile, basato sui cinque potentati italiani cioè Milano, Firenze, Venezia, il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, e sul fatto che gli stati europei erano ancora soltanto degli embrioni di stati. Ma quando la Francia ebbe consolidato la sua unità anche dal punto di vista geopolitico, fu pronta a colpire l’anello debole della catena europea, l’Italia. Debole appunto perché formata da tanti piccoli stati che si reggevano in equilibrio esclusivamente perché sospettosi della possibilità che uno di loro potesse sopravanzare gli altri.

Ovvio che un’Italia in queste condizioni dovesse appoggiarsi, in primis da un punto di vista politico, ad altre potenze europee. Ecco dunque lo scontro tra Francia e Spagna per il dominio dell’Italia; perché la penisola è fragile ma al contempo ha una posizione geostrategica chiave per consentire a una di queste due potenze di fare il big jump, il grande salto verso il dominio europeo. E quindi la battaglia per la conquista dell’Italia diventa una battaglia per il dominio europeo, una battaglia che è vinta nel 1559, con la pace di Cateau-Cambrésis, dalla Spagna. E uno degli esiti è che l’aragonese Regno di Napoli perde la sua autonomia, e cessa di essere una piccola potenza dalla straordinaria capacità di proiezione europea. Non dimentichiamo, del resto, che il mercato catalano-aragonese trovava nel Mezzogiorno uno dei suoi punti di forza…

Il Cinquecento è, per queste ragioni, il secolo delle grandi potenze, dei grandi stati. Specie della Spagna, che vince il duello con la Francia, e ha un ruolo centralissimo nel Mediterraneo. E l’Italia, che è sostanzialmente dipendente dalla Spagna, grazie alla potenza iberica ha pure la capacità di entrare nel commercio internazionale. E infatti qui c’è un punto che a me sta molto a cuore: come giudichiamo le dominazioni straniere in Italia? Nel 1559 noi abbiamo quasi due terzi dell’Italia dominata dalla Spagna… Ma fu soltanto una dominazione? No. La Spagna, per l’Italia della seconda metà del Cinquecento (come per buona parte del Seicento), fu la via per integrarsi nell’Europa. Non solo a livello politico, ma economico. Questa è una diversa idea di dominazione che io cerco di portare avanti sin dai miei primi studi. Il Regno di Napoli non fu esclusivamente dominato dalla Spagna, anche se indubbiamente i rapporti di dominazione ci furono, e ci fu un drenaggio delle risorse dal sud verso l’impero spagnolo; al tempo stesso però la Spagna riusciva, in quanto spazio di integrazione economica oltre che politica, ad attribuire a ciascuno dei suoi domini, dei suoi reinos, una funzione specifica.

È la sua idea di sistema imperiale spagnolo.

Sì. Il Regno di Napoli, Milano, la Sicilia, lo Stato dei presìdi sulla costa toscana e la Sardegna entrano in un nuovo quadro di integrazione politica che è anche un quadro di integrazione economia dove ognuno dei reinos, delle province elencate svolge una funzione integrata nel complesso imperiale. Non solo: all’interno del sistema imperiale spagnolo l’Italia costituisce un sottosistema, perché nell’insieme le aree sotto il controllo della Spagna svolgono un ruolo cruciale, di contrappeso militare sia nei confronti della Francia, in guerra con la Spagna, sia come antemurale nei confronti delle incursioni barbaresche.

È la cosiddetta teoria dei bastioni no?

Esatto.

Lepanto, 1571

Naturalmente l’Italia ha bisogno della Spagna, ma anche viceversa. Perché le flotte che affrontano la marina ottomana non includono solo galee spagnole, ma della religione, toscane, pontificie, siciliane, napoletane, veneziane, dei Doria… Il culmine è il 1571, è Lepanto.

Appunto, parliamo di Lepanto. Le pagine che Braudel scrive sono azzeccatissime. Non è vero, a proposito, che per Braudel la storia politica svolgesse un ruolo marginale e secondario. I tre tempi della storia braudeliana (il tempo lungo delle civiltà e delle mentalità; il tempo medio delle strutture; il tempo breve della politica) non implicano una marginalità del tempo ultimo rispetto agli altri tempi. In “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” lo scontro di natura politico-militare con gli ottomani ha uno spazio importantissimo. E infatti lo dicevo sempre ai miei studenti: «Se volete capire come Braudel interpreta la dialettica della durata e la triplicità dei tempi (il tempo lungo, il tempo medio, il tempo breve), andatevi a leggere in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” le pagine che dedica a Lepanto». Dove spiega che il tempo breve di Lepanto è lo scontro, il suo tempo medio lo spostamento degli interessi degli ottomani verso la Persia, il suo tempo lungo il cambio di mentalità, perché in effetti la vittoria di Lepanto ha un peso decisivo nel rafforzare il senso di appartenenza alla cristianità.

A me la storia controfattuale non piace perché penso che sia una forma di fantascienza… Però le chiedo: se non vi fosse stata la Spagna, che ne sarebbe stato dell’Italia nel XVI secolo, con Barbarossa che terrorizzava le coste del sud Italia e i possedimenti veneziani, Dragut che assediava Malta, Solimano il Magnifico e la sua insaziabile ambizione? Non c’era il rischio, magari, di una spartizione drammatica: l’Italia del nord alla Francia, l’Italia del sud agli ottomani?

La risposta a questa sua domanda, Catania, sta nelle prime pagine della “Storia del Regno di Napoli” di Benedetto Croce, dove si legge che la Spagna svolse due funzioni positive decisive nella storia del Mezzogiorno. La prima fu quella che dice lei, la difesa del territorio; senza la Spagna noi avremmo avuto un’Italia molto più frammentata, probabilmente spartita non solo tra potenze europee ma anche tra potenze solo in parte europee, com’erano gli ottomani di quel tempo; anche le incursioni barbaresche avrebbero provocato disastri enormi.

L’altra funzione storica positiva fu quella di aver portato lo Stato nel Mezzogiorno. Lasciamo perdere il tipo di Stato, ma come dice Croce in una bella pagina “la Spagna portò la disciplina” nel senso che addomesticò e disciplinò un popolo privo di Stato e privo di funzioni pubbliche. Portò ordine politico in un Mezzogiorno che aveva soltanto in parte costruito i fondamenti di tale ordine politico nei secoli precedenti. Quindi lei ha ragione, la Spagna difese l’Italia. E mi ricordo che Galasso polemizzava con Raffaele Ajello, storico del diritto italiano, che scrisse un saggio intitolato “La frontiera disarmata”. Ed è facile capire cosa intendesse per frontiera disarmata, riprendendo tra l’altro un’idea di Gabriele Pepe, convinto che la Spagna non avesse difeso il Mezzogiorno. In realtà la Spagna difese il Mezzogiorno, ovviamente con il contributo decisivo del Mezzogiorno stesso. Ma senza gli eserciti spagnoli l’Italia sarebbe stata assai più frammentata. Madrid inserì la penisola in un quadro di integrazione politica ed economica più ampia, grazie anche a questa suo sistema imperiale e di rapporto fra sistemi e sottosistemi.

La Spagna è in primis una grande potenza militare, che a Cerignola mostra cosa sanno fare i futuri tercios, e continua a incutere timore all’Europa almeno sino a Rocroi. Con la fine della supremazia militare arriva la Pace dei Pirenei…

Perché i tercios erano una realtà militare avanzata all’inizio del Cinquecento, ma non lo erano più tanto nel Seicento. [ride] La rivoluzione militare che si verifica nel corso dei due secoli non si ferma, non cambia solo gli eserciti spagnoli, che vincono i francesi a Cerignola, e poi sul Garigliano; va avanti, sia dal punto di vista delle tecniche sia della composizione degli eserciti. Però non dimentichiamoci che ancora negli anni Venti, e nei primi anni Trenta del XVII secolo, le carte spagnole non sono ancora tutte giocate. La Spagna può celebrare grandi vittorie.

Nordlingen per esempio, nel 1634. Una catastrofe per l’esercito svedese.

Nordlingen, certo. O Breda, nel 1625, famosa per il bellissimo dipinto di Velázquez. Queste vittorie si verificano sotto Filippo IV. Che la letteratura e la cultura del periodo esaltano. Lui è il rey planeta, viene rappresentato come il sole attorno a cui tutto ruota… Ovviamente nel 1643 con Rocroi arriva la prima pesante batosta, che avrà ulteriori ripercussioni in seguito. Ma questo non significa che la Spagna non abbia ancora un peso e un ruolo decisivi. E infatti la guerra nelle Fiandre dura la bellezza di ottant’anni, parte negli anni ‘70 del Cinquecento e si conclude solo nel 1648, con la pace separata tra la Spagna e le Province Unite, che vengono riconosciute come paese indipendente e protestante dato che a Westfalia viene confermato, e anzi esteso, il Cuius regio eius religio.

La resa di Breda, una grande vittoria di Spinola

Professore, facciamo un passo indietro. Dal 1648 al 1621, anno della morte di Filippo III e dell’ascesa appunto di Filippo IV. Il 1621 è un anno importante per la storia europea, anche perché scade la famosa Tregua dei dodici anni tra le Province Unite e la Spagna.

Sì, è un anno importante. Scade la tregua, e la Spagna, grazie al rapporto tra Filippo IV e il suo – usiamo un’espressione impropria – primo ministro, il conte-duca di Olivares, imbocca una nuova strategia internazionale rispetto a quella di Filippo III. La strategia del successore di Filippo II era stata una strategia difensiva, pacifista. La Tregua dei dodici anni era stata da più parti interpretata come una sorta di abbandono del progetto filippino, imperialistico. Ma con il conte-duca d’Olivares si riattiva il progetto imperialistico spagnolo, ce va avanti per dieci-quindici anni. Perché sottolineo questo? Per far capire che la Spagna della prima fase, e anche della seconda fase, della Guerra dei Trent’anni non è spacciata, ha ancora molte carte da giocare. E da un punto di vista militare ha ancora carte da giocare persino tra il 1674 e il 1678, cioè dopo Filippo IV; siamo con Carlo II, e il Mediterraneo torna al centro della scena internazionale con la rivolta di Messina, dove la Spagna ha nel complesso la meglio. E anche in quel caso svolge un ruolo importante il sottosistema Italia, perché giungono a Messina, per aiutare la Spagna, truppe da Milano, Napoli, dal resto della Sicilia. Il vero turning point per la storia spagnola si verificò solo durante la Guerra di successione spagnola. Con il trattato di Utrecht del 1714 inizia una nuova storia.

E il sipario sulle ultima vestigia dell’impero spagnolo calerà infine con la guerra ispano-americana del 1898. Ma torniamo a Filippo IV, professore. La Spagna che egli riceve da suo padre ha come regione leader la Castiglia, che però ha gravi problemi demografici, e una società economicamente, poco vitali, di rentier e aspiranti tali.

La Castiglia sotto Filippo IV è una regione debole e fragile dal punto di vista economico, ma forte e potente da quello politico, militare. È il cuore dell’impero, innanzitutto perché la classe dirigente è castigliana. Guardi da dove provengono gran parte dei viceré dei diversi reinos spagnoli: dalla Castiglia; oppure consideri le cariche apicali dei Consejos: dalla Castiglia pure loro. Ma c’è chi non è felice della situazione, come ci ricorda John Eliott: la “mafia” sivigliana intorno al conte-duca. Lo scontro alla corte di Filippo IV si combatte infatti proprio tra l’élite castigliana e quella andalusa.

E il conte-duca, professore, era appunto andaluso.

Capisce Catania? In sostanza il conte-duca si scontra con la vecchia aristocrazia castigliana, perché lui cerca di creare un proprio centro di potere.

Torniamo per un momento a Filippo IV. È un re abbastanza colto.

Non ci sono molto biografie di Filippo IV, a differenza di Filippo II che è oggetto di numerose opere. Nel mio libro riservo attenzione al Filippo IV “culturale”. Ad esempio al Filippo che traduce Guicciardini. La sua formazione è importante, e io le ho dedicato un intero capitolo, soffermandomi non solo sulla formazione filosofica, politica, giuridica e letteraria, ma anche su quella musicale, per esempio. Pochi sanno che suonava la viola da gamba, che aveva pure composto dei canoni a più voci.

Filippo IV trionfante

Appunto, parliamo del suo libro professor Musi. A quali fonti primarie ha attinto di più?

Guardi Catania, per le ricostruzioni della biografia io ho trovato ricchissimi i documenti degli ambasciatori. Oggi le fonti diplomatiche non vanno tanto di moda, lei lo sa, tuttavia c’è un ritorno di fiamma: non tanto in Italia, ma nella letteratura angloamericana. Un’attenzione non solo verso la diplomazia, ma anche verso le figure dei diplomatici, alle caratteristiche di élite internazionali e transnazionali di queste figure. Le relazioni degli agenti, degli ambasciatori, sono state per me fondamentali. Parlo sia di quelle edite, sia di quelle inedite.

Nel XIX secolo l’interesse per le fonti diplomatiche era ben diverso rispetto a oggi…

Certo, e infatti molte fonti sono edite proprio perché fra Ottocento e Novecento è stato fatto molto lavoro a riguardo, in un momento in cui la storia politica e diplomatica era la storia per eccellenza. Le ho trovate molto interessanti, anche se ovviamente vanno lette cum grano salis, cercando prima di tutto di ricostruire i contesti da cui provengono, e tenendo a mente la guerra che si combatteva tra diplomazie in quel periodo. Per esempio le relazioni e i resoconti della diplomazia francese sono chiaramente di parte, e cercano di perpetuare l’immagine di un re in parte bigotto, ma anche libertino. Un re quasi bipolare!

Lei nel libro usa esattamente questo termine.

Sì, nella sua accezione psicologica. Filippo IV è un libertino, gli piacciono molto le donne… però nella seconda fase della sua vita ha un ritorno di tutti i complessi di colpa, come si può leggere nelle 650 lettere tra lui e suor Maria de Ágreda, un rapporto epistolare straordinario a cui ho dedicato grande attenzione. E il re interpreterà le numerose disgrazie che gli pioveranno addosso come castigo di Dio per i suoi peccati. Disgrazie di ogni tipo: familiari, nascite e morti premature di figli, tracolli militari ecc.

Tra le fonti secondarie cita ovviamente Gregorio Marañón.

Lui, che era medico, fu molto acuto a individuare il piano psicologico del personaggio. Però era forse troppo incline a ridurre il peso di Filippo IV. Il suo lavoro appartiene alla tradizione storiografica che tende a sminuire il ruolo del rey planeta. Certo, tenga conto che la sua è una biografia del conte-duca di Olivares, non di Filippo IV. In ogni caso, io ho cercato di sfatare quella tradizione. Perché chiariamoci: Filippo IV non è Luigi XIV, non lo è nemmeno Carlo II, capisce cosa voglio dire? Chi viene dopo di lui, Carlo II, ha ben più problemi. Filippo IV è un personaggio di rilievo, che grazie alla sua formazione, e sicuramente grazie al contributo decisivo del suo primo ministro, riesce a gestire questa fase, che non è di sviluppo bensì di ascesa e declino. Deve gestire questi quarant’anni in un contesto davvero difficile. Detto in soldoni, più di così non poteva fare tutto sommato.

Il conte-duca di Olivares

Insomma, Marañón va letto più per Olivares che per Filippo IV…

Ecco, Marañón ci ha dato una biografia per certi versi molto affascinante del conte-duca, ma proprio perché concentrata soprattutto su di lui, su questa pasión del mandar, passione per il comando, come dice lui. Però l’opera si iscrive in quel filone altamente svalutativo di Filippo IV, che ha la sua apoteosi durante l’Illuminismo. E poiché la tradizione illuministica ha ancora un peso rilevante nell’Ottocento e nel Novecento, le conseguenze sono evidenti. Per esempio chi legge “Il secolo di Luigi XIV” di Voltaire tende a lasciarsi molto condizionare dai giudizi del filosofo francese.

Secondo lei quale fu l’errore più grave di Filippo IV?

Dunque, il problema fondamentale fu il passaggio dalla fase diciamo così “pacifista” del suo predecessore Filippo III all’imperialismo. Ma lì l’errore, se di errore possiamo parlare, non fu solo di Filippo IV, ma del duo Filippo IV-Olivares. Capisce, gettare la Spagna in un’avventura imperialistica in un periodo di crisi economica e politica, con nuovi stati che si affacciavano sulla scena internazionale, e che avevano risolto i problemi che li affliggevano sotto Filippo II… Filippo IV commise lo sbaglio di credersi un nuovo Filippo II, se così possiamo dire. [ride] Infatti da cosa fu data l’ascesa della Spagna di Filippo II al dominio mondiale? Da un’Inghilterra, quella di Elisabetta I, che sicuramente si stava formando come grande potenza, ma era ancora in stadio di formazione. Da una Francia in grandi difficoltà, eccetera.

Nei confronti di Filippo IV c’erano delle aspettative che probabilmente portavano sia lui che Olivares a immaginare l’impresa di un nuovo dominio mondiale in un periodo in cui questo non era più possibile. I tempi del rey prudente erano ormai passati, il mondo era cambiato e cambierà ancora di più nella seconda metà del Seicento. In più Filippo IV non era d’accordo con alcune scelte spregiudicate del conte-duca: come certe alleanze, o la politica italiana. E dunque da un lato c’era il sogno imperialistico che sfumava, dall’altro la mancata convergenza sulle linee di politica internazionale tra re e valido: tutto questo sicuramente indebolì il sistema imperiale nel contesto delle relazioni internazionali.

Tuttavia voglio ribadirlo. È sbagliato dire che la Spagna fosse finita già all’inizio della Guerra dei trent’anni. Il colpo lo subisce a partire dagli anni ‘40. E fu la Francia a colpirla al cuore, come ricorda John Elliott, sostenendo la Rivoluzione catalana. Fino a quando la Spagna aveva a che fare con guerre offensive, cioè proiettate al di fuori dei suoi confini, era una cosa; ma quando dovette fare i conti con problemi interni al suo sistema imperiale, allora tutto cambiò. Specialmente quando dovette affrontare una rivolta interna che durò la bellezza di undici anni, dato che il problema catalano si risolse soltanto tra il 1651 e il 1652. Filippo IV, ma anche il conte-duca di Olivares, dovettero affrontare in quei quarant’anni problemi enormi, che invece Filippo II non aveva dovuto affrontare. Voglio dire: il nonno non si trovò mai di fronte a una rivolta interna sostenuta da una potenza straniera.

Filippo IV a caccia

Sappiamo che persino la rivolta dei moriscos nelle Alpujarras fu comunque una crisi locale, al confronto della Rivoluzione catalana. E che ricevette, nella sostanza, ben poco appoggio dalla Sublime porta.

Certo. Il problema è che una guerra per così dire regionale come quella catalana divenne una guerra internazionale nel momento in cui la Francia intervenne. Ma per concludere la mia risposta alla sua domanda, Catania, un altro grave errore di Filippo IV fu non chiudere subito la questione olandese. La guerra pesò enormemente nei bilanci economici della Spagna, ma davvero enormemente. La guerra nelle Fiandre dissanguò i domini italiani della Spagna. Però posso dire, a parziale giustificazione di Filippo IV, che si trovò sempre in guerra. Non ebbe praticamente un anno di pace da quando salì al trono.

Parliamo un momento dell’Olivares. Sotto Carlo V e Filippo II i ruoli dei segretari erano ancora ancillari. Poi iniziò l’evoluzione con il Lerma, sotto Filippo III…

Lo ha spiegato bene Elliott. La figura del valido che si afferma prima attraverso il Lerma, e poi attraverso il conte-duca di Olivares, è cosa ben diversa da tutte le figure precedenti, perché egli crea un sistema di potere che tende a sostituirsi nella concessione di quella che era una prerogativa regia, cioè la gracia. Il valido diventa la mediazione principale tra il sovrano e i Consejos, che infatti vedono ridotta la loro funzione politico-amministrativa.

L’abilità di Filippo IV, dopo la caduta del conte-duca di Olivares, fu comprendere che non era più possibile tornare alla figura del valido, e a un sistema di potere come quello che aveva costruito l’Olivares. Il de Haro non è il conte-duca, è un’altra cosa. Anche lui cerca di costruire un suo sistema di potere, però Filippo IV lo controlla. E nel carteggio con suor Maria de Ágreda, che è sua consigliera politica oltre che spirituale, lo scrive, che ora governa lui. Il rey planeta ha compreso che non può più mettersi nelle mani di un valido, e accettare che questi crei il suo sistema autonomo di potere in qualche modo svincolato dal governo del re.

Filippo II, il “re prudente”

Del resto quando Antonio Pérez provò un po’ a fare i fatti suoi, sotto Filippo II, sappiamo tutti che fine fece…

Antonio Pérez non sarebbe mai durato tutto il tempo che durò il conte-duca di Olivares. [ride] Però, facendo un po’ di storia controfattuale, cosa sarebbe successo senza l’Olivares? Con i limiti, con i problemi anche psicologici che Filippo IV aveva, la Spagna non sarebbe riuscita, probabilmente, a gestire quella fase. Alla fine, dopo Olivares, Filippo IV capì che doveva circondarsi di personale amministrativo, che però doveva essere in grado di controllare. Come il de Haro che pure era un abile diplomatico, come dimostrò negoziando la pace dei Pirenei. Lui riuscì a non far perdere alla Spagna tutto quello che avrebbe potuto perdere.

Passando dalla Spagna del XVII secolo all’Italia del XX secolo… dicevamo prima che lei ha studiato con Galasso. Grande storico, ma anche politico, sia a livello locale (fu consigliere comunale a Napoli dal 1970 al 1994), che nazionale. Lei ha avuto una lunga frequentazione con lui.

Mezzo secolo di rapporti con Galasso.

E come furono i suoi rapporti con lui?

Furono rapporti tra allievo e maestro, ma anche di un’amicizia molto intensa, così intensa che io me lo sogno ancora di notte, è una parte integrante del mio vissuto. Vede, io ho vissuto tutta la sua evoluzione non solo storiografica e professionale, ma anche la sua vicenda politica. Gli fui particolarmente vicino in un periodo molto difficile. Lei sa che subì diverse incriminazioni da cui uscì totalmente pulito, ma la sua vicenda giudiziaria durò tredici, quattordici anni. Lui mi diceva sempre: “Aurelio, io farò una grande festa quando finirà il mio calvario giudiziario, comunque finisca, anche se vado in galera!». Purtroppo la maggior sofferenza in questi casi è proprio l’attesa, la lungaggine della procedura giudiziaria. Sa, eravamo tra il 1992 e il 1993, e si fece di tutta l’erba un fascio. Galasso fu additato persino come uno dei componenti della cupola politica-malavitosa napoletana. I media allora presero molti abbagli, spesso tennero conto esclusivamente delle requisitorie dei pubblici ministeri. Una cosa gravissima per uno storico, che si pone sempre il problema delle fonti.

In ogni caso Galasso era una mente acutissima, attenta a leggere e studiare tutto. Aveva una capacità straordinaria anche di interloquire, di ascoltare, di affrontare tutti gli aspetti delle scienze umane e sociali.

Galasso ha sempre sottolineato l’estrema complessità e frammentarietà di questo nostro paese.

E io condivido non tanto e non solo il carattere della frammentarietà, quanto il discorso che lui fece spessissimo nelle sue opere dell’unità nella diversità, di un piccolo stato che è un insieme di staterelli, e che ha dovuto fare i conti con questa sua articolazione. Che però oltre a costituire una difficoltà di costruzione nazionale rappresenta pure un valore aggiunto. Lui per esempio contestava, e anche io la contesto, quest’idea dell’anomalia italiana, cioè della deviazione del nostro paese rispetto a modelli di unità statale e nazionale come quella inglese. [ride]

Anomali rispetto a chi? Al Regno Unito dove la Scozia, il Galles, persino l’Inghilterra del nord vedono crescere l’indipendentismo? Alla Spagna, con la questione catalana? Alla Francia addirittura, dove la questione corsa non è stata ancora pienamente risolta?

Perfetto, lei Catania ha sottomano la realtà storica attuale dei paesi citati, che dimostra come ghettizzare l’Italia in una sorta di anomalia, di eccezione, sia scorretto. E infatti Giuseppe Galasso rifiutava quest’eccezione italiana. Perché ci sia un’eccezione occorre una regola. Dov’è la regola? Esiste? La sua era l’idea dell’unità nella diversità, che io ho fatto mia in un libro appena pubblicato: “Unità, disunità, mala unità. Miti, stereotipi e costruzioni storiografiche della storia d’Italia”. In questo libro ripercorro le varie rappresentazioni della storia d’Italia da Muratori in avanti, fino alla Storia mondiale dell’Italia curata da Giardina per Laterza, passando per Volpe, Croce, Salvatorelli, le diverse storie d’Italia prodotte nel secondo dopoguerra, inclusa quella diretta proprio da Galasso per Einaudi…

Galasso fu un grande organizzatore. Forse l’ultimo grande organizzatore. Chi dopo di lui ha saputo portare avanti un’opera come la Storia d’Italia UTET?

Nessuno, assolutamente. La sua è l’ultima realizzazione di una storia d’Italia di grandi prospettive. Dei volumi sono dedicati ai singoli stati pre-unitari, mentre dei volumi di cornice cercano di legare il tutto insieme, e far capire come l’Italia esista!

Ecco, l’Italia esiste. Può sembrare un’asserzione tanto evidente da suonare quasi ridicola, ma c’è una certa vulgata pubblicistico-politicante che da anni tuona contro il Risorgimento, e grida alla manipolazione, alla farsa, al complotto sanguinario…

No, l’Italia esiste, esiste. Ovviamente retrodatare l’Italia di oggi a un’immaginaria Italia di duemila o tremila anni fa è impossibile. Che però si affermi, progressivamente, un sentimento di italianità.. su questo non c’è dubbio. Nel Novecento la discussione fu su dove far partire la storia d’Italia. Per Volpe bisognava guardare ai longobardi, Croce sosteneva che occorresse partire dal 1871, anno in cui Roma diventa capitale del Regno d’Italia e si completa il processo di unificazione nazionale. Naturalmente lui si riferiva all’Italia come stato: se la consideriamo come un insieme culturale, linguistico, dotato di certe tradizioni, di una certa letteratura, cultura e intellettualità, allora la storia italiana parte da molto prima. Un’altra discussione molto accesa verteva sul ruolo dell’impero romano: unificò o no l’Italia?

Aurelio Musi nel suo studio

Diciamo che la pubblicistica contemporanea è in una fase di declino…

La vulgata oggi mette in discussione la stessa esistenza dell’Italia. Chi si è occupato in modo scientifico della storia d’Italia non ha mai messo in discussione quest’aspetto. La vulgata poi mette in discussione il rapporto tra nord e sud, tutto il processo di unificazione. Cosa fu, l’unificazione? Fu l’occupazione del sud da parte dei piemontesi? No, non fu questo, anche se le modalità di unificazione furono di certo criticabili; del resto il meridionalismo classico ha contestato questa modalità di unificazione, ma senza mettere in discussione il valore stesso dell’unificazione.

Sia chiaro: oggi mettere in discussione il valore dell’unità politica della penisola italiana significa solo produrre ulteriore frammentazione, e lacerazione tra nord e sud. Non bisogna cadere né nella visione nordista, leghista, né in quella dei neoborbonici, dei nostalgici del Regno delle Due Sicilie.

Però si tratta di due posizioni minoritarie, e ovviamente prive di basi scientifiche.

Certo. Però non dobbiamo demonizzarle. Ci sono, e il nostro ruolo di storici è quello di capire e comprendere perché si è arrivati a questa lacerazione, a queste posizioni minoritarie ma che hanno una rappresentazione politica. Sì, sono prive di basi scientifiche, ma il ruolo dello storico non è quello di giudicare ma di comprendere. Ecco perché noi storici dovremmo cercare di intervenire di più nel dibattito pubblico.

Questo senz’altro. Grazie professore.

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